martedì 26 marzo 2013

L'Europa davanti alla crisi di Cipro


di Nicola Melloni
da Lettere Internazionali, Il Mulino

I problemi di Cipro, come capitato spesso ultimamente in Europa, sono largamente dovuti al suo sistema bancario. In questi anni l’isola è diventata una sorta di paradiso off-shore con il livello di tassazione più basso d’Europa, attirando un interrotto flusso di capitali che ha gonfiato fuori proporzione il sistema bancario, le cui passività sono calcolate tra 7 e 8 volte il Pil del Paese. Cipro è soprattutto diventata la sede preferita per i capitali degli oligarchi russi che usano l’isola per evadere le tasse e poi rimpatriare i capitali a tassi agevolati. Basti pensare che la Banca centrale russa lista Cipro come la fonte principale di Fdi in Russia.
Tale situazione ha chiaramente aperto un problema economico e uno politico riguardo al salvataggio di Cipro. Da una parte, i tagli fiscali – la classica maniera in cui l'Unione europea ha finora cercato di rimettere in sesto i conti dei Paesi in crisi – non sono percorribili, in quanto il sistema bancario, come detto, è troppo grande per le povere finanze di Nicosia. Giusto per capire, il contributo chiesto dalla Ue a Cipro per il bail out è di 5,8 miliardi di euro, equivalenti a circa un terzo del Pil complessivo del Paese (17,9 miliardi). Allo stesso tempo, per quanto riguarda l’Europa, lo sforzo per salvare le banche cipriote sarebbe invece minimo, ma sia la Germania sia i Paesi del Nord hanno chiarito da subito che non intendono utilizzare i soldi dei loro contribuenti per salvare le finanze degli oligarchi russi.
La prima soluzione trovata è stata però infelice sotto tutti i punti di vista. La Ue ha chiesto a Cipro di trovare la sua parte di contributi mettendo una tassa del 9,75% sui depositi sopra i 100 mila euro e del 6,5% su quelli fino a 100 mila, nonostante questi siano coperti all’interno della Unione da una garanzia totale.
La seconda parte della richiesta, cioè colpire anche i piccoli risparmiatori, ha scatenato una ondata di proteste. Da una parte andare a prendere i soldi da chi ne ha pochi per salvare, a tutti gli effetti, chi ne ha tanti – cioè, in primis, gli oligarchi russi – è una misura che trasuda ingiustizia e mai avrebbe potuto trovare l’appoggio del Parlamento cipriota. In secondo luogo, coinvolgere i piccoli risparmiatori rischia di avere effetti esplosivi su tutta l’Eurozona. Il messaggio che viene mandato da Cipro ai titolari di depositi in Grecia, Spagna, Portogallo e anche Italia (soprattutto se si ha un conto, ad esempio, a Mps) è che in caso di aggravarsi della crisi i soldi per il bail out potrebbero essere presi direttamente dai conti correnti. Il rischio, ovviamente, è che questo scateni una fuga di capitali verso Paesi “sicuri” e un conseguente bank run, a maggior ragione data la mancanza di una garanzia europea sui depositi bancari – cioè di una vera unione bancaria cui tuttora la Germania continua a opporsi. Allo stesso tempo, una mossa di questo genere non fa altro che alimentare i sentimenti anti-europei e screditare le istituzioni comunitarie, basti pensare al significativo titolo del "Daily Mail" su the great EU bank robbery.
La soluzione trovata in extremis è stata dunque quella, un po’ all’islandese, di tassare solo i depositi sopra i 100 mila euro (ancora non si sa di quanto, si parla di un prelievo fino al 40%). Una soluzione più equa ma che crea altri problemi di non facile risoluzione. In primis, Cipro vedrà il suo sistema bancario distrutto e il suo ruolo di off shore cancellato – un risultato anche positivo se all’interno della Ue non vi fossero altri paradisi fiscali con sistemi bancari ipertrofici, tipo il Lussemburgo, ma anche la City di Londra. In secondo luogo, molte piccole e medie imprese – il centro nevralgico dell’economia cipriota – rischiano di fallire dopo che il prelievo sui depositi intaccherà sostanzialmente la loro liquidità. I rapporti tra Cipro e Russia e, più in generale, tra Unione europea e Russia rischiano inoltre di peggiorare notevolmente. Infine, il prelievo forzoso sui conti correnti, anche se solo sui più alti, è un precedente problematico, e le parole del presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem (“Cipro sarà il nuovo modello di bail out da qui in avanti”) hanno confermato questa paura, che rischia di incentivare una fuga di capitali e destabilizzare ulteriormente le banche del Sud Europa.
Indubbiamente la crisi di Cipro dovrebbe portare aì una riflessione approfondita sull’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario, a cominciare dalla mobilità dei capitali, che più che portare capitali freschi sembra creare bolle e traumatizzare tanto l’economia reale quanto il sistema bancario. E anche la garanzia statale sui depositi stabilizza solo parzialmente il settore finanziario e, al contempo, crea un sistema di incentivi malato che per salvare i cittadini de-responsabilizza le banche. Cipro, insomma, sembra essere solo la punta di un iceberg che mette a rischio la sopravvivenza dell’Europa tutta.

fonte: http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2108

I mercati crescono, l'economia no


Proponiamo oggi un interessante articolo da Project Syndicate che analizza l'andamento dei mercati negli ultimi mesi. I listini sono in continua crescita e ciò ha spinto molti commentatori a sostenere che, in effetti, l'austerity sta funzionando a dovere. Tra questi non poteva mancare Alberto Alesina, il principale sostenitore della tesi dei tagli che portano crescita. In realtà, come sostenuto da Bradford DeLong, usare i risultati dei listini come proxy del successo economico è assolutamente fuorviante. In realtà la quantità impressionante di liquidità versata sui mercati viene tutta canalizzata dalle borse, pompando verso l'altro il prezzo delle azioni - in realtà formando una nuova bolla, dato che queste valutazioni di borsa non corrispondono davvero all'andamento dell'economia reale. Insomma, la maggior parte del denaro prodotto, dei profitti, si ferma al top della scala sociale, peggiorando ulteriormente l'ineguaglianza. Ci troviamo così in una situazione di crescita stagnante, di concentrazione della ricchezza e di incremento della povertà. Se questo è quello che sperava di ottenere Alesina, sarà certo contento....

The Great Disconnect

di Kemal Dervis
da Project Syndicate


Since the second half of 2012, financial markets have recovered strongly worldwide. Indeed, in the United States, the Dow Jones industrial average reached an all-time high in early March, having risen by close to 9% since September. In Europe, European Central Bank President Mario Draghi’s “guns of August” turned out to be remarkably effective. Draghi reversed the euro’s slide into oblivion by promising potentially unlimited purchases of member governments’ bonds. Between September 1 and February 22, the FTSEurofirst index rose by almost 7%. In Asia, too, financial markets are up since September, most dramatically in Japan.
Even the Italian elections in late February seem not to have upset markets too much (at least so far). Although interest-rate spreads for Italian and Spanish ten-year bonds relative to German bonds briefly jumped 30-50 basis points after the results were announced, they then eased to 300-350 basis points, compared to 500-600 basis points before the ECB’s decision to establish its “outright monetary transactions” program.
But this financial market buoyancy is at odds with political events and real economic indicators. In the US, economic performance improved only marginally in 2012, with annual GDP rising by 2.3%, up from 1.8% in 2011. Unemployment remained high, at 7.8% at the end of 2012, and there has been almost no real wage growth over the last few years. Median household income in the US is still below its 2007 level – indeed, close to its level two decades ago – and roughly 90% of all US income gains in the post-crisis period have accrued to the top 1% of households.
Indicators for the eurozone are even worse. The economy contracted in 2012, and wages declined, despite increases in Germany and some northern countries. Reliable statistics are not yet available, but poverty in Europe’s south is increasing for the first time in decades.
On the political front, the US faces a near-complete legislative stalemate, with no sign of a compromise that could lead to the optimal policy mix: short-term support to boost effective demand and long-term structural reforms and fiscal consolidation. In Europe, Greece has been able – so far – to maintain a parliamentary majority in support of the coalition government, but there, and elsewhere, hyper-populist parties are gaining ground.
The Italian election results could be a bellwether for Europe. Beppe Grillo’s populist Five Star Movement emerged with 25% of the popular vote – the highest support for any single party. Former Prime Minister Silvio Berlusconi, confounding those who had forecast his political demise, re-emerged at the head of a populist-rightist coalition that ended up only 0.3 percentage points away from winning.
In short, we are witnessing a rapid decoupling between financial markets and inclusive social and economic well-being. In the US and many other places, corporate profits as a share of national income are at a decades-long high, in part owing to labor-saving technology in a multitude of sectors. Moreover, large corporations are able to take full advantage of globalization (for example, by arbitraging tax regimes to minimize their payments).
As a result, the income of the global elite is growing both rapidly and independently of what is happening in terms of overall output and employment growth. Demand for luxury goods is booming, alongside weak demand for goods and services consumed by lower-income groups.
All of this is happening in the midst of extremely expansionary monetary policies and near-zero interest rates, except in the countries facing immediate crisis. Structural concentration of incomes at the top is combining with easy money and a chase for yield, driving equity prices upward.
And yet, despite widespread concern and anxiety about poverty, unemployment, inequality, and extreme concentration of incomes and wealth, no alternative growth model has emerged. The opposition to the dominant mainstream in Europe is split between what is still too often an “old” left that has trouble adjusting to twenty-first-century realities, and populist, anti-foreigner, and sometimes outright fascist parties on the right.
In the US, the far right shares many of the characteristics of its populist European counterparts. But it is a tribute to the American two-party system’s capacity for political integration that extremist forces remain marginalized, despite the rhetoric of the Tea Party. President Barack Obama, in particular, has been able to attract support as a liberal-left idealist and as a centrist-realist at the same time, which enabled him to win re-election in the face of a weak economy and an even weaker labor market.
Nonetheless, without deep socio-economic reforms, America’s GDP growth is likely to be slow at best, while its political system seems paralyzed. Nowhere is there a credible plan to limit the concentration of wealth and power, broaden economic gains through strong real-income growth for the poor, and maintain macroeconomic stability.
The absence of such a plan in the US (and in Europe) has contributed to the decoupling of financial markets from inclusive economic progress, because it suggests that current trends are politically sustainable. But, while this disconnect could continue for some time if no alternative program emerges, the huge gap between financial markets’ performance and most people’s well-being is unlikely to persist in the longer term. When asset prices overshoot reality, eventually they have nowhere to go but down.

I figli dell'austerity


Il refrain che sentiamo continuamente sulla riduzione del debito è che le politiche di austerity non solo hanno senso economicamente (non lo hanno, lo sappiamo...) ma che sono pure un obbligo morale. Non possiamo lasciare il debito accumulato da noi sulle spalle dei nostri figli. Insomma, dobbiamo farlo per le prossime generazioni. Peccato che sia vero soprattutto il contrario. I nostri figli - quelli che già ci sono - pagano sulla propria pelle non il debito ma l'austerity stessa. Tagli alla scuola, trasformazione in senso ancora più classista del sistema educativo, i poveri con meno servizi, i ricchi che non hanno problemi a godere dei servizi privati a pagamento. Altro che merito, il successo diventa sempre più condizionato dal censo, riducendo ulteriormente la mobilità sociale. Questi i punti salienti fatti da Simon Johnson nell'articolo che riportiamo qui sotto. Si riferisce all'America, ma potrebbe essere lo stesso in Europa, in Italia. E potremmo aggiungere un altro punto. Non solo i nostri figli, ma anche i nostri nipoti pagheranno per questa austerity moralizzatrice. Si ritroveranno non solo con una scuola per signori e una per poveri, ma avranno meno diritti, potranno essere licenziati più facilmente, non potranno andare in pensione. Ecco, forse il nostro obbligo morale è quello di offrire loro più opportunità. Il debito lo potranno pagare tranquillamente, in una società più giusta e che produce meglio, e di più, e soprattutto con meno poveri. 

Austerity’s Children


di Simon Johnson
da Project Syndicate


When economists discuss “fiscal adjustment,” they typically frame it as an abstract and complex goal. But the issue is actually simple: Who will bear the brunt of measures to reduce the budget deficit? Either taxes have to go up for some people, or spending must fall – or both. “Fiscal adjustment” is jargon; what austerity is always about is the distribution of income.
Much of Europe is already aware of this, of course. Now it’s America’s turn. And current indications there suggest that the people most directly in line for a fiscal squeeze are those who are least able to defend themselves – relatively poor children. For example, the current budget sequester (that is, across-the-board spending cuts) is already hurting programs like Head Start, which supports pre-school education.
The American comedian Jimmy Kimmel recently poked fun at his compatriots’ lack of fiscal knowledge by asking pedestrians on Hollywood Boulevard what they thought of  “Obama’s decision to pardon the sequester and send it to Portugal.” The segment is hilarious, but also sad, because the impact on some people’s lives is very real. Around 70,000 children are likely to lose access to Head Start on our current fiscal course.
And much larger cuts are in store for early-childhood nutrition programs and health care. Perhaps most shocking are the dramatic cuts to the Medicaid health-insurance program that the House of Representatives’ Republican majority have embraced in their latest budget proposal. Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, proposes to balance the budget over the next 10 years largely by slashing the program. About half of all people covered by Medicaid are children.
Is it fair to force low-income children to bear the burden of fiscal adjustment? According to data available on the economist Emmanuel Saez’s invaluable Web site, from 1993 to 2011, average real income for the bottom 99% of the population (by income) rose by 5.8%, while the top 1% experienced real income growth of 57.5%. The top 1% captured 62% of all income growth over this period, partly owing to a sharp rise in returns to higher education in recent decades. (On average, those with only a high school education or less have few good income prospects.)
This implies that, if anything, the tax system should become more progressive, with the proceeds invested in public goods that are not sufficiently provided by the private sector – things like early childhood education and preventive health care to minimize educational disruption resulting from common ailments like childhood asthma.
Think of it this way: In recent decades, some families chose locations and occupations that seemed to offer a reasonable means of support – and good prospects for their children. Many of these decisions turned out badly, largely because information technology (computers and how they are used) eliminated many middle-class jobs. Increasing globalization of trade also did not help in this regard. In addition, as Till von Wachter of Columbia University has documented, prolonged periods of unemployment for parents have a severe and lasting negative impact on their children.
Children whose families cannot provide a decent start in life deserve help. But America has not provided it – a point recently made by Jeb Bush, a leading contender for the Republican presidential nomination in 2016. “In our country today,” Bush said in a speech to fellow conservatives, “if you’re born poor, if your parents didn’t go to college, if you don’t know your father, if English isn’t spoken at home, then the odds are stacked against you.”
Nor is America likely to provide such help in the future, given the coming budget cuts’ disproportionate impact on children at the lower end of the income distribution.
America can easily afford to do better, of course. Its large budget deficits reflect the impact of tax breaks that favor the wealthy and upper middle class; an unfunded expansion of Medicare coverage to include prescription medicines; two foreign wars; and, most important, a banking system that was allowed to get out of control, inflicting massive disruption on the real economy (and thus on tax revenue).
Today’s children did not play a role in any of these policy mistakes. The preschoolers who are about to lose access to Head Start weren’t even born when they were made.
mposing austerity on poor children is not just unfair; it is also bad economics. When economists, again with their dry jargon, talk about a country’s “human capital,” what they really mean is the cognitive and physical abilities of its people.
As I pointed out in recent Congressional testimony, poor education leads to poor job prospects, poor families, and back to poor education – if not with a detour through incarceration, which makes it even harder to break the cycle. Unfortunately, no one in a position of power is likely to heed such arguments.
They should. When you travel to a foreign country for the first time, and you see neglected, ill-fed, and uneducated children, do you regard that country as likely to be one of the world’s great economic powers over the next half-century? Or do you worry for its future?