da Ombre Rosse
di Nicola Melloni
L’America di Obama si appresta ad affrontare una battaglia
politica che determinerà il futuro della sua presidenza. Nell’estate del
2011, dopo che S&P aveva declassato il debito americano,
Democratici e Repubblicani cominciarono a discutere su come rimettere in
sesto i conti macroeconomici, senza però arrivare ad alcuna soluzione.
Si era dunque rimandato tutto a gennaio 2013 con dei provvedimenti di
legge automatici che, in caso di un altro mancato accordo, avrebbero
contemporaneamente alzato le tasse (o meglio, fatto scadere le esenzioni
risalenti all’epoca di Bush) e tagliato le spese dello Stato. L’impatto
si quantifica tra i 600 e gli 800 miliardi di dollari, una misura tale
da poter essere all’incirca paragonata ai provvedimenti di austerity
europei e che se applicata riporterebbe l’economia americana in
recessione.
Di fronte a questo scenario da incubo Democratici e
Repubblicani devono cercare un accordo per uscire da questa trappola.
Entrambi i partiti concordano che una stretta fiscale è necessaria anche
se divergono su come trovare le risorse necessarie. Intanto le agenzie
di rating sono già in agguato, con Moody’s pronta a declassare gli Usa
in caso non siano prese misure adeguate per rimettere in ordine i conti.
La stessa logica della trojka che ben conosciamo in Europa.
Una
logica assurda e controproducente. Come dovrebbe essere ormai chiaro a
tutti, il debito americano non è a rischio ed infatti dopo il primo
declassamento del 2011 gli interessi sui bond americani scesero, invece
di salire. D’altronde non si capisce davvero quale frenesia e quali
rischi ci siano riguardo al debito di Washington. Gli Stati Uniti, come
qualsiasi altro Stato sovrano, non possono fallire a meno che non lo
vogliano. Gli Stati creano moneta e la Fed può stampare dollari per
coprire tutte le obbligazioni di Washington, né per altro fino ad ora è
parsa timida in questo senso con continui ricorsi ai cosiddetti
quantitative easing e a credito immediato per ricapitalizzare le banche.
Non
ci sono dubbi che nel medio-periodo il debito pubblico debba essere
ripagato, ma non è certo durante i periodi di congiuntura sfavorevole –
quando non proprio di crisi e recessione, come in Europa – che si
effettuano risparmi. Anzi. Nei primi quattro anni di Obama gli Stati
Uniti sono cresciuti più velocemente dell’area Euro sostanzialmente per
le politiche macro-economiche anticicliche messe in atto dalla Casa
Bianca. Semmai si potrebbe contestare che lo stimolo fiscale non è stato
abbastanza ampio, non certo che ci sono state troppe spese. Con i
mercati in crisi e le imprese private poco disposte ad investire è stata
proprio la spesa pubblica a mantenere alti i consumi (ad esempio con i
fondi aggiuntivi per i disoccupati) e i profitti (con gli investimenti
pubblici nella scuola, nell’energia, nell’educazione ed anche
nell’industria).
Queste spese, nel tempo, possono essere ridotte, ma
solo quando il ciclo economico sarà finalmente stabilizzato, la crescita
sarà stabile e sostenuta, la disoccupazione in calo. E dunque quello
che Democratici e Repubblicani dovrebbero fare è istituire delle misure
per ridurre le spese ed aumentare le tasse solo quando l’economia sarà
finalmente sul giusto binario.
Questo difficilmente succederà perché in realtà dietro al
fiscal cliff
si combatte una battaglia decisiva per i futuri assetti economici
americani. I Repubblicani vogliono tagli su tagli, soprattutto ai
servizi sociali e vogliono il depotenziamento del sistema sanitario per
lasciare tutto nelle mani di Wall Street. Allo stesso tempo pretendono
che le tasse, soprattutto quelle per i ricchi e per le imprese,
rimangano basse. Solo tasse basse per l’1% più ricco, dicono, possono
garantire investimenti e dunque crescita. Anche se, storicamente, non
esiste nessuna evidenza in tal senso. Mentre esistono montagne di dati
che confermano che più le tasse per i ricchi si sono abbassate, più è
aumentata la diseguaglianza sociale.
L’unico dato economico che
dovrebbe veramente far preoccupare e riflettere è il rapporto tra
entrate fiscali e Pil che in America è più basso che in qualsiasi altro
paese sviluppato – appena il 18% contro una media del 30%. Inevitabile
dunque che la prima misura per ridurre il debito sia andare a prendere i
soldi dove ci sono – tra i ricchi e non certo tra i disoccupati.
L’altro
dato da considerare è, naturalmente, la spesa militare. Il budget per
la difesa in Usa è molto più alto ora che durante la Guerra Fredda ed è
circa pari alle spese di tutti gli altri Stati messi insieme
(Cina+Russia+UK, etc..). Nei prossimi dieci anni i tagli fiscali di Bush
e le spese della difesa, incluse quelle per le guerre di Bush,
ammonteranno a circa il 50% del debito americano. Ed i Repubblicani,
ovviamente, sono strenuamente schierati a difesa del complesso
militar-industriale.
Obama deve dimostrare coraggio, anche con un
Congresso ostile. I tagli fiscali devono essere possibilmente
reintrodotti solo per la
middle class (i più poveri erano già
esenti), sfidando i Repubblicani a votare contro un provvedimento che
abbassi le tasse, seppur solo per il ceto medio. E deve difendere
strenuamente la spesa pubblica, soprattutto quella sociale. I
Repubblicani (ed una parte dei Democratici) sono semplicemente la
longa manu
degli interessi di Wall Street e dell’oligarchia industrial-finanziaria
che sta proletarizzando la classe media ed impoverendo l’intero paese.
Ma l’America, nelle recenti elezioni, ha votato contro questi interessi
ed è giunta l’ora di far finalmente sentire anche la voce di questa
maggioranza di americani.
fonte: http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/11/24/28639-finestra-internazionale-il-fiscal-cliff-il-debito-e-la/
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