mercoledì 20 marzo 2013
Il Re è nudo
di Nicola Melloni
da Liberazione
Il Parlamento cipriota ha detto no all’ennesimo ricatto della Trojka. Dopo che le minacce di Schauble e Merkel – o così o fuori dall’Euro – e la pistola alla testa puntata da Draghi – o accettate o tagliamo i fondi alle vostre banche (con che autorità, non è dato sapere) – non hanno sortito alcun effetto, ora le élite europee sono in pieno panico. Si aspettavano, come sempre, che i cittadini ed i loro rappresentanti piegassero la testa. Invece a Cipro sono andati a vedere il bluff. Hanno cioè fatto quello che la Grecia, la Spagna e l’Italia avrebbero dovuto fare negli anni scorsi. Il Parlamento di Nicosia ha rigettato la palla nel campo della EU, facendo di fatto sapere che se l’alternativa è tra prelevare forzosamente i risparmi dei cittadini e lasciare l’Eurozona, allora Cipro è pronta a ritornare alla sterlina.
Già lunedì a Bruxelles e dintorni avevano capito la malaparata. Dopo l’arroganza e le minacce di Sabato – quando si erano volutamente ignorate le rimostranze del Presidente Anastasiades che aveva provato a spiegare che il Parlamento non avrebbe mai votato misure così punitive – si era cominciato a lavorare su un nuovo deal che salvasse almeno i conti correnti più bassi sotto i 20 mila euro. La UE per la prima volta si trovava davanti la reale possibilità di un rifiuto e, per la prima volta, accettava di ridiscutere i termini del bail out. Troppo tardi. Il Parlamento cipriota ha detto no anche alla seconda proposta della Trojka: i soldi del bail out vanno trovati altrove, i risparmi non si toccano.
Il risultato è che ora il re è nudo. Finalmente un governo ha alzato la voce e ha detto quello che è sotto gli occhi di tutti, che i cosiddetti pacchetti di salvataggio stanno peggiorando la crisi europea invece di risolverla. E che l’Unione Monetaria è importante ma non a tutti i costi. Il problema di Cipro è minuscolo, parliamo di appena 16 miliardi di euro, eppure la UE non è in grado neanche di risolvere nemmeno questo piccolo grattacapo, dimostrandosi ancora una volta meschina e vendicativa. Si ripete nuovamente lo stesso assurdo comportamento adottato in Grecia tre anni fa, quando la crisi si sarebbe potuta evitare con un modesto esborso di denaro ed aiuti mirati. I tedeschi giocano ad essere inflessibili con i soldi degli altri – facendo passare l’idea, falsa, che siano solo loro a pagare i debiti dei paesi in crisi (lo fa invece pure l’Italia, tra gli altri), e tralasciando che la Germania non regala ma presta soldi, ad un ricco tasso di interesse. Mentre i salari greci o i risparmi ciprioti vengono tagliati per sempre. Le imposizione tedesche sono passate non perché giuste, ma perché basate sugli alti costi dell’alternativa, l’abbandono dell’Euro, costringendo di fatto i PIIGS ad accettare le lacrime e sangue dell’austerity. Ma le politiche restrittive, come ampiamente previsto, hanno solo peggiorato la situazione e avvicinano l’Europa ad un punto di non ritorno in cui i vari paesi preferiranno l’uscita al continuo aumento di povertà e disoccupazione. Quel punto lo si è già raggiunto a Cipro quando si è minacciato di espropriare il 6.75% dei risparmi dei cittadini.
Cipro è un isola piccola, con una economia minuscola, se si esclude il settore finanziario. In caso di uscita dall’Eurozona, lo shock economico per la UE sarebbe minimo. Rappresenterebbe però un pericolosissimo precedente. Non solo si può disobbedire alla Trojka, si può anche abbandonare la moneta unica – un precedente terrificante per la UE. Altri paesi potrebbero essere tentati di fare lo stesso – soprattutto ora che i cittadini sanno che c’è il rischio che i prossimi pacchetti di salvataggio includano prelievi forzosi sui conti correnti, con il conseguente rischio di bank run già da ora.
Ormai in tutta l’Europa mediterranea lo scontento verso l’austerity, le istituzioni europee e la moneta unica sta raggiungendo livelli insostenibili. I governi dei PIIGS ora hanno la possibilità di cogliere l’assist dato loro dal Parlamento cipriota per formare, finalmente, un fronte unico e richiedere un immediato cambiamento di rotta delle politiche fiscali e monetarie, andando definitivamente a vedere le carte dei Paesi del Nord che non si possono certo permettere la repentina fine dell’Euro. Sul tavolo c’è il futuro del Continente e di intere generazioni di europei.
Il PD vuole o non vuole cambiare? A Bologna referendum sui finanziamenti alle scuole private
Eccoci qui, alla prova del nove, o dell'otto, se volete. Come i punti del programma post-elezioni di Bersani, che includono anche l'istruzione. Nuovi investimenti, dice. Ma per chi? Scuola pubblica o privata? A Bologna un gruppo di cittadini ha raccolto 13 mila firme per un referendum per togliere i fondi (1 milione all'anno) alle scuole materne private (leggi, cattoliche). Sembrerebbe quasi ovvio: la Costituzione dice scuole private si, ma senza aggravio per le casse pubbliche. Inoltre siamo in crisi, non ci sono soldi, sarebbe dunque il caso di concentrarsi sul servizio pubblico. Invece no. Il PD non ne vuole sapere e attacca pure la consultazione popolare, perche' butta via soldi. Se questa e' la maniera in cui si vuole cambiare, che brutto inizio.
Di seguito un articolo di Wu Ming su Internazionale riguardo la posta in gioco a Bologna.
di Wu Ming
da Internazionale
Questa è la storia di Davide contro Golia, Ulisse contro Polifemo, Beowulf contro Grendel. Solo che il finale è ancora da scrivere. È la storia di un gruppo di cittadini bolognesi, di varia provenienza ed età anagrafica, che di fronte al dissesto della scuola pubblica ha deciso di dare un segnale al manovratore. Prima che sia troppo tardi.
Questa è la storia di un comitato che si richiama all’articolo 33 della costituzione, che ha radunato intorno a sé alcune forze politiche minori, pezzi di sindacato, movimenti, associazioni, e ha sfidato l’intero apparato burocratico e politico dell’amministrazione locale, dei grandi partiti, della chiesa.
Un’impresa apparentemente folle, degna di un poema antico, che, comunque andrà a finire, merita di essere cantata.
Proemio
Il Comitato articolo 33 è nato nel 2011, per promuovere la raccolta delle firme necessarie a indire un referendum consultivo sui finanziamenti comunali alle scuole materne paritarie private.
Il motivo è presto detto: dopo le continue sforbiciate ai finanziamenti per la scuola pubblica da parte degli ultimi governi, il sistema della scuola d’infanzia cittadino inizia a mostrare la corda. Ebbene sì, nella città che ha inventato la scuola a tempo pieno per tutti, si cominciano a vedere i risultati dei tagli di spesa fatti nel corso degli anni. Anni in cui i soldi per la scuola pubblica anche a Bologna si sono fatti sempre più difficili da reperire e quelli per la scuola paritaria privata si sono invece saldamente assestati su un milione di euro all’anno.
Questa differenza di trattamento insiste sul sistema scolastico integrato, varato a metà anni novanta, quando si inclusero alcuni istituti privati nel sistema scolastico pubblico, consentendo loro l’accesso ai finanziamenti regionali e comunali. Il comune di Bologna stipulò l’accordo con la Fism (Federazione italiana scuole materne… “cattoliche”) garantendole la convenzione per cinquanta classi, che nel corso del tempo sono diventate più di settanta. Erano gli anni dell’Ulivo di Romano Prodi, quelli in cui ex comunisti ed ex democristiani gettavano le premesse del percorso che avrebbe poi portato alla nascita del Partito democratico. Anni di convergenze e do ut des. La scuola fu un banco di prova: nel 2000 il sistema integrato venne recepito su scala nazionale dal governo di centrosinistra (legge 62).
Il tempo è passato e oggi, complice la crisi economica, le contraddizioni di quel modello esplodono. Se ne accorgono i genitori bolognesi che oltre a vedere la scuola pubblica sempre più in affanno, rischiano di trovarsi con i figli a spasso.
Proprio così, i posti alla scuola materna pubblica scarseggiano. Quest’anno si è rischiato che rimanessero fuori quasi quattrocento bambini e bambine, e il comune ha dovuto gestire in emergenza quella che dovrebbe essere ordinaria amministrazione: mandare a scuola tutti i bambini, appunto. Pare infatti che gli sforbiciatori non abbiano tenuto conto dell’incremento demografico, che pure c’è, ed è anche costante.
In base al modello integrato, le scuole paritarie private avrebbero potuto assorbire gli esuberi, sennonché alla prova dei fatti ci si è accorti che non sono scuole per tutti. La stragrande maggioranza di questi istituti ha un’impostazione confessionale e rette non indifferenti per le tasche sempre più vuote dei cittadini (la media è tra i 200 e i 300 euro mensili). Che scelta avrebbero i genitori non cattolici e quelli meno abbienti?
Giunti in questo cul-de-sac, la domanda che si sono posti i cittadini riuniti nel Comitato articolo 33 è semplice: in tempi di crisi economica, in una società sempre più multireligiosa e multiculturale, mentre vengono ridotti i fondi alla scuola pubblica, che senso ha continuare a garantire la stessa quota di finanziamento comunale per le scuole private paritarie? Non sarebbe meglio destinare tutti i fondi comunali alla scuola gratuita, laica, pluralista, aperta a tutti, che ne ha un gran bisogno?
A giudicare dalle reazioni scomposte degli amministratori, pare che a Bologna questa sia una domanda irricevibile, addirittura impronunciabile. Come mettere in discussione un assioma matematico o una verità di fede. O, più prosaicamente, come toccare un dente cariato che duole.
Canto primo: ante elezioni
Sarebbero bastate novemila firme. Il Comitato articolo 33 ne ha raccolte tredicimila, consegnate in comune alla fine dell’anno scorso. Il referendum dunque si farà: il 26 maggio.
Questo ha aperto una faglia in città, che attraversa le forze politiche, i sindacati, le associazioni, la maggioranza consiliare.
Contro il referendum si sono schierati da subito la giunta comunale, il Pd, i partiti di centrodestra, la curia, Cl e altre associazioni cattoliche, la Fism.
Favorevoli al referendum, da subito: i consiglieri dei partiti minori di maggioranza (Sel e Idv) e tutti i partiti della sinistra radicale; il Movimento 5 stelle; i sindacati di base e alcune categorie della Cgil (Fiom e Flc); le chiese protestanti; diverse associazioni di genitori, insegnanti, precari della scuola.
I vertici sindacali hanno oscillato tra l’avversità manifesta per il referendum (Cisl) e lo scetticismo sulla sua opportunità (Cgil).
I contrari al referendum si appellano alla sorte dei 1.736 scolari delle paritarie private, sostenendo che sarebbero a rischio, qualora si dovessero togliere alle scuole parificate i fondi comunali. Queste infatti si vedrebbero costrette ad aumentare le rette e tutti coloro che non potessero permettersele dovrebbero essere riassorbiti nel sistema scolastico pubblico, con ulteriore aggravio per le casse comunali. Insomma se il referendum fosse vinto da chi vuole reindirizzare tutti i fondi comunali sulla scuola pubblica, il problema sarebbe aggravato anziché risolto.
Questa argomentazione è il cardine del fronte del no, ed è molto interessante, perché si basa su due false premesse e mette in luce un paradosso cruciale.
La prima premessa falsa è che si assume il referendum come abrogativo, quando invece è consultivo. I referendum consultivi servono a indirizzare le politiche pubbliche su determinate questioni: si tratta di avviare un percorso che porti come risultato finale al disimpegno del comune dal finanziamento alle scuole private, non certo dalla sera alla mattina.
La seconda premessa falsa è che si dà per scontato che, perso il milione di euro erogato dal comune, le scuole paritarie private non troverebbero altre fonti di finanziamento e che sarebbero costrette ad aumentare le rette in misura tale da produrre un esodo di massa verso la scuola pubblica. Anche questo non è dimostrato, non ci sono studi prospettici, indagini in questo senso. Ma l’argomento serve a creare panico.
Infine il paradosso che inquadra precisamente il problema. I difensori del modello integrato si ritrovano ad affermare che senza finanziare le scuole paritarie private – confessionali e a pagamento – non si potrebbe più garantire la scuola a tutti. Questo argomento svela precisamente la minaccia costituita dalla “sussidiarietà”, interpretata non già in senso verticale – lasciare spazio all’autonomia locale rispetto all’onnipresenza dello stato centrale, ogniqualvolta sia possibile – ma in senso orizzontale – ovvero rimpiazzare il servizio pubblico con quello fornito dal privato ogniqualvolta sia possibile. Il risultato è questo: trovarsi costretti a finanziare sempre più il privato per garantire il diritto all’istruzione, in un meccanismo perverso e canceroso che porta il privato a mangiarsi progressivamente il servizio pubblico dall’interno, invece di competere con esso dall’esterno. Il punto d’arrivo di questa logica l’abbiamo sotto gli occhi: le scuole pubbliche sovraffollate e in difficoltà, e i genitori costretti a scegliere tra mandare i figli alle scuole confessionali a pagamento o tenerli a casa.
Tuttavia pare che l’unica cosa che conti per gli amministratori sia risparmiare denaro. E finché la barca va, lasciala andare… Ma capita che ogni tanto la storia presenti il conto. Proprio non se l’aspettavano che tra la cosiddetta base, tra i bolognesi, il referendum trovasse tanto consenso, come non si aspettavano l’esito elettorale del 24 e 25 febbraio. Lo shock di non ritrovarsi primo partito del paese ha d’un tratto fatto evaporare tutta la spocchia e l’arroganza con cui i notabili cittadini avevano appellato il Comitato referendario fino a quel momento.
Il giorno dopo, i toni erano molto diversi.
Secondo canto: post elezioni
The day after… Qualche consigliere e neoeletto deputato del Pd, e perfino il segretario locale, hanno iniziato a suggerire una linea più dialogante sul referendum. Devono essersi accorti che quella che avevano considerato una fastidiosa perdita di tempo e denaro – la cittadinanza che si esprime su una scelta d’indirizzo – potrebbe anche diventare una rogna seria.
Come se non fosse bastata la sorpresa delle urne, il Comitato articolo 33 ha incassato l’adesione di Stefano Rodotà, il quale ha ricordato che “quando ci sono difficoltà economiche bisogna prima di tutto garantire le risorse per le scuole statali”.
Il capogruppo del Pd in regione ha proposto una exit strategy per l’amministrazione: eludere il risultato del referendum. Ha dichiarato che “per la politica e gli amministratori l’unico referendum che abbia un riscontro sono le urne, è il voto” e, siccome il sindaco Merola è stato eletto dalla maggioranza assoluta degli elettori e quegli elettori “hanno votato un programma”, adesso il sindaco ha il diritto di… tirare diritto.
Davvero un’argomentazione bislacca per l’esponente di un partito che si definisce democratico. Come se per vent’anni gli elettori del centrosinistra non avessero votato sotto il ricatto morale dell’egemonia berlusconiana, inghiottendo rospi su rospi, mentre si inseguiva il fantomatico centro. Una stagione che si è conclusa nell’abbraccio mortale con Mario Monti. Come se votare un candidato significasse appoggiare ogni singolo punto del suo programma, senza possibilità di suggerirgli parziali cambiamenti di rotta su questioni specifiche. Fa notare in un comunicato l’Assemblea genitori e insegnanti delle scuole di Bologna e provincia: “Sarebbe come dire che il referendum sull’acqua votato da 27 milioni di persone non ha alcun valore perché solo due anni prima Berlusconi aveva vinto le elezioni e di certo nel suo programma non c’era l’acqua-bene-comune”.
Il sindaco Merola arriva a dire che trova delirante spendere mezzo milione di euro per fare svolgere un referendum che riguarda un finanziamento da un milione. Anche in questo caso la logica con cui i “democratici” calcolano i costi della democrazia suona stramba: il milione di euro alle scuole paritarie viene dato ogni anno, quindi la posta in gioco è ben più alta. Il capogruppo consiliare del Movimento 5 stelle ha buon gioco nel replicare che “il referendum consultivo sui fondi pubblici alle materne private costa soldi, ma è un arricchimento per la democrazia”.
Intanto tra una consigliera comunale del Pd, già presidente provinciale dell’Aimc (Associazione italiana maestri cattolici), e la responsabile nazionale scuola dello stesso partito, accusata di avere propugnato una linea più morbida sul referendum, volano gli stracci, e le frecciate su Facebook si trasformano in querele.
Per citare ancora l’Associazione genitori e insegnanti: “Pare che il Partito democratico, malauguratamente, abbia perso la bussola e non da oggi”. Questo risulta evidente, almeno quanto la conclusione a cui giunge l’associazione: “La scuola pubblica è un bene troppo prezioso per essere lasciato nelle mani di politiche che hanno dimenticato perfino le prescrizioni della nostra carta costituzionale”.
Infine, papà, mamme, maestre e maestri si chiedono con sarcasmo: “Chissà perché il centrosinistra ha perso le elezioni imperdibili?”.
La risposta soffia nel vento. E il vento sta facendo il suo giro.
Finale
Il finale è aperto, dicevamo. La forza del risultato referendario dipenderà probabilmente da quanta gente andrà a votare. Ci auguriamo sia tanta. Vada come vada, questo piccolo grande “caso” merita di essere seguito con attenzione, perché potrebbe rappresentare un precedente nazionale interessante.
Di seguito un articolo di Wu Ming su Internazionale riguardo la posta in gioco a Bologna.
Bologna e il partito poco democratico
di Wu Ming
da Internazionale
Questa è la storia di Davide contro Golia, Ulisse contro Polifemo, Beowulf contro Grendel. Solo che il finale è ancora da scrivere. È la storia di un gruppo di cittadini bolognesi, di varia provenienza ed età anagrafica, che di fronte al dissesto della scuola pubblica ha deciso di dare un segnale al manovratore. Prima che sia troppo tardi.
Questa è la storia di un comitato che si richiama all’articolo 33 della costituzione, che ha radunato intorno a sé alcune forze politiche minori, pezzi di sindacato, movimenti, associazioni, e ha sfidato l’intero apparato burocratico e politico dell’amministrazione locale, dei grandi partiti, della chiesa.
Un’impresa apparentemente folle, degna di un poema antico, che, comunque andrà a finire, merita di essere cantata.
Proemio
Il Comitato articolo 33 è nato nel 2011, per promuovere la raccolta delle firme necessarie a indire un referendum consultivo sui finanziamenti comunali alle scuole materne paritarie private.
Il motivo è presto detto: dopo le continue sforbiciate ai finanziamenti per la scuola pubblica da parte degli ultimi governi, il sistema della scuola d’infanzia cittadino inizia a mostrare la corda. Ebbene sì, nella città che ha inventato la scuola a tempo pieno per tutti, si cominciano a vedere i risultati dei tagli di spesa fatti nel corso degli anni. Anni in cui i soldi per la scuola pubblica anche a Bologna si sono fatti sempre più difficili da reperire e quelli per la scuola paritaria privata si sono invece saldamente assestati su un milione di euro all’anno.
Questa differenza di trattamento insiste sul sistema scolastico integrato, varato a metà anni novanta, quando si inclusero alcuni istituti privati nel sistema scolastico pubblico, consentendo loro l’accesso ai finanziamenti regionali e comunali. Il comune di Bologna stipulò l’accordo con la Fism (Federazione italiana scuole materne… “cattoliche”) garantendole la convenzione per cinquanta classi, che nel corso del tempo sono diventate più di settanta. Erano gli anni dell’Ulivo di Romano Prodi, quelli in cui ex comunisti ed ex democristiani gettavano le premesse del percorso che avrebbe poi portato alla nascita del Partito democratico. Anni di convergenze e do ut des. La scuola fu un banco di prova: nel 2000 il sistema integrato venne recepito su scala nazionale dal governo di centrosinistra (legge 62).
Il tempo è passato e oggi, complice la crisi economica, le contraddizioni di quel modello esplodono. Se ne accorgono i genitori bolognesi che oltre a vedere la scuola pubblica sempre più in affanno, rischiano di trovarsi con i figli a spasso.
Proprio così, i posti alla scuola materna pubblica scarseggiano. Quest’anno si è rischiato che rimanessero fuori quasi quattrocento bambini e bambine, e il comune ha dovuto gestire in emergenza quella che dovrebbe essere ordinaria amministrazione: mandare a scuola tutti i bambini, appunto. Pare infatti che gli sforbiciatori non abbiano tenuto conto dell’incremento demografico, che pure c’è, ed è anche costante.
In base al modello integrato, le scuole paritarie private avrebbero potuto assorbire gli esuberi, sennonché alla prova dei fatti ci si è accorti che non sono scuole per tutti. La stragrande maggioranza di questi istituti ha un’impostazione confessionale e rette non indifferenti per le tasche sempre più vuote dei cittadini (la media è tra i 200 e i 300 euro mensili). Che scelta avrebbero i genitori non cattolici e quelli meno abbienti?
Giunti in questo cul-de-sac, la domanda che si sono posti i cittadini riuniti nel Comitato articolo 33 è semplice: in tempi di crisi economica, in una società sempre più multireligiosa e multiculturale, mentre vengono ridotti i fondi alla scuola pubblica, che senso ha continuare a garantire la stessa quota di finanziamento comunale per le scuole private paritarie? Non sarebbe meglio destinare tutti i fondi comunali alla scuola gratuita, laica, pluralista, aperta a tutti, che ne ha un gran bisogno?
A giudicare dalle reazioni scomposte degli amministratori, pare che a Bologna questa sia una domanda irricevibile, addirittura impronunciabile. Come mettere in discussione un assioma matematico o una verità di fede. O, più prosaicamente, come toccare un dente cariato che duole.
Canto primo: ante elezioni
Sarebbero bastate novemila firme. Il Comitato articolo 33 ne ha raccolte tredicimila, consegnate in comune alla fine dell’anno scorso. Il referendum dunque si farà: il 26 maggio.
Questo ha aperto una faglia in città, che attraversa le forze politiche, i sindacati, le associazioni, la maggioranza consiliare.
Contro il referendum si sono schierati da subito la giunta comunale, il Pd, i partiti di centrodestra, la curia, Cl e altre associazioni cattoliche, la Fism.
Favorevoli al referendum, da subito: i consiglieri dei partiti minori di maggioranza (Sel e Idv) e tutti i partiti della sinistra radicale; il Movimento 5 stelle; i sindacati di base e alcune categorie della Cgil (Fiom e Flc); le chiese protestanti; diverse associazioni di genitori, insegnanti, precari della scuola.
I vertici sindacali hanno oscillato tra l’avversità manifesta per il referendum (Cisl) e lo scetticismo sulla sua opportunità (Cgil).
I contrari al referendum si appellano alla sorte dei 1.736 scolari delle paritarie private, sostenendo che sarebbero a rischio, qualora si dovessero togliere alle scuole parificate i fondi comunali. Queste infatti si vedrebbero costrette ad aumentare le rette e tutti coloro che non potessero permettersele dovrebbero essere riassorbiti nel sistema scolastico pubblico, con ulteriore aggravio per le casse comunali. Insomma se il referendum fosse vinto da chi vuole reindirizzare tutti i fondi comunali sulla scuola pubblica, il problema sarebbe aggravato anziché risolto.
Questa argomentazione è il cardine del fronte del no, ed è molto interessante, perché si basa su due false premesse e mette in luce un paradosso cruciale.
La prima premessa falsa è che si assume il referendum come abrogativo, quando invece è consultivo. I referendum consultivi servono a indirizzare le politiche pubbliche su determinate questioni: si tratta di avviare un percorso che porti come risultato finale al disimpegno del comune dal finanziamento alle scuole private, non certo dalla sera alla mattina.
La seconda premessa falsa è che si dà per scontato che, perso il milione di euro erogato dal comune, le scuole paritarie private non troverebbero altre fonti di finanziamento e che sarebbero costrette ad aumentare le rette in misura tale da produrre un esodo di massa verso la scuola pubblica. Anche questo non è dimostrato, non ci sono studi prospettici, indagini in questo senso. Ma l’argomento serve a creare panico.
Infine il paradosso che inquadra precisamente il problema. I difensori del modello integrato si ritrovano ad affermare che senza finanziare le scuole paritarie private – confessionali e a pagamento – non si potrebbe più garantire la scuola a tutti. Questo argomento svela precisamente la minaccia costituita dalla “sussidiarietà”, interpretata non già in senso verticale – lasciare spazio all’autonomia locale rispetto all’onnipresenza dello stato centrale, ogniqualvolta sia possibile – ma in senso orizzontale – ovvero rimpiazzare il servizio pubblico con quello fornito dal privato ogniqualvolta sia possibile. Il risultato è questo: trovarsi costretti a finanziare sempre più il privato per garantire il diritto all’istruzione, in un meccanismo perverso e canceroso che porta il privato a mangiarsi progressivamente il servizio pubblico dall’interno, invece di competere con esso dall’esterno. Il punto d’arrivo di questa logica l’abbiamo sotto gli occhi: le scuole pubbliche sovraffollate e in difficoltà, e i genitori costretti a scegliere tra mandare i figli alle scuole confessionali a pagamento o tenerli a casa.
Tuttavia pare che l’unica cosa che conti per gli amministratori sia risparmiare denaro. E finché la barca va, lasciala andare… Ma capita che ogni tanto la storia presenti il conto. Proprio non se l’aspettavano che tra la cosiddetta base, tra i bolognesi, il referendum trovasse tanto consenso, come non si aspettavano l’esito elettorale del 24 e 25 febbraio. Lo shock di non ritrovarsi primo partito del paese ha d’un tratto fatto evaporare tutta la spocchia e l’arroganza con cui i notabili cittadini avevano appellato il Comitato referendario fino a quel momento.
Il giorno dopo, i toni erano molto diversi.
Secondo canto: post elezioni
The day after… Qualche consigliere e neoeletto deputato del Pd, e perfino il segretario locale, hanno iniziato a suggerire una linea più dialogante sul referendum. Devono essersi accorti che quella che avevano considerato una fastidiosa perdita di tempo e denaro – la cittadinanza che si esprime su una scelta d’indirizzo – potrebbe anche diventare una rogna seria.
Come se non fosse bastata la sorpresa delle urne, il Comitato articolo 33 ha incassato l’adesione di Stefano Rodotà, il quale ha ricordato che “quando ci sono difficoltà economiche bisogna prima di tutto garantire le risorse per le scuole statali”.
Il capogruppo del Pd in regione ha proposto una exit strategy per l’amministrazione: eludere il risultato del referendum. Ha dichiarato che “per la politica e gli amministratori l’unico referendum che abbia un riscontro sono le urne, è il voto” e, siccome il sindaco Merola è stato eletto dalla maggioranza assoluta degli elettori e quegli elettori “hanno votato un programma”, adesso il sindaco ha il diritto di… tirare diritto.
Davvero un’argomentazione bislacca per l’esponente di un partito che si definisce democratico. Come se per vent’anni gli elettori del centrosinistra non avessero votato sotto il ricatto morale dell’egemonia berlusconiana, inghiottendo rospi su rospi, mentre si inseguiva il fantomatico centro. Una stagione che si è conclusa nell’abbraccio mortale con Mario Monti. Come se votare un candidato significasse appoggiare ogni singolo punto del suo programma, senza possibilità di suggerirgli parziali cambiamenti di rotta su questioni specifiche. Fa notare in un comunicato l’Assemblea genitori e insegnanti delle scuole di Bologna e provincia: “Sarebbe come dire che il referendum sull’acqua votato da 27 milioni di persone non ha alcun valore perché solo due anni prima Berlusconi aveva vinto le elezioni e di certo nel suo programma non c’era l’acqua-bene-comune”.
Il sindaco Merola arriva a dire che trova delirante spendere mezzo milione di euro per fare svolgere un referendum che riguarda un finanziamento da un milione. Anche in questo caso la logica con cui i “democratici” calcolano i costi della democrazia suona stramba: il milione di euro alle scuole paritarie viene dato ogni anno, quindi la posta in gioco è ben più alta. Il capogruppo consiliare del Movimento 5 stelle ha buon gioco nel replicare che “il referendum consultivo sui fondi pubblici alle materne private costa soldi, ma è un arricchimento per la democrazia”.
Intanto tra una consigliera comunale del Pd, già presidente provinciale dell’Aimc (Associazione italiana maestri cattolici), e la responsabile nazionale scuola dello stesso partito, accusata di avere propugnato una linea più morbida sul referendum, volano gli stracci, e le frecciate su Facebook si trasformano in querele.
Per citare ancora l’Associazione genitori e insegnanti: “Pare che il Partito democratico, malauguratamente, abbia perso la bussola e non da oggi”. Questo risulta evidente, almeno quanto la conclusione a cui giunge l’associazione: “La scuola pubblica è un bene troppo prezioso per essere lasciato nelle mani di politiche che hanno dimenticato perfino le prescrizioni della nostra carta costituzionale”.
Infine, papà, mamme, maestre e maestri si chiedono con sarcasmo: “Chissà perché il centrosinistra ha perso le elezioni imperdibili?”.
La risposta soffia nel vento. E il vento sta facendo il suo giro.
Finale
Il finale è aperto, dicevamo. La forza del risultato referendario dipenderà probabilmente da quanta gente andrà a votare. Ci auguriamo sia tanta. Vada come vada, questo piccolo grande “caso” merita di essere seguito con attenzione, perché potrebbe rappresentare un precedente nazionale interessante.
Se questo fosse davvero un poema ispirato a
un’antica leggenda, allora si potrebbe sperare che l’eroe non muoia
mentre compie l’impresa e riesca davvero a salvare la comunità dalla
rovina. Che il piccolo Davide – pastore, musicista e poeta – possa
atterrare il grande guerriero Golia. Staremo a vedere.
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