Lavoro, diritti e cittadinanza. Dialogo tra Maurizio Landini e Luciano Gallino
Dopo anni nei quali il ‘lavoro’ è stato completamente rimosso dal dibattito pubblico e dall’attenzione del mondo politico, la manifestazione della Fiom dello scorso 16 ottobre ha nuovamente acceso i riflettori su di esso. I metalmeccanici della Cgil hanno saputo radunare attorno alla propria iniziativa una galassia vastissima di forze: come dare continuità a questa lotta? Cosa chiede il mondo del lavoro a un eventuale futuro governo di centro-sinistra?
dialogo tra Maurizio Landini e Luciano Gallino, a cura di Emilio Carnevali, da MicroMega 8/2010
LA SOCIETA' CIVILE CON LA FIOM - FIRMA L'APPELLO
MicroMega: Quella dello scorso 16 ottobre è stata una straordinaria manifestazione di popolo. Ciò che più ha colpito gli osservatori – oltre naturalmente ai «numeri» davvero impressionanti della partecipazione – è stata la capacità della Fiom di aggregare attorno alla propria iniziativa uno spettro di forze vastissimo, non solo soggettività legate alla condizione operaia: studenti, lavoratori della conoscenza, movimenti per l’acqua pubblica, associazioni di cittadini impegnati sui temi della legalità, popolo viola eccetera.
Qual è secondo voi la ragione di questo grande successo, di questa capacità della Fiom di parlare a tanta gente che con la questione di Pomigliano non ha direttamente a che fare?
Maurizio Landini: Io credo che la capacità del 16 di ottobre di unire tante persone, tanti soggetti diversi, nasca dall’aver proposto una «strada diversa» per uscire da questa crisi. Partendo dalla vicenda di Pomigliano noi abbiamo cercato di denunciare le disuguaglianze sociali di questo paese – nel mondo del lavoro e non solo – indicando al contempo la possibilità di perseguire un diverso modello sociale di sviluppo. È questo che ci ha permesso ad esempio di parlare con gli studenti, con i movimenti per l’acqua pubblica, con le associazioni che si battono per la tutela del territorio, per un modello produttivo sostenibile tanto da un punto di vista sociale quanto da un punto di vista ambientale.
L’idea di fare la manifestazione il 16 ottobre nasce il 1° luglio a Pomigliano: per noi è partito tutto da lì. Ma non abbiamo mai considerato Pomigliano un caso a sé: fin dall’inizio abbiamo capito che lì si giocava una partita più generale. Ciò che veniva messo in discussione era il diritto stesso delle persone di poter contrattare collettivamente la propria condizione in fabbrica. Si cercava in quel modo di far definitivamente saltare il sistema sociale, il sistema di relazioni industriali che bene o male in questi anni ha garantito una certa mediazione fra i diversi interessi. Per questo Pomigliano si portava dietro questo enorme carico di novità che è stato subito compreso nella sua importanza.
Ora però dobbiamo porci delle domande sul dopo 16 ottobre. Come andare avanti? Come dare seguito a un percorso che è stato in grado di mobilitare così grandi energie? Qui io farei una riflessione su due livelli.
Il primo è quello sindacale. Noi dobbiamo dare risposte a tutte quelle persone che sono scese in piazza e che hanno posto con forza la questione della condizione del lavoro in Italia. Dobbiamo difendere il contratto nazionale e cercare di ricostituire una riunificazione del lavoro che oggi è diviso, separato, frammentato. Allo stesso tempo dobbiamo affrontare la questione della democrazia sindacale, del diritto dei lavoratori a poter votare come condizione imprescindibile per ridefinire anche un’azione sindacale unitaria. Poi c’è un problema che riguarda la politica industriale, cioè il come debbono essere riorganizzate le imprese in questo paese. Sono tutte questioni tipicamente sindacali che richiederanno un impegno enorme da parte nostra.
La manifestazione del 16 ottobre ha però posto anche delle domande di natura più propriamente «politica». Io credo che moltissime persone che hanno partecipato a quel corteo si aspettino dalla politica una diversa attenzione verso il mondo del lavoro, un diverso approccio anche nel fare opposizione al governo Berlusconi: è ora di finirla di dire solo che «Berlusconi è cattivo». Occorre essere in grado di contrapporgli un diverso modello di produzione e un diverso modello di società.
Noi, come Fiom, dobbiamo sviluppare la nostra azione con quella autonomia che ci caratterizza e che è necessaria oggi per fare il sindacato. Ma non dobbiamo rinunciare a stimolare e sollecitare le forze politiche su questi temi, affinché anche il mondo della politica faccia la sua parte e torni a dare al lavoro la centralità che merita.
Luciano Gallino: La novità del 16 ottobre può essere colta da diversi punti di vista. Ma io credo vada ricollegata a quello che è successo e che sta succedendo in diversi altri paesi in questi mesi. Sembrava che pochissimi avessero capito qualcosa delle ragioni della crisi, dei suoi sviluppi, delle modalità con le quali sono stati distribuiti i suoi costi. Invece manifestazioni come quella del 16 ottobre e come altre che ci sono state nelle settimane successive in Francia, in Germania, a Bruxelles e altrove hanno mostrato che c’è tanta gente che ha capito quali sono i motivi della crisi e quanto sia alto il rischio che chi l’ha già pagata una volta la paghi eventualmente una seconda o una terza volta. È interessante ed è molto significativo che abbiano partecipato ai cortei e alle manifestazioni tanti giovani. E questo per diverse ragioni, a partire dal fatto che nemmeno la scuola spiega alcunché riguardo a quello che è successo. A scuola non si parla di globalizzazione, di delocalizzazioni, di crisi finanziaria eccetera. C’era da temere – e per certi versi c’è ancora da temere – che i giovani fossero indifferenti a queste cose così apparentemente «lontane» dalla loro condizione quotidiana e dai loro specifici problemi. E invece in tanti – giovani e meno giovani – sono andati in strada a gridare in sostanza: «Non vogliamo pagare una seconda volta la crisi»; in tanti hanno compreso che la crisi non è solo finanziaria, ma è anche industriale, affonda le sue radici nell’economia reale. I problemi sindacali che pone sono anche problemi politici, dal momento che la politica tutto sommato ha a che fare con questo fondamentale interrogativo: chi, e a quale prezzo, deve pagare la crisi?
Per questo motivo per il sindacato sarebbe molto importante avere una controparte politica, soprattutto in una fase di emergenza sociale come quella che stiamo vivendo. È vero che il sindacato deve avere la sua autonomia, ed entro questa sfera di autonomia deve portare avanti le sue vertenze, le sue battaglie, le sue iniziative. Ma è anche vero che deve avere – lo voglio dire in modo volutamente secco – un «partito di riferimento». E questo perché a un certo punto le proposte che costituiscono le piattaforme delle manifestazioni, le relazioni dei convegni, le richieste formulate dal microfono di un palco di fronte a una piazza strapiena, possono diventare leggi oppure rimanere dei semplici proclami. E se vogliamo che diventino leggi devono passare attraverso un parlamento, dove ci deve essere qualcuno che sostenga quelle istanze e le trasformi in norme dello Stato.
In ogni caso mi è parso che il 16 ottobre abbia dato dei buoni segnali. Dopo anni in cui sembrava che il lavoro fosse ormai fatto solo di camici bianchi, monitor di computer, scorrere di mouse, si è dato voce a una parte del mondo del lavoro – quella dell’industria, degli operai – ancora consistente e tuttavia completamente ignorata dalla politica.
Il salto di qualità che ora è necessario – lo ripeto – è fare in modo che tutto ciò non rimanga lettera morta, semplice materiale di studio, ma sia raccolto da formazioni politiche in grado di portare le istanze del 16 ottobre nelle istituzioni, là dove si approvano le leggi, si decidono i destini del lavoro, la distribuzione del reddito del paese, le regole della contrattazione e tante altre cose.
Landini: Io credo che se il sindacato non vuole scomparire debba percorrere un itinerario di evoluzione che punti a una completa autonomia. La Fiom è arrivata perfino a parlare di indipendenza. Nel senso che il sindacato deve essere in grado di costruire un proprio autonomo progetto sociale con il quale poi confrontarsi alla pari con le forze politiche e con i governi. Non può esserci secondo me un sindacato di governo o di opposizione: ci deve essere un sindacato democratico, autonomo, che si confronta alla pari con tutti e che costruisce questa sua capacità di confronto dentro un rapporto diretto con i lavoratori.
Detto questo sono assolutamente d’accordo sul fatto che occorrono delle forze politiche – di sinistra o perlomeno di centro-sinistra – che si facciano carico dei problemi del mondo del lavoro, che propongano un diverso punto di vista su come uscire dalla crisi e che ovviamente siano in grado di tradurre tali propositi in concrete misure di cambiamento. Penso ad esempio a quanto sarebbe importante fare una legge sulla rappresentanza, cancellare o modificare sostanzialmente la legge 30, adottare provvedimenti per il sostegno dei redditi, promuovere finalmente una politica industriale con un intervento pubblico che in questo paese non esiste.
Penso che il problema di un concreto «sbocco politico» per molte azioni sindacali che alludono a un più generale modello diverso di società sia effettivamente assai rilevante. Mi auguro quindi che la manifestazione del 16 ottobre possa contribuire a smuovere le acque.
Negli ultimi anni non ci sono state molte differenze fra le varie forze politiche e i vari schieramenti nel modo di affrontare i problemi del mondo del lavoro. È quasi come se ci fosse stato un «pensiero unico»: di fronte ai fenomeni che hanno accompagnato il processo di globalizzazione si è tentato al più di «limitare i danni». Non si è cercato di elaborare un approccio diverso, alternativo.
È evidente quindi che fra le richieste che con più forza sono state sollevate dalla piazza del 16 ottobre c’era quella di un cambiamento radicale del quadro politico. A partire – lo dico in maniera molto esplicita – dalla necessità di cambiare questo governo.
Vorrei ricordare che mai come adesso il governo – assieme alla Confindustria – sta mettendo in discussione tutto il sistema dei diritti e delle regole sul quale era stato costruito il nostro patto sociale.
Voglio fare un esempio molto concreto. Ciò che nel 2001 c’era scritto nel Libro bianco del ministro del Lavoro Maroni oggi viene messo sistematicamente in pratica. Penso all’assalto al contratto nazionale di lavoro, al Collegato lavoro appena approvato dal parlamento, alla modifica del ruolo del sindacato (che è destinato a diventare non più un soggetto contrattuale ma, con la bilateralità, un soggetto che assieme alle imprese gestisce le assunzioni, la formazione e tutto il resto). Penso agli annunci fatti sulla necessità di tornare a mettere in discussione lo Statuto dei diritti dei lavoratori.
Di fronte a tutto ciò mi pare evidente che c’è bisogno di un cambiamento sostanziale. Per realizzare gli obiettivi che la manifestazione del 16 di ottobre si è posta sul piano sindacale è evidente che c’è bisogno anche di un cambiamento delle politiche del governo. E perché questo cambiamento di politiche avvenga è necessario – sebbene non sufficiente – un cambiamento anche di governo. Questo noi lo abbiamo detto in modo molto esplicito.
Quando però parlo di autonomia è perché penso che il sindacato non debba prendere in prestito da quella o da quell’altra forza politica un’analisi di quello che sta succedendo nel mondo e in Italia. Deve avere un proprio punto di vista, una propria elaborazione all’altezza della complessità delle sfide che abbiamo di fronte. Tanto più che il problema è condiviso dalle stesse forze politiche. Lo dico in modo molto chiaro: se la sinistra e il centro-sinistra in questi anni hanno perso è perché anche sul piano culturale, sul piano dei valori, sono stati fatti passare altri messaggi; si è persa la capacità di rappresentare chi lavora. In questi anni le persone che per vivere debbono fare un lavoro dipendente non sono diminuite: sono aumentate. Ed è aumentata la loro precarietà e la loro possibilità di essere sfruttate.
Noi della Fiom siamo pienamente consapevoli di non poter fare tutto da soli. Pur con la nostra forza, pur con il grande consenso che abbiamo saputo attirare su di noi, sappiamo bene che non possiamo cambiare da soli questa situazione. Per questo motivo abbiamo concluso la nostra manifestazione chiedendo ad esempio che tutta la Cgil arrivi alla proclamazione dello sciopero generale. C’è bisogno di dare una continuità a questa domanda di cambiamento che il 16 ottobre ha dimostrato essere presente e che può unificare in modo nuovo anche soggetti che in questi anni sono stati tra loro divisi e separati. C’è proprio bisogno di un cambiamento! E anche le forze che si dicono di opposizione a questo governo abbiano la capacità di essere un’opposizione vera! Non credo che in una situazione così grave il problema sia quello di limitare i danni. Credo ci voglia una strategia sindacale ma anche politica che sia in grado di trasformare questa società, che vada finalmente ad aggredire le contraddizioni di fondo che stanno emergendo con questa crisi. Le disuguaglianze sociali che si sono prodotte e sono cresciute in questi anni sono giunte a un livello assolutamente inaccettabile.
Gallino: Mi pare che su questo punto non ci sia molto da aggiungere. Direi soltanto che il sindacato non corre assolutamente il rischio di dover accettare una lettura di ciò che accade nel mondo subalterna a quella proveniente dalla politica, per il fatto che questa semplicemente non esiste. Fatta eccezione per singole personalità, dal mondo politico, dai partiti di centro-sinistra e, ahimè, anche da quelli della sinistra vera e propria, non è venuta fuori alcuna seria analisi di quel processo eminentemente politico che è stato ed è la globalizzazione. Il livello di elaborazione teorica è stato fin qui del tutto carente.
La manifestazione del 16 ottobre ha messo in evidenza molto bene come allo stato attuale ci siano più idee e analisi realistiche nel mondo sindacale che nel mondo politico.
C’è dunque da augurarsi che il grande successo di quella manifestazione possa contribuire a far capire al centro-sinistra italiano che occorre mettersi al lavoro per elaborare un’analisi critica della realtà, un’interpretazione del mondo che non sia una specie di fotocopia sbiadita di quella del centro-destra. Ci vuole un salto di qualità non solo organizzativo, propagandistico o elettorale, ma anche nella capacità di costruzione teorica, di comprensione delle dinamiche reali dei processi nei quali siamo immersi e che bisognerebbe cercare di governare assumendo un punto di vista autonomo rispetto a coloro che quei processi hanno attivato e guidato.
Negli ultimi trent’anni è intervenuto un mutamento davvero epocale. Intorno al 1980 è iniziata una sorta di controrivoluzione: sono state messe in discussione tutte le conquiste – in prevalenza sindacali, ma anche politiche – che i lavoratori, soprattutto in Europa, avevano ottenuto nel secondo dopoguerra. Anche in Italia erano stati introdotti miglioramenti di grandissimo peso: la settimana corta, le quattro settimane di ferie retribuite, lo Statuto dei lavoratori, un consistente miglioramento nella distribuzione del reddito. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta il trend però si è invertito e tutto è vorticosamente peggiorato.
La controrivoluzione si è dispiegata grazie alla possibilità di portare la produzione là dove salari, diritti, tutele ambientali, orari di lavoro, condizioni di vita erano sostanzialmente più bassi, inferiori agli standard affermatisi in Europa occidentale e negli Stati Uniti. Le delocalizzazioni hanno rappresentato soprattutto il tentativo – un tentativo, occorre riconoscere, molto ben riuscito – di rimettere nell’angolo il movimento dei lavoratori, di distruggere le sue conquiste. E questo facendo pagare a interi paesi un costo pesantissimo. Ad esempio gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato il loro sistema industriale: l’industria americana è una frazione di quello che era trenta o quarant’anni fa, perché hanno portato tutto in Cina, in India, in Madagascar, in Indonesia, nelle Filippine e in mille altri luoghi dove invece di 25 dollari l’ora, i lavoratori erano pagati 50 centesimi, o 1 dollaro quando andava bene. L’Europa gli è poi corsa dietro, ha fatto la sua parte anche con le liberalizzazioni del capitale degli anni Ottanta, ponendo tra l’altro le premesse per una crisi – al tempo stesso finanziaria e industriale – che è scoppiata nel 2007-2008, ma è cominciata in realtà negli anni Duemila, e sta tuttora procedendo, come mostrano sia i dati sulla disoccupazione nella Ue e in Usa, sia le condizioni dei bilanci pubblici di molti paesi europei.
Nell’insieme si è trattato di una grande redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto ottenuta frammentando e sparpagliando la produzione in centinaia di paesi per ottenere quei risparmi di costo consentiti dalle enormi differenze di salari e di diritti che esistevano tra il mondo occidentale, Stati Uniti compresi, e i paesi emergenti.
È vero che attualmente la situazione non è più quella del 1980. I salari cinesi, indiani, filippini e degli altri paesi emergenti sono saliti. Ma resta fortissima la spinta a comprimere ulteriormente i salari e i diritti dei lavoratori dei paesi occidentali. Molto di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, compresa la vicenda di Pomigliano, va inserito in questo quadro più generale.
Landini: L’affresco appena fornito da Gallino ci fa vedere quanto sia difficile in un contesto del genere fare il sindacato. È certamente molto più difficile oggi che trenta, quarant’anni fa. Che fare allora? Io credo che in primo luogo occorra porsi il problema di come riunificare il mondo del lavoro non più a un livello solo nazionale, ma a un livello europeo e anche più generale.
Sono d’accordo con Gallino quando colloca la data di inizio di questa controrivoluzione nel 1980. In Italia quella data ha un significato molto denso e molto preciso anche da un punto di vista simbolico: ci fu la sconfitta alla Fiat. Il superamento della divisione del mondo in due blocchi ha poi avuto come innegabile conseguenza il fatto che il capitalismo, diciamo così, non ha più trovato di fronte a sé barriere di nessun genere. Un capitalismo che fra l’altro è cambiato tantissimo in un lasso di tempo relativamente breve: da industriale si è trasformato in «capitalismo finanziario», nel quale domina appunto la finanza e quindi il profitto a breve, che prevale su ogni altra cosa.
Il ruolo degli Stati nazionali nelle funzioni di governo e di controllo dell’economia è praticamente venuto meno, tanto che fra le ragioni che hanno determinato questa crisi ci sono una disuguaglianza sociale sempre crescente e una precarietà dilagante, oltre che una finanza cui è stato permesso di fare tutto ciò che voleva.
Oggi è in corso una spietata competizione tra paesi e tra lavoratori che appare inarrestabile: in giro per il mondo di persone pronte a lavorare per un euro o un dollaro in meno di quello che prendi tu ne puoi trovare finché ne vuoi…
Allora io dico: di fronte a una situazione del genere dobbiamo ritrovare l’ambizione di riflettere – sia da un punto di vista sindacale che da un punto di vista politico – su un modello di sviluppo, su un modello sociale completamente diverso. Come si esce da questa crisi? Io vedo la necessità di rimettere al centro della nostra iniziativa l’idea di contratto.
Faccio questo semplice esempio: negli Stati Uniti la crisi di grandi gruppi come Chrysler o General Motors – cioè di aziende che erano arrivate alla bancarotta – nasce anche dall’assenza di un adeguato Stato sociale in quel paese: le pensioni sono pensioni aziendali, la sanità è sanità aziendale… non c’è nemmeno un contratto nazionale che stabilisca dei minimi sotto i quali nessuno può scendere! Ad esempio negli Stati Uniti avevano permesso a gruppi stranieri – penso ai grandi gruppi giapponesi, ma non solo – di applicare condizioni inferiori sullo stesso territorio americano di quelle applicate dalle aziende «locali».
Ma la situazione non è troppo differente in Europa. Se uno si chiede: perché la Fiat va in Serbia? Perché la Fiat va in Polonia? Perché va in altri paesi? (Stiamo parlando di paesi europei, non del Sud-Est asiatico!) Semplice: perché in Europa siamo in presenza di sistemi di diritti e di condizioni di lavoro sostanzialmente diversi. Questa frammentarietà, questa eterogeneità mette in discussione anche le conquiste nelle zone dove fino a poco tempo fa era stato realizzato il compromesso più avanzato.
Io non mi nascondo che questa crisi mette in discussione l’esistenza stessa del sindacato come soggetto che è in grado di contrattare collettivamente le condizioni di chi lavora. C’è davvero il rischio che tutto ciò venga meno, che si compia questo enorme passo indietro oserei dire «di civiltà». Di fronte all’importanza della sfida che ci troviamo di fronte oggi, il sindacato deve dunque muoversi con un disegno generale, con una strategia di ampio respiro. Le cose che si fanno giorno per giorno debbono essere inserite all’interno di una costruzione più articolata che vada nella direzione di una progressiva riunificazione contrattuale. Io ad esempio penso che in Italia – dove si sta cercando di andare verso il superamento dei contratti nazionali – noi dovremmo rispondere puntando a un unico contratto dell’industria, un unico contratto dei servizi, un unico contratto di tutto il pubblico impiego. Naturalmente inserendo queste azioni in una dimensione europea, puntando a forme di unificazione e standard condivisi in tutto il continente.
Poi c’è il discorso sull’urgente necessità di una diversa politica industriale. Io non credo che si possa uscire da questa crisi puntando semplicemente a una crescita dei consumi privati. Credo invece che sia necessario rimettere al centro la qualità della struttura produttiva e un’idea diversa dell’uso dei beni comuni. Occorre in altre parole un intervento pubblico che accompagni anche l’economia privata verso obiettivi di sostenibilità ambientale.
La discussione che riguarda il ruolo del sindacato e la difesa dei contratti nazionali di lavoro va collocata all’interno del quadro più ampio che ho appena tratteggiato.
Fino alla controrivoluzione cominciata nel 1980, le imprese non avevano messo in discussione l’assunto per cui tra il mercato e la prestazione lavorativa dovessero intervenire dei vincoli sociali, vincoli appunto mediati attraverso un contratto. Quest’ultimo era uno strumento di coesione sociale riconosciuto anche dalla controparte. Oggi tutto questo rischia di saltare. Il punto vero che è in questione a Pomigliano – al di là dell’oggettivo peggioramento delle condizioni di lavoro – è proprio questo. Dentro quell’accordo viene messo in discussione il diritto delle singole persone, se vogliono, di potersi collettivamente organizzare per contrattare la propria prestazione lavorativa. L’impresa ritiene che le persone non possano più autonomamente contrattare guardando anche ai propri interessi di lavoratori: debbono semplicemente aderire alle direttive aziendali e sostenere gli obiettivi dell’impresa. Questi ultimi debbono essere riconosciuti nella loro assoluta centralità.
Io penso che un’idea di questo genere non solo sia autoritaria, ma non sia nemmeno in grado di fare i conti con i processi che abbiamo appena richiamato e quindi con una strategia lungimirante ed efficace di uscita dalla crisi.
Gallino: Landini ha toccato dei punti importanti. Bisogna tenere presente che le difficoltà fondamentali che le organizzazioni dei lavoratori incontrano oggi derivano dal fatto che sono andate in pezzi le «tre unità» sulle quali si è fondata l’affermazione storica del sindacato. Sono andate in pezzi l’«unità di padrone», l’«unità di tetto» e l’«unità delle condizioni di lavoro». Dagli albori della storia sindacale, quando dopo il 1824, l’anno in cui furono abolite le leggi contro le «combinazioni» sindacali, nacquero in Inghilterra le prime Trade Unions, fino a circa la metà del XX secolo, il padrone era uno, il padrone era il signor tale o il signor tal altro, oppure la tale società. Ma era uno e uno soltanto.
Il tetto era comune: 500, 1.000 o 10 mila operai si trovavano nella stessa fabbrica, sotto lo stesso capannone ed erano tutti, per così dire, «a portata di voce». Non a caso, per decenni uno degli strumenti principali dell’attività sindacale, della quotidiana attività dei sindacalisti, è stato il megafono. Sotto quell’unico tetto si poteva parlare simultaneamente a migliaia di persone.
Infine il contratto e le condizioni di lavoro praticamente erano uniche. Se uno era metalmeccanico aveva un contratto da metalmeccanico. Punto. Lavorava con un certo contratto, in una certa fabbrica meccanica, sotto un certo padrone.
Tutto questo a partire dalla seconda metà del Novecento, ma in modo ancor più accelerato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso (come si è già detto), è andato in pezzi. In moltissimi casi nessuno sa chi in realtà sia il padrone. Anche quando il padrone sembra unico – come ad esempio la Fiat – in realtà ci troviamo di fronte a un’attività manifatturiera che una grande corporation di proprietà di dozzine di azionisti, tra i quali primeggiano investitori istituzionali sconosciuti ai più, ha frammentato fra centinaia o migliaia di società piccole, medie e grandi sparse in tutto il mondo.
Non parliamo poi del «tetto». I 10 mila operai tutti insieme a lavorare non ci sono praticamente più. Quanti sono gli stabilimenti industriali italiani nei quali ci sono non dico 10 mila ma anche solo 2 mila operai sotto il medesimo tetto? Credo che si contino sulle dita di una mano…
Il meccanismo dell’esternalizzazione ha sistematicamente portato fuori dalle aziende madri la produzione dei componenti in tutti i campi produttivi immaginabili e contemporaneamente si sono moltiplicati i contratti. In Italia abbiamo più di 40 tipi di contratti atipici, ma abbiamo anche i «terzisti» che vanno a lavorare all’interno di una singola azienda senza essere legati ad essa da alcun vincolo contrattuale.
Sotto il medesimo tetto si trovano ora poche centinaia di persone e magari fra loro ci sono 10 o 15 contratti diversi stipulati da 5 o 6 aziende diverse: qualcuno è a progetto con una tal ditta, qualcuno è temporaneo con una tal altra ditta, qualcuno è in affitto e via dicendo.
Per il sindacato tutto ciò rappresenta una terribile montagna da scalare. E se non si modifica la morfologia di quella montagna penso che la vita per il sindacato sarà sempre più dura. Infatti la frammentazione dei padroni e delle condizioni di lavoro comporta anche un’enorme frammentazione di interessi: anche persone che lavorano gomito a gomito in realtà – in queste condizioni – di interessi comuni ne hanno ben pochi.
A questo si può aggiungere – e fa piacere ritrovare questa sensibilità nei ragionamenti di un leader sindacale come Landini – che questo modello di produzione appare sempre più insensato. In un mio articolo recente ho riportato l’esempio di un elettrodomestico le cui 30 o 40 parti percorrono 30 mila chilometri attorno al mondo prima di essere assemblate e finire sullo scaffale di un supermercato. Questo avviene per gli elettrodomestici, per le auto e praticamente per tutti gli altri manufatti; e le motivazioni sono di carattere eminentemente finanziario: quanto più è piccola l’azienda che mi produce il tal componente che sta nelle Filippine o altrove, tanto più facile è venderla, passarla a qualcun altro o chiuderla del tutto.
È una follia ecologica che si sta anche rivelando una follia industriale.
Dunque il grande problema che ci troviamo a fronteggiare è questa estrema frammentazione. È un problema difficilissimo da risolvere, ma se non partiamo da qui le cose andranno sempre peggio.
Landini: Questo discorso di Gallino sul «tetto» è molto efficace, rende molto bene l’idea della situazione. Quando io, trent’anni fa, ho cominciato a lavorare sono stato assunto come apprendista dopo 12 giorni di prova. Ma in quell’azienda lì tutti – dal centralinista al progettista – avevano lo stesso contratto ed era indubbiamente più facile fare attività sindacale.
Oggi le imprese, per comprimere i costi, hanno esternalizzato, moltiplicato i contratti, fatto massiccio uso di cooperative, appalti, subappalti eccetera. Nel nostro settore ci sono dei casi davvero clamorosi. Se uno entra in un cantiere navale, ogni mille dipendenti di Fincantieri ne trova altri 3-4-5 mila di ditte che lavorano per costruire la stessa nave, ma che hanno contratti diversi: sono impiegati da ditte in appalto, da cooperative, con diritti e inquadramenti professionali molto differenti l’uno dall’altro.
Per i petrolchimici il discorso è lo stesso. E anche in una classica azienda metalmeccanica, se si va in magazzino i lavoratori sono gli stessi, fanno lo stesso lavoro di prima, ma gli viene applicato un altro contratto.
Di fronte a tutto ciò io credo che la prospettiva su cui bisogna lavorare è quella di arrivare a un unico contratto nel settore industriale. Sennò la divaricazione e la contrapposizione fra situazioni e interessi diversi non la si potrà mai superare.
Allo stesso modo io penso che sia assurdo avere 40 diversi rapporti di lavoro. Quando in un paese esistono, oltre al contratto a tempo indeterminato, il contratto a termine regolato per poter affrontare determinate situazioni, il contratto part-time (che adesso può essere giornaliero, settimanale, mensile) e uno che inquadri il periodo di formazione, io credo ci siano tutti gli strumenti dei quali si può obbiettivamente avere bisogno per dare risposte alle varie esigenze di tipo tecnico-organizzativo nei più disparati processi di produzione.
Questa frammentazione pazzesca alla lunga non serve nemmeno alle imprese.
Certamente non dobbiamo nasconderci le difficoltà, che possono essere individuate anche all’interno dello stesso campo sindacale. È inutile girarci intorno, nascondersi dietro a un dito: in Italia ci sono altri sindacati – penso in particolare a Cisl e Uil – che hanno fatto le proprie scelte non considerando più la contrattazione collettiva come lo strumento principe del lavoro sindacale. Penso che il loro ragionamento si fondi su una sorta di presa d’atto che non esistono alternative e bisogna ridurre il danno. E a questo punto è meglio che un sindacato si metta a gestire le assunzioni, la formazione, e tutti questi aspetti all’interno di una cornice bilaterale.
Ma questa non è la sola strategia presente in Europa in ambito sindacale. Nei giorni scorsi abbiamo incontrato i sindacati francesi, spagnoli e tedeschi in vista del Congresso della Federazione europea dei metalmeccanici che si svolgerà nel 2011. L’oggetto della discussione è stato l’unificazione delle tre categorie industriali più importanti: i tessili, i chimici e i metalmeccanici. In Europa si discute da un pezzo di cose sulle quali qui in Italia siamo sinceramente un po’ in ritardo. Aggiungo che in Francia, in Spagna e in diversi altri paesi europei stiamo assistendo a mobilitazioni molto consistenti che per la prima volta dopo trent’anni vedono l’unità di tutte le organizzazioni sindacali. L’Italia in questa fase è l’unico paese che sta andando esattamente nella direzione opposta.
Qui da noi la divisione è maturata anche a causa di un disegno tutto politico perseguito dall’attuale governo. Ma le organizzazioni che ritengono che oggi non c’è alternativa a «ridurre il danno» secondo me si sbagliano.
Quanto all’assurdità di certe delocalizzazioni alle quali ha fatto cenno prima Gallino, faccio un esempio tratto da una esperienza dei giorni scorsi. Alla Ducati Energia di Bologna, azienda del dottor Guidi, sono stati licenziati quattro tra quadri e dirigenti addetti al controllo qualità, perché secondo l’azienda c’erano dei difetti in prodotti provenienti dalla Cina. C’è stata una rivolta in fabbrica, hanno scioperato tutti – cosa che la dirigenza dell’azienda certo non si aspettava. Spero che nei prossimi giorni si possa trovare una soluzione, ma ad ogni modo questo della Ducati rappresenta l’ennesimo caso che ci indica una cosa molto semplice: e cioè che non è così facile andare a produrre in giro per il mondo dove costa meno; non è detto che dal punto di vista produttivo, industriale sia quella la soluzione più efficace.
Questo discorso ci porta a un ragionamento più generale che credo sia giunto il momento di affrontare anche da parte del sindacato. Credo sia opportuno cominciare a riflettere su «che cosa è il prodotto» oggi. Faccio l’esempio del settore dell’auto. Io sono sempre più convinto che dobbiamo entrare nell’ordine di idee di non pensare più semplicemente al prodotto come alla singola auto, al singolo camion o al singolo trattore. Dobbiamo cominciare a ragionare sul fatto che il prodotto deve diventare la «mobilità», cioè come si spostano le persone e come si spostano le merci e – di conseguenza – come dobbiamo costruire le città.
Come dicevo prima, per affrontare queste questioni il sindacato deve diventare sempre di più un soggetto capace di pensare a un diverso modello di sviluppo.
Gallino: Landini ha fatto un interessante accenno alla situazione del movimento sindacale in Europa che penso sia importante approfondire, anche – perché no? – con uno sguardo più esteso.
Il sindacato è stato oggetto di un attacco formidabile a partire dalla fine degli anni Settanta. Negli Stati Uniti il presidente Reagan – eletto proprio nel 1980 – ha condotto una sistematica operazione di demolizione dei potenti sindacati americani cominciando con il licenziamento di 13 mila controllori di volo. E non parliamo di quello che è successo nel Regno Unito con i governi Thatcher. Ma qualcosa di più o meno simile – se pure con un diverso livello di intensità dello scontro – è avvenuto anche negli altri paesi europei.
Il primo risultato di quella stagione e di quelle politiche fu che l’adesione ai sindacati da parte dei lavoratori europei e americani scese drammaticamente. Nell’industria manifatturiera americana il livello di sindacalizzazione è sceso di 20 o 30 punti percentuali ed è oggi ai minimi termini. Negli Usa il dato medio nazionale è tenuto un po’ più in alto dall’iscrizione ai sindacati del pubblico impiego, in genere insegnanti o funzionari degli enti locali, ma nell’industria il sindacato è diventato davvero una presenza quantitativamente modesta a causa degli attacchi di cui è stato sistematicamente oggetto.
Detto questo penso che sul piano globale, sul piano internazionale, i sindacati qualcosa di più avrebbero potuto fare. In primo luogo cercando di far capire maggiormente quello che stava succedendo con i processi di globalizzazione. In secondo luogo alzando un po’ di più la voce.
Faccio un esempio concreto. Nel 2008, mi pare il primo gennaio, il governo cinese ha introdotto una nuova legge sul lavoro che prevedeva tra l’altro l’innalzamento del minimo salariale a – attenzione – 75 centesimi di dollaro l’ora! Essa prevedeva anche l’introduzione di una modesta indennità di licenziamento. L’anno precedente, in vista dell’approvazione di questa legge, le camere di commercio degli Stati Uniti e dell’Unione Europea avevano fatto fuoco e fiamme dicendo che se il costo del lavoro balzava così in alto, cioè saliva da 65 centesimi – quanto pagavano numerose multinazionali – a nientemeno che 75 centesimi di dollaro, le loro imprese avrebbero dovuto delocalizzare, perché a quei costi non potevano più lavorare in Cina.
Una trentina di deputati, sia democratici che repubblicani, avevano quindi scritto all’allora presidente George W. Bush una lettera dicendo di vergognarsi per il fatto che le rappresentanze di aziende americane prendevano partito in questo modo contro un miglioramento modestissimo delle condizioni di lavoro in Cina.
La domanda è questa: qualcuno ha sentito al proposito la voce del sindacato? I sindacati americani ma anche quelli europei, quelli italiani, francesi, tedeschi eccetera si sono per caso mobilitati per dire che bisognava tutelare i diritti dei lavoratori cinesi ad avere un salario un po’ meno indecente? O per sostenere le altre migliorie introdotte da quella legge contro la quale le camere di commercio si erano scagliate?
Non mi pare di ricordare alcun tipo di mobilitazione, alcun tipo di azione significativa. E invece c’erano almeno due ottime ragioni per difendere ad alta voce i diritti dei lavoratori cinesi: in primo luogo perché sono lavoratori anche quelli, sono esseri umani che hanno pari dignità di un lavoratore europeo o americano; in secondo luogo perché ci conviene: è infatti nel nostro interesse far salire quei salari e quei diritti, perché tutti conosciamo bene le dinamiche della competizione fondata su bassi salari e bassi diritti.
Non mancano le esperienze dalle quali prendere esempio. Nel settore dell’abbigliamento i sindacati americani si sono dati da fare per prendere accordi soprattutto con l’India, che è il grande tessitore e sarto del mondo, e hanno fatto in modo che in India fossero migliorate le condizioni dei lavoratori. E tutto questo è stato fatto partendo da un sindacato che ha base a New York, dove l’industria del tessile, dell’abbigliamento di massa, ha ancora un qualche peso, nonostante la falcidia terribile subita con i processi di delocalizzazione.
A settembre a Bruxelles la Confederazione europea dei sindacati si è fatta sentire con una manifestazione abbastanza vivace. Salvo poi permettere al suo segretario generale di dirsi in sostanza d’accordo con il presidente Barroso circa la necessità di ridurre di molto – di smantellare, se uno non vuole girare intorno alle parole – il modello sociale europeo, perché ormai non è più sostenibile. Detto da un rappresentante di una grande confederazione sindacale è una cosa che lascia un po’ perplessi.
Ora, è evidente che il sindacato ha i suoi problemi che deve affrontare giorno per giorno, alba per alba, ora per ora. Però sono convinto che qualche iniziativa un po’ più energica per far salire i salari e i diritti dei lavoratori dei paesi emergenti la potrebbe prendere. Per i due motivi che ho ricordato: perché è giusto e perché ci conviene.
Landini: Io credo che occorra riconoscere che su queste cose c’è un effettivo ritardo da parte dei sindacati. Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità. Faccio questo semplice esempio. Ciò che ha portato molte imprese a delocalizzare verso i paesi dell’Est Europa non è solo il fatto che lì c’era un costo del lavoro inferiore. E che lì non c’erano proprio i contratti. E inoltre c’era un «modello sociale» compatibile con oneri bassissimi dal punto di vista fiscale: niente sanità pubblica, niente scuola pubblica eccetera.
Abbiamo costruito l’Europa unita nella moneta ma non l’«Europa sociale», l’Europa unita nei diritti, nelle garanzie, negli standard di tutela sociale.
Un po’ di tempo fa Marchionne è andato in televisione da Fabio Fazio e ha rilasciato quella famosa intervista che non ha mancato di suscitare numerose perplessità anche al di fuori del mondo sindacale. Tutti hanno detto, allarmati: la Fiat vuole andare via dall’Italia.
Nei giorni successivi ha poi smentito dicendo che non era vero, che la Fiat vuole rimanere in Italia. E allora di nuovo tutti contenti. In realtà cosa ha proposto Marchionne e cosa sta facendo per rimanere in Italia?
A Pomigliano ha annunciato di voler fare una newco, cioè una nuova società per riassumere i lavoratori che sono già suoi dipendenti e che però, per essere riassunti e continuare a lavorare, debbono sottoscrivere individualmente tutte le condizioni presenti nel famigerato accordo che ha ricevuto la bocciatura di quasi il 40 per cento degli operai.
Marchionne ha inoltre annunciato che questa newco potrebbe non aderire alla Confindustria ed eventualmente non applicare il contratto nazionale. Lo stesso percorso sembra previsto per Mirafiori.
Lo ritengo un fatto di una gravità inaudita. Non è mai successa una cosa del genere nella storia delle relazioni sindacali italiane. Ed è l’ulteriore dimostrazione che senza una strategia sindacale che punti a riunificate, alzando i diritti e le condizioni di lavoro là dove sono più bassi, succederà esattamente l’opposto, e cioè che là dove eventualmente avevi ottenuto dei diritti, avevi strappato delle conquiste, ti verranno progressivamente cancellati.
Io comunque in questo discorso vorrei inserire anche una forte denuncia del ritardo della politica. La politica – e questo è un altro messaggio che abbiamo voluto lanciare il 16 ottobre, per tornare al tema sul quale si è aperto il nostro dibattito – deve tornare a occuparsi dell’interesse generale del paese. Bisogna smetterla di dire che l’interesse dell’impresa coincide con l’interesse del paese.
Purtroppo alla diffusione di questo discutibilissimo assunto ha contribuito anche la grande debolezza del sindacato (oltre al diretto intervento di chi ha precisi interessi nel far pensare che sia così). Negli ultimi anni il numero dei lavoratori dipendenti in Italia è aumentato, ma è calato il numero delle persone che si sono iscritte al sindacato. Lo stesso fenomeno è stato registrato nel resto d’Europa, anche nei paesi dove il sindacato era tradizionalmente più forte e radicato.
Di fronte al rischio concreto di una spirale calo degli iscritti-indebolimento del sindacato-ulteriore calo degli iscritti, il nostro dovere, il nostro ineludibile compito se vogliamo sopravvivere, è quello di procedere verso l’innovazione: dobbiamo mettere al centro la contrattazione, il diritto collettivo delle persone a poter contrattare la propria condizione, e allo stesso tempo riaprire una discussione su ciò che si produce, su quale modello sociale è sotteso a determinati processi industriali. Altrimenti da questa crisi non si esce. Anzi, rischiamo di pagarla due, tre, quattro volte se non si interviene sulle ragioni che l’hanno determinata.
Ciò che spesso – anche nel rapporto con la politica – mi fa arrabbiare è l’impressione che si cerchi di curare una malattia così grave come questa crisi semplicemente tenendo sotto controllo la febbre, limitando la manifestazione dei sintomi. Se non si vanno a curare la cause della malattia il disastro sociale che cominciamo ad avere sotto gli occhi non farà che aggravarsi!
MicroMega: A proposito di «innovazione», fra le parole d’ordine della manifestazione del 16 ottobre c’era il «reddito di cittadinanza». Il sindacato è sempre stato portatore di una cultura «lavorista», di un’«etica del lavoro» fondata sull’obiettivo della giusta retribuzione e della piena occupazione. Ci sbagliamo dicendo che questa proposta rappresenta una grossa novità?
Landini: No, si tratta certamente di un elemento di grande innovazione. Debbo dire che io stesso per molto tempo ho pensato che se uno non lavorava non avesse diritto a un reddito (se non nella forma di un sussidio per i periodi di disoccupazione fra un impiego e l’altro). Ma il quadro di disuguaglianze sempre crescenti e questa crisi così acuta mi hanno fatto cambiare idea.
Pensiamo ad esempio al mondo della scuola e dell’università. Noi stiamo tornando verso quella situazione in cui se uno è figlio di un operaio, di un lavoratore a basso reddito, non ha più la possibilità di studiare. Chi lavora oggi è spesso povero: riesce a malapena a mantenere se stesso, figuriamoci se può mantenere un figlio che studia, magari in un’altra città. Mi pare uno dei fenomeni più gravi che caratterizzano la nostra società, una delle ingiustizie più grandi. Quindi mi sono interrogato su come affrontare il problema, posto che oggi non è più possibile riflettere sulle questioni del lavoro separate dalle questioni del sapere. Il reddito di cittadinanza potrebbe essere uno strumento attraverso il quale diamo opportunità di studio e dunque di promozione sociale a chi queste opportunità se le vede sempre più precluse dal momento che non può in alcun modo pesare sulle spalle della propria famiglia.
C’è poi un altro aspetto di assoluta rilevanza di cui tenere conto. Il sistema di ammortizzatori sociali presente nel nostro paese è importante e va mantenuto. Ma tutti gli strumenti di sostegno previsti sono in qualche modo legati alla figura del lavoratore impiegato con un rapporto stabile e continuativo. Oggi con la diffusione della precarietà abbiamo centinaia di migliaia di persone – e forse ormai, con questa crisi, siamo arrivati a superare il milione – che hanno avuto rapporti di lavoro precari e poi sono state mandate a casa. Queste persone non possono usufruire di alcuna forma di sostegno al reddito: non hanno nulla!
Sono problemi che vanno affrontati. L’introduzione di strumenti come il reddito di cittadinanza potrebbe permettere da un lato di studiare senza gravare sulle spalle di genitori che già da soli non arrivano alla fine del mese, dall’altro di essere meno vincolati o sotto ricatto pur vivendo una condizione di precarietà.
Il sindacato tradizionale ha molte difficoltà a parlare con i giovani (perché poi sono soprattutto i più giovani che si trovano a vivere le situazioni di precarietà). Se vogliamo cominciare a costruire un rapporto, dobbiamo partire da basi diverse. Non è che possiamo dire: i nostri iscritti non sono precari, quindi questi sono problemi vostri e arrangiatevi. Oggi il sindacato deve porre al centro della propria iniziativa le nuove condizioni di lavoro; proposte come quella sul reddito di cittadinanza hanno proprio l’obiettivo di avviare un dibattito, costruire un ponte, uscire fuori dai territori tradizionali ed esplorare nuovi percorsi.
C’è poi la questione dei «costi», delle risorse che si dovrebbero rendere disponibili per una misura del genere. Anche in questo caso il sindacato non deve avere paura di indicare alcune fondamentali linee di intervento. Nel nostro paese c’è un’evasione fiscale che ha raggiunto livelli ormai del tutto inaccettabili: il 90 per cento delle entrate provengono da lavoratori dipendenti e pensionati. Questo è un problema che va affrontato una volta per tutte. Finiamola di dire che tutti devono pagare meno tasse: è una presa in giro! Chi deve pagare meno tasse sono i lavoratori dipendenti e i pensionati. Chi sta evadendo – chi continua a utilizzare i servizi pubblici che noi, che paghiamo le tasse, garantiamo a tutti – deve cominciare a tirare fuori i soldi. E chi è ricco deve pagare più tasse, non meno tasse. Anche la nostra Costituzione contiene il principio della progressività dell’imposizione fiscale, sebbene negli ultimi anni abbiamo fatto parecchi passi indietro su questo punto.
Gallino: Devo dire che apprezzo molto le parole di Landini sul reddito di cittadinanza, anche se io preferisco chiamarlo «reddito di base» o «reddito garantito» (ma, insomma, il concetto è quello). Le parole di Landini segnano un cambio di impostazione rilevante rispetto alle posizioni del sindacato non solo italiano, ma più in generale europeo, su tale questione.
Il sindacato ha sempre guardato con sospetto al reddito di base. E non senza ragioni, dal momento che alcuni progetti del reddito di base provenivano da economisti di estrema destra. Negli anni Settanta c’è stata ad esempio la proposta di Milton Friedman che diceva più o meno così: diamo un reddito anche abbastanza elevato a tutti, ma poi non gli diamo più niente in termini di assistenza sanitaria, pensioni, istruzione... nulla! Ciascuno badi a se stesso!
Inoltre rispetto a come erano configurate molte proposte di reddito di base c’era il rischio che diventasse un modo per ridurre di fatto il salario minimo.
Questa diversa posizione del segretario della Fiom, invece, è apprezzabile e innovativa per diverse ragioni. Ne menzionerò due.
Un aspetto fondamentale della controrivoluzione in corso è quello di chiudere di fatto le porte dell’istruzione superiore alle famiglie dei lavoratori. È una cosa che sta avvenendo in tutti i paesi. Pensiamo ad esempio al progetto del governo Cameron di elevare le tasse per le università di medio livello (non stiamo parlando dei poli di eccellenza) dalle circa 3 mila sterline attuali a 9 mila sterline l’anno. Il che vuol dire sbattere la porta in faccia a centinaia di migliaia di famiglie di lavoratori, anche della classe media. L’Italia, con i massicci tagli alla scuola e all’università, pare aver imboccato una strada analoga.
Un reddito garantito, un reddito di base, un reddito di cittadinanza o come vogliamo chiamarlo, potrebbe almeno limitare queste iniquità.
C’è poi la questione dell’occupazione. Secondo i dati del Fondo monetario e di altre istituzioni internazionali, i posti di lavoro persi con questa crisi – se tutto va bene, e non è affatto detto che tutto vada bene – saranno recuperati solo intorno al 2017. Abbiamo davanti, quindi, 7 anni di buchi occupazionali. Buchi che l’esaurimento della cassa integrazione, dei sussidi di disoccupazione e di altri tipi di indennità non faranno che rendere più ampi. È dunque indispensabile, ormai, pensare seriamente a un sostegno, sia pure modesto, sia pure inizialmente limitato ad alcuni e non a tutti, che però separi nettamente il reddito dall’occupazione.
Come ricordava giustamente Landini, adesso in Italia per avere il sussidio di disoccupazione – che da noi è peraltro poca cosa rispetto ad esempio a quello tedesco o a quello danese, ma che comunque permette di sopravvivere per qualche mese – bisogna aver lavorato stabilmente e a lungo: bisogna cioè aver versato contributi per almeno 52 settimane nei due anni precedenti.
I nostri cosiddetti ammortizzatori sociali – termine fra l’altro orrendo – sono tuttora strettamente legati all’occupazione. E in una situazione in cui l’occupazione si sta riducendo ed è destinata a rimanere su livelli di allarme per ancora molti anni, non è difficile capire verso quale disastro sociale stiamo andando incontro. Ben venga allora qualche iniziativa, come il progetto del reddito di base.
So già che molti, di fronte a una proposta del genere, cominceranno a strillare denunciandone i «costi elevatissimi» (e manco a dirlo insostenibili per lo stato delle nostre finanze pubbliche). Ma se facciamo seriamente un conto di quanto costano oggi la cassa integrazione ordinaria, quella straordinaria, quella in deroga, i sussidi di disoccupazione, i piani di mobilità, più l’integrazione delle pensioni al minimo, i sostegni alle famiglie povere eccetera, se veramente andiamo a vedere qual è la somma complessiva di questi addendi, otteniamo già un bel capitale da cui partire.
Non si tratta di chiedere la luna. Nella Francia del governo di destra guidato da Nicolas Sarkozy esiste da anni un istituto che prima si chiamava «reddito minimo di inserimento» e dal 2009 «reddito di solidarietà attiva», che permette a un buon numero di giovani di non cadere nella disperazione della mancanza temporanea di lavoro e di reddito e che si applica anche a famiglie disagiate e a lavoratori in attività ma con un reddito sotto la soglia di povertà.
Si tratta quindi di una riforma che è già stata sperimentata – dando buona prova del proprio funzionamento – in un paese vicino. Non sarebbe una cattiva idea imitare la Francia in questo. Fra l’altro potrebbe costituire un tema di grande impatto dal punto di vista politico per la prossima campagna elettorale. Se solo la politica avesse ancora voglia di occuparsi di ciò che sta succedendo nel nostro paese e nel mondo...
MicroMega: Landini è stato molto chiaro sulla questione dell’autonomia del sindacato. Però è evidente che possono esistere interlocutori politici più o meno sensibili a determinate istanze. Se volessimo ipotizzare l’avvento nel prossimo futuro di un governo di centro-sinsitra, quali sono le tre questioni prioritarie che il sindacato dovrebbe porre? Potreste indicarmi tre leggi precise che sarebbe urgente far approvare nell’ipotesi – del tutto teorica – di avere un governo di centro-sinistra capace di essere «ricettivo» verso queste tematiche?
Landini: Prima di tutto una legge sulla rappresentanza. E qui specifico che a mio avviso la novità da introdurre è il diritto delle lavoratrici e dei lavoratori di votare attraverso il referendum tutti gli accordi che li riguardano, siano essi nazionali, aziendali o interconfederali. Accanto naturalmente al diritto di poter eleggere i propri delegati e di votare in tutte le imprese, anche sotto i 15 dipendenti, per misurare l’effettiva rappresentatività di ogni organizzazione.
Io credo che questa sia la condizione per ricostruire una vera unità sindacale nel nostro paese.
La seconda legge penso debba essere una riforma che riduca drasticamente le forme di lavoro. Continuo a pensare che quando ci sono quattro, cinque forme di rapporto di lavoro si è in grado di affrontare in modo concreto ed efficace ogni situazione produttiva.
Al terzo posto ci metto il reddito di cittadinanza. Se potessi scegliere, queste sono le tre grandi questioni che porrei al centro del programma di un eventuale governo di alternativa.
Gallino: Sono sostanzialmente d’accordo con l’elenco di Landini. Forse, se vogliamo cimentarci con il gioco delle posizioni in classifica, metterei al primo posto una legge che preveda il lavoro a tempo pieno e indeterminato come contratto normale di lavoro, con la possibilità di quattro o cinque deroghe. Se ci fosse una maggioranza dotata di reale volontà politica, è una cosa che si potrebbe fare in quattro e quattr’otto.
Se posso aggiungere un ulteriore punto, però, vorrei spendere qualche parola su un tema che in qualche modo si collega alla vicenda Pomigliano, ma del quale anche il sindacato, mi pare, non parla abbastanza: la qualità del lavoro, il peso del lavoro sono un aspetto fondamentale della qualità della vita, ma anche dell’equità sociale. Chi fa un lavoro pesante – e lavorare su tre turni alternando ogni settimana il turno del mattino, quello del pomeriggio e quello di notte è sicuramente un lavoro molto pesante – subisce delle conseguenze importanti sia per quanto riguarda la salute che per quanto riguarda la speranza di vita.
Purtroppo non disponiamo, per quanto ne so, di dati robusti relativi all’Italia. Ma vi sono molti dati relativi alla Francia, alla Germania e all’Inghilterra i quali ci dicono che rispetto a un impiegato, a un quadro superiore, a un dirigente o anche a un insegnante, un operaio che fa lavori mediamente pesanti, non parliamo di quelli pesantissimi, per 25 o 30 anni di seguito ha 5 o 6 anni di speranza di vita di meno. E non soltanto la sua vita sarà più breve, ma gli anni della pensione saranno anche maggiormente intaccati da malattie e patologie varie. Quindi non soltanto vivrà meno anni ma vivrà peggio gli anni che gli restano.
Su Pomigliano, ma anche su altri stabilimenti Fiat, si potrebbero fare molti studi di questo genere, volti a verificare l’ipotesi che non c’è nulla di più nocivo dei turni alternati, come nociva, pesantemente nociva, è la riduzione delle pause: solo chi non ha mai provato a lavorare o non ha mai visto una fabbrica non si rende conto di quanto contino dieci minuti di pausa in più o in meno per uno che fa un lavoro fisicamente massacrante tutto il giorno.
Credo sia giunto il momento di affrontare tali questioni non solo sotto l’aspetto della 626, della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro eccetera. Questi sono problemi prioritari di giustizia sociale: non vedo per quale motivo si debbano negare a milioni di persone cinque anni di vita e magari otto o dieci anni di salute rispetto a chi il destino ha diversamente favorito. Sarebbe importante fare su questo delle inchieste parlamentari oltre che delle iniziative di legge.
Landini: Sono totalmente d’accordo. Penso che una delle ragioni per cui si è arrivati al 16 ottobre sta nel fatto che a Pomigliano i lavoratori non hanno accettato lo scambio tra il peggioramento delle loro condizioni di vita e il poter continuare a lavorare. Questo sussulto di dignità ha fatto sì che in Italia, fra le altre cose, si potesse ricominciare a discutere, almeno per un po’, di quelle che sono le condizioni di lavoro in una fabbrica, cosa forse sconosciuta alla maggioranza delle persone e ai politici in particolare. È un tema che negli ultimi anni è stato completamente rimosso dal dibattito pubblico. Il 16 ottobre è nato proprio dalla capacità delle persone di tornare a indignarsi, di non accettare questo scambio al ribasso anche di fronte a una crisi così pesante. Occorre tornare a concepire il lavoro come qualcosa che serve alla realizzazione di un individuo. E quindi dobbiamo ricominciare a parlare dei contenuti del lavoro, della sua qualità. E questo ci riporta al discorso che facevamo prima sulla qualità dello sviluppo, su quale modello di produzione e quale modello sociale vogliamo sostenere.
È una questione sulla quale ho potuto registrare una sensibilità molto diffusa anche fuori dal mondo della fabbrica, per esempio nelle assemblee di studenti a cui ho partecipato nel corso della preparazione del 16 ottobre.
Tutta questa discussione che a volte si fa sulla produttività del lavoro, senza tener conto del fatto che i veri incrementi di produttività si ottengono con la qualità del lavoro, con la capacità di creare valore aggiunto da processi innovativi e ad alto contenuto di conoscenza e non semplicemente dalla «spremitura» e dallo sfruttamento delle persone, meriterebbe ben altro approfondimento rispetto alle tante chiacchiere che ho avuto modo di sentire negli ultimi mesi.
Venendo più nello specifico a quanto ha appena detto Gallino, in Italia si parla da sempre di lavori usuranti. Ma in realtà non si è mai fatto nulla, perché prendere atto dei dati citati prima dal professore significherebbe anche agire di conseguenza sul piano previdenziale, sul piano delle condizioni di lavoro in senso generale, sul piano delle riduzioni di orario, della minore esposizione ad ambienti e processi nocivi.
Ecco un argomento sul quale sarebbe importante sperimentare una nuova sinergia fra il mondo del «sapere» – le università, gli uffici progettazione eccetera – e quello del lavoro. Ora, io non voglio arrivare a dire che bisogna superare domani mattina la catena di montaggio – magari! – però mi pongo anche il problema di come oggi in molti casi, quando si progetta un nuovo prodotto o nuove linee, non si tenga in alcuna considerazione la qualità del lavoro. Non si presta la minima attenzione alle persone che su quelle linee dovranno andare a lavorare, al fatto che con degli accorgimenti anche minimi si potrebbe ridurre di molto il grado di usura cui questi lavoratori sono sottoposti. Occorre una nuova sensibilità e anche i programmi scolastici e universitari dovrebbero prestare maggiore attenzione a questi aspetti.
Gallino: Prima di concludere – se mi è permesso – vorrei spendere una parola per ricordare il professor Massimo Roccella, che è venuto improvvisamente a mancare lo scorso 4 novembre. È una grave perdita sia per la comunità scientifica che per il mondo del lavoro, perché è sempre stato impegnato in modo diretto sulle tematiche che abbiamo trattato anche in questo dialogo.
Landini: Il professor Roccella ha collaborato molto anche con la Fiom. Davvero viene a mancare una persona importante. Mi fa molto piacere poterlo ricordare anche in questa circostanza.