giovedì 31 gennaio 2013

50 mila studenti in meno, come voleva la Fornero

E quale sarà mai lo scandalo del crollo dei 50 mila iscritti in meno all'Università che capeggia oggi su tutti i principali giornali? In fondo circa 1 mesetto fa una cosa simile era stata auspicata dal Ministro Fornero senza che nessuno si risentisse. La signora, in sostanza, aveva detto che sarebbe meglio riscoprire il lavoro manuale invece che perdere tempo a studiare. In fondo, parafrasando una famosa canzone, non sarà mica che oggi anche l'operaio vuole il figlio dottore? 
Studiare non è da tutti, e i giovani italiani, anche senza i consigli della signora, ci sono arrivati da soli. In una società che non offre nessuna speranza di riscatto sociale lo studio diventa un inutile orpello. E viene dunque scoraggiato, con rette in aumento e borse di studio in calo. Poco importa se già siamo tra gli ultimi in Europa sia come iscritti, sia, soprattutto, come laureati. Poco importa che un paese che non produce sapere è un paese in declino. Ancora meno importa che in un paese dove i giovani non possono studiare l'ascensore sociale si è fermato. Appunto, studiare è per i ricchi. Gli altri a sgobbare.
Questo è il paese che sognava la Fornero, ma è anche il paese che ci ha lasciato in eredità la Seconda Repubblica. Quella della riforma Gelmini, ovvio. Ma non solo. Perché quel PD che oggi autorevolmente si candida a guidare il Paese ha governato per la metà della degli ultimi 19 anni e non può certo accampare scuse, perchè questo disastro chiama in causa tutti i governi. E dovrebbe essere al centro della campagna elettorale, ed invece è totalmente assente. E sarebbe strano il contrario. In fondo, questo mondo infame non l'ha certo fatto solo Berlusconi da solo. La sinistra, o quella che una volta si chiamava così, ha mollato gli operai con salari da fame, mentre i padroni ingrassavano. Ha mollato i nuovi lavoratori trasformandoli in precari in nome delle richieste del capitale. Ha abbassato le tasse per i più ricchi, mentre tagliava i fondi alla scuola pubblica e finanziava quella privata. E si sorprende degli studenti in piazza, arrabbiati, a volte pure col volto coperto. Quelle manifestazioni non sono più quelle dei figli della media borghesia annoiati. Sono solo l'altra faccia di questo disastro, di questo abbandono della scuola che vuol dire solo rinuncia al futuro. Sono l'Italia che va a fondo.

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Caso Aldrovandi: Polizia di stato o Stato di polizia

La notizia non è ancora ufficiale ma si tratta di una possibilità più che concreta. I poliziotti che hanno ucciso a botte Federico Aldrovandi, condannati in via definitiva (per omicidio colposo...) ed infine tradotti in carcere (pur se per appena 6 mesi), potrebbero tornare a servire in polizia, a indossare la divisa e, sai mai, a pestare a morte altri ragazzi.
Non sono fantasie, ma ipotesi concrete confermate dalla madre di Federico in una intervista a radio24. Non conosco le regole della polizia, ma che un assassino, condannato per un atto commesso in servizio, non venga espulso con disonore (in uno Stato democratico la polizia si sarebbe fatta parte civile e avrebbe chiesto i danni agli agenti che ne infangano il nome) sembra veramente fantascienza. Vero, si tratta della polizia di Genova, dei picchiatori fascisti che si accaniscono su innocenti manifestanti, che picchiano ragazzi alle spalle, e sparano fumogeni contro i ministeri. Con una differenza, che grazie ad un tribunale della Repubblica, dopo anni di attesa, questi 3 eroi in uniforme sono stati condannati. 
Ma non evidentemente dalla polizia, o almeno c'è questa possibilità. E che semplicemente esista questa chance è una vergogna infinita, un potenziale supporto morale dello Stato per degli assassini.
In fabbrica si può essere licenziati per avere la tessera della FIOM. In polizia il posto è così fisso che anche ammazzare a bastonate un ragazzo non è un motivo buono per essere cacciati...

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La banca a vapore
Di Simone Rossi 

Si dice la Storia sia maestra, che insegni a non ripetere i medesimi errori; niente di più vero, se non che un maestro può poco nel momento in cui l'allievo non si applica, per pigrizia, per opportunismo o perché in male fede. La situazione attuale di crisi economica e sociale ha paralleli con altre situazioni nel passato europeo, una classe dirigente interessata al bene comune eviterebbe gli errori commessi a suo tempo, ma non lo fa. La crisi in corso ha origine nel settore bancario, progressivamente deregolamentato a partire dagli anni '80 del secolo scorso ed alimentato dal crescente ricorso al credito da parte dei cittadini per far fronte alla caduta del reale potere d'acquisto delle famiglie; dal 2008 ad oggi i governi e le istituzioni europee hanno gettato miliardi di euro nel pozzo senza fondo delle banche, sotto forma di acquisizioni, di prestiti agevolati e fondi cosiddetti salva-Stati, il cui reale obiettivo è sollevare le banche dai rischi presi speculando sul debito pubblico dei paesi più deboli. Tolte le promesse e le lacrime di coccodrillo nei summit intergovernativi, poco o nulla è stato fatto per porre il settore finanziario sotto controllo pubblico e per impedire la speculazione. L'inerzia e l'ignavia dei governi (ma anche dei partiti progressisti all'opposizione un po' ovunque) stanno gettando i presupposti per una crisi peggiore.

Nel mese di gennaio il canale pubblico BBC2 ha trasmesso un documentario a puntate sulla storia delle ferrovie britanniche, a cura di Dan Snow; oltre ad affrontare l'aspetto dell'evoluzione tecnologica, il programma offre una panoramica sul contesto sociale ed economico in cui l'epopea ferroviaria si sviluppò. L'invenzione e l'applicazione della locomotiva nei primi decenni del XIX secolo risposero alla necessità di rifornire le industrie dell'Inghilterra settentrionale di materia prima, principalmente carbone, e di ampliare il mercato per i beni finiti; a seguito del successo delle prime linee, in particolare di quella tra Manchester e Liverpool, le ferrovie divennero un investimento ad alto profitto su cui si innesco un fenomeno speculativo che drenò ingenti capitali tanto da parte di grandi investitori, quanto delle piccola e media borghesia, attratta dai buoni dividendi delle azioni. Dalla seconda metà degli anni '30 del XIX secolo decine di compagnie entrarono in competizione per aggiudicarsi l'autorizzazione governativa a realizzare nuove linee, ricorrendo anche alla corruzione dei deputati e dei funzionari pubblici per battere la concorrenza. Per convenienza e per ideologia, il governo centrale preferì non intervenire per regolamentare il settore, limitandosi a definire standard minimi e ad approvare i progetti avanzati dai privati senza una visione programmatica. La bolla spMeculativa scoppiò nel 1847, lasciando sul lastrico migliaia di persone con il consueto corollario di suicidi, tuttavia i governi che si succedettero mantennero il proprio atteggiamento lassista, confidando nella capacità auto-regolatoria delle compagnie ferroviarie, anche in materia di sicurezza. Solo il disastro ferroviario di Armagh, Irlanda del Nord, che causò ottanta morti e duecentosessanta feriti, in gran parte bambini, spinse il parlamento a legiferare in materia di sicurezza, senza invece intervenire nella pianificazione e nella regolamentazione delle compagnie.

Queste vicende, come altre avvenute nel corso della storia del capitalismo, sono sintomatiche di come l'idea per cui i capitalisti sono in grado di regolamentarsi e di produrre benessere per la collettività sia illusoria quando non truffaldina; la forza distruttrice, eversiva della ricerca del massimo profitto a qualunque costo deve, invece, essere domata e vinta dalla collettività. I partiti conservatori e liberali non invertiranno la tendenza, essendo i promotori del capitalismo selvaggio, non lo faranno i moderati che si definiscono socialisti o socialdemocratici, che così facendo smentirebbero sé stessi. Prima che questo treno impazzito si schianti, il freno dobbiamo tirarlo noi, lavoratori, disoccupati, pensionati, studenti; quanto prima ne prenderemo coscienza, tanto meglio per tutti.


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