giovedì 14 aprile 2011

Non c'è più tempo

COMMENTO di Alberto Asor Rosa
BERLUSCONI/2

Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.

Quando la giustizia non è uguale per tutti


A sentire le notizie che arrivano dal TG3 sul processo breve non si può che provare un moto di schifo, più che di indignazione.
Per salvare Lui, sempre e solo Lui, il parlamento è imbrigliato, i ministri sono precettati e un’intera comunità a breve si ritroverà ad avere una legge che renderà questo paese ancora più ingiusto. Una legge dannosa perché con le prescrizioni brevi molti colpevoli rimarranno senza una sentenza di colpevolezza e molte vittime rimarranno senza un colpevole che paghi per i danni e le sofferenze arrecate.
Che brivido pensare che vi saranno persone che sapendo di potersi avvantaggiare della prescrizione breve e dei benefici che porterà a coloro che non sono mai stati condannati penseranno bene di commettere le proprie “marachelle” sapendo che in un paese dal nome Italia non saranno mai condannati e quindi rimarranno a vita incensurati, nonostante l’aver commesso dei reati. Magari ci saranno le prove per portarli a processo, ma chissà dopo quanto saranno state raccolte e nel frattempo il tempo passa e la prescrizione si compie. E così tutti liberi, tutti puliti, tutti onesti. E per chi è già stato condannato, per non essere stato tanto furbo dal cavarsela, arriva la punizione della prescrizione più lunga. La legge è uguale per tutti, ma per Lui un po’ meno. Viene da ridere al solo pensarci!
Si proprio da ridere, non da piangere come molti direbbero. E rido perché in fondo questo paese se la cerca sempre una brutta pagina della propria storia da scrivere. Condivido quello che Giorgio Bocca ripete da sempre e cioè che gli italiani sono per la maggioranza degli asserviti e che sempre e solo le minoranze hanno scritto le pagine più alte e più belle della storia italiana, dal risorgimento alla resistenza.
Basti sentire i sostenitori di Berlusconi per capire di che cosa sto parlando. Si da il caso che si bevano ogni sciocchezza e ogni pianificata stupidaggine priva di fondamento che viene pronunciata come fosse una nuova parola d’ordine. Questo la dice lunga sulle brillanti menti che sostengono il governo di questa povera Italia. Almeno riuscissero a trarne vantaggio da tanto servilismo. E invece no, sognano di essere ad Arcore per una notte di “bunga bunga”, oppure di apparire in una “brillante” trasmissione di Mediaset, o magari, per quelli con delle ambizione un po’ più alte si sogna l’ormai ambito posto in parlamento o, meglio ancora, al governo. In fondo c’è chi ce l’ha fatta. I precedenti non mancano. Non devi essere capace, quello semmai è un demerito perché potresti essere visto come una persona dal pensiero libero e indipendente. Basta essere spregiudicati. Eppure questi concittadini non balleranno mai “patani” ad Arcore, non saranno mai la velina o il tronato di turno in una trasmissione Mediaset, e sicuramente non siederanno mai in parlamento o al governo. E allora perché tanta passione nel difendere il leader che mai si contesta? Credo che non lo sappiano nemmeno loro ma nel frattempo sognano…
Non si può dare tutta la colpa a questo governo e al suo padrone ma è tempo di puntare il dito anche contro chi è complice di questa politica vile e spregiudicata e quindi non si può che puntarlo verso quell’elettorato che sostiene questo modo di fare politica.
In fondo anche sotto il fascismo una grande fetta del paese sosteneva quel regime. Ci sono voluti i nostri partigiani e le nostre partigiane per scrivere forse la pagina più bella della nostra storia: la Costituzione Italiana.
Carla

Mano pubblica, Stato e irrazionalità del mercato


Dopo l’intervento di Tremonti a difesa dell’italianità di imprese strategiche – in questo caso Edison e Parmalat – si è riaperto tra giornalisti e commentatori il dibattito sul ruolo dello stato in economia. La discussione è diventata ancora più animata con l’uscita di scena di Geronzi, banchiere di sistema e rappresentazione viva e plastica del rapporto tra potere politico e potere economico.
Alcuni liberali hanno visto nell’uscita di scena del presidente di Generali una rivincita del mercato che finalmente si libera dai maneggi della politica e dalle opacità di scelte industriali legate a criteri non economici. Nel caso di Geronzi, è difficile dar torto a chi sostiene tale tesi, Geronzi era proprio l’emblema dell’opacità, il simbolo dei poteri forti che controllano politica ed economia, stato e mercato. Quello che però troppe volte fanno gli economisiti liberali, a cominciare da Luigi Zingales, sul Sole24ore, è confondere azioni e degenerazioni, come se l’intervento politico fosse sinonimo di corruzione ed inefficienza. Fattosi probabilmente prendere la mano da una qual certa verve polemica, l’economista di Chicago arriva a sostenere che troppi interventi di sistema trasformano l’economia di mercato in socialismo (sic!) interessato solo a scelte clientelari e di “autoriproduzione di una casta ristretta di manager”. Zingales però dovrebbe sapere che l’Italia dell’Iri (ma anche quella dei distretti industriali) non era assolutamente un’economia socialista, nè lo erano Francia, Germania e soprattutto Giappone, dove l’interazione tra stato e mercato ha portato a risultati che difficilmente potrebbero essere descritti come deludenti.
Il problema dell’Italia non è il ruolo dello stato in economia, ma piuttosto il tipo di stato in cui viviamo. Uno stato che ha perso progettualità e la capacità di indirizzare scelte strategiche in campo economico per il bene collettivo piuttosto che per l’interesse di pochi. Che il bene collettivo, poi, non venga fatto neppure dal mercato pare piuttosto evidente rileggendo la storia economica mondiale degli ultimi vent’anni. Nei paesi occidentali tutti, nessuno escluso, il diminuito ruolo statale ha portato a maggiori sperequazioni nella distribuzione del reddito e ad una crescente povertà, mentre la crescita economica è stata di gran lunga inferiore a quella registrata negli anni d’oro del capitalismo keynesiano. Nel resto del mondo le economie in transizione o via di sviluppo che si sono affidate alla razionalità del mercato hanno fatto una brutta fine, mentre quelle in cui lo stato è intervenuto in maniera virtuosa hanno registrato successi impressionanti.
Basti pensare al caso della Cina, in cui certo molte riforme liberali sono state intraprese, ma lo stato non ha mai rinunciato al suo ruolo. Le grandi imprese non sono state privatizzate, anche a costo di scontare qualche inefficienza, sia per ridurre i costi sociali che per mantenere un controllo politico sulla direzione dell’economia cinese. Controllo politico, in questo caso, vuol dire prospettiva sul futuro, capacità di identificare i punti di forza di un paese e non lasciare tutte le decisioni alla logica del profitto, profitto che nelle economie di mercato è legato al guadagno immediato che può essere razionale nel brevissimo periodo ma deleterio nel medio periodo.
Questo Tremonti l’ha capito, rilanciando una versione moderna del colbertisimo e di protezione delle aziende nazionali, legata soprattutto al sistema bancario padano ed al legame con il territorio. Una visione che rimane però di corto respiro. Il governo italiano ha il dovere di ricominciare a fare politica industriale, con o senza partecipazioni pubbliche ed il ruolo dello stato non può essere ridotto a garantire beni pubblici, come invece sosteneva domenica Scalfari su Repubblica. Il che però non vuol dire difendere a tutti i costi l’italianità di alcune imprese o di certe banche come all’epoca dei furbetti del quartierino. Nè compiacersi per la supposta garanzia di italianità della Fiat, quando questa invece lavora per ridurre il paese tutto ad una catena di assemblaggio in competizione con il Sud del mondo e non con le economie più avanzate. Significa, invece rilanciare il sistema paese, attraverso investimenti di qualità, maggiore ricerca, difesa e promozione all’estero di alcuni settori chiave che invece sono abbandonati a se stessi, come recentemente denunciato anche da Confindustria. Significa soprattutto abbandonare gli interessi particolari dei poteri forti e delle oligarchie che bloccano il paese da trent’anni, tenendo in scacco una politica il cui problema è essere imbelle prima ancora che nociva.
Nicola Melloni (Liberazione)