venerdì 10 maggio 2013

L'Europa della disoccupazione

Gli ultimi dati sono semplicemente folli. In Grecia i disoccupati sono il 27% della popolazione. In Portogallo nuova impennata, e siamo già al 17.7%. Ma anche in Italia le cose non vanno bene e solo per il 2013 si parla di oltre 600 mila posti di lavoro a rischio. Va ancora peggio per la generazione perduta - manco parlassimo di America Latina negli anni 80: 64.4% di disoccupazione giovanile in Grecia, 57 in Spagna, 38% in Italia e Portogallo.
Insomma, un disastro sociale. Eppure davanti a tutto questo continua il silenzio tombale dei governi, dell'Europa, preoccupati delle "riforme", ma ancora legati a doppio filo alla balzana idee dei conti in ordine proprio quando, invece, si dovrebbe cominciare a spendere, e parecchio, per bloccare la spirale della recessione, per aumentare l'occupazione, per voltare pagina. I numeri, evidentemente, contano solo quando si parla di spread.

Letta in giro per l'Europa: poche idee, ma molto confuse

di Nicola Melloni
da Liberazione

Appena avuta la fiducia dal Parlamento, il neo Primo Ministro Letta si è imbarcato in un giro delle capitali europee che lo ha portato a Berlino, Parigi, Madrid. Una mossa non casuale e quanto mai opportuna: la crisi che attanaglia il Paese è, lo sappiamo benissimo, una crisi europea e solo a livello europeo può essere risolta. Giusto dunque andare a parlare con gli altri governi per trovare una soluzione.
Metodo giusto, ma inutile se non si hanno veri argomenti e vere proposte su come uscire dalla crisi. Gli unici ad avere una posizione ferma e stabile sono i tedeschi: la ripresa può avvenire solo con la deflazione interna, la disoccupazione, i salari più bassi così da rilanciare le esportazioni e, di seguito, la crescita. Il modello tedesco di dieci anni fa, dicono a Berlino. Dimenticando qualche particolare, come ricordato da Martin Wolf sul Financial Times: la Germania ha potuto attuare la famosa ristrutturazione della sua economia grazie alla presenza di una forte e moderna industria manifatturiera; e lo ha fatto in una situazione macroeconomica mondiale totalmente diversa dalla presente, con la domanda molto elevata, finanziata soprattutto dai crediti dei paesi esportatori, la Cina, in primo luogo, e poi la Germania stessa. Semplificando, così come i cinesi prestavano dollari agli americani per comprare beni cinesi, così gli euro tedeschi finanziavano le spese spagnole, irlandesi, etc… rivolte soprattutto verso l’acquisto di beni prodotti in Germania.
Una situazione non replicabile: per prima cosa in molti paesi europei l’industria manifatturiera è debole, impreparata, o marginale. Solo l’Italia, con un ritardo decennale in termini di produttività ed innovazione, e parzialmente la Francia, hanno settori industriali di un certo spessore. Ma anche in questo caso la ricetta tedesca è inapplicabile. Il punto fondamentale è che per vendere c’è bisogno di avere compratori, cosa di cui c’è assoluta carenza in una situazione di crisi internazionale. Per di più i tedeschi, invece di fare la loro parte, cioè i compratori, in questo caso, spingono loro stessi sul pedale dell’austerity comprimendo artificialmente la propria economia e le loro importazioni.
Puntare sull’export, dunque, è una strategia perdente, che prolungherà la crisi, che comprimerà i salari e aumenterà (ancora) la disoccupazione senza riuscire a rilanciare la crescita. Su questo si dovrebbero concentrare Italia, Spagna ed anche Francia. Che dovrebbero formare esattamente quello che Letta ha accuratamente escluso, una lega anti-tedesca per ristabilire un ordine economico alternativo a livello europeo. Invece il nostro Primo Ministro continua a predicare la parabola dei conti in ordine, quando ormai è chiaro a tutti che è la crisi ad aumentare il debito, e non il debito a causare la crisi – anche se è ovviamente vero che il debito accumulato nel passato rappresenta comunque un macigno per l’economia italiana. Che va però affrontato a tempo “debito” e non nel mezzo della recessione.
Quello di cui c’è bisogno è un rilancio della domanda interna, sia pubblica che privata. Letta a Parigi e Madrid ha parlato di crescita ma non ha capito che questa crescita può avvenire solo abbandonando tout court l’austerity che invece ha riaffermato a Berlino: una vera e propria contraddizione in termini. Sia chiaro che Letta non è il solo colpevole, il governo spagnolo è sordo e muto davanti alla crisi e anche Hollande, che pure chiede (e ottiene) più tempo per abbassare il deficit, adotta nella sostanza il modello tedesco flessibilizzando il mercato del lavoro per diminuire i salari.
Il tour europeo è stata una perdita di tempo. A Berlino si è ammiccato ai tedeschi, a Parigi si è brindato con i francesi: per gli italiani, tante parole e nessun fatto.

Forza Italia! - R.Faenza, 1977


La cineteca politica di RI

Tra la fine dell'ancien régime e la Restaurazione, in Francia, l'unico caposaldo fra le numerose forme di governo che si succedettero, fu la presenza al governo del Principe di Talleyrand.

Dal secondo dopoguerra all'inizio di questa settimana nella vita dell'Italia Repubblicana, segnata invece da un solo immutabile (nome a parte), partito al governo, figura onnipresente e' stata quella di Giulio Andreotti, che a differenza di Talleyrand non ha nemmeno dovuto ricorrere alle virtù del camaleonte per rimanere al potere. A dimostrazione che la politica, specialmente nella DC, non e' un mestiere ma una vocazione, e che l'abito del democristiano e' una veste sacra di cui mai ci si spoglia.

Con tanto tempo ed altrettanta astuzia Giulio Andreotti ha raggiunto numerosi primati in 60 anni di potere:  ben 7 volte Presidente del consiglio, innumerevoli incarichi in vari dicasteri, dal 1945 sempre in Parlamento e custode di molti segreti di stato. Non si e' fatto mai mancar nulla, nemmeno un processo per concorso esterno in associazione mafiosa, e pur avendo un curriculum così ricco di eventi e' riuscito nella sua vita a far parlare di se' il meno possibile. Su un personaggio così attraente, star sul filo del rasoio di molti misteri italiani tra il senso dello stato ed il delirio di onnipotenza, ci si aspetterebbe una vasta cinematografia, ed invece quasi niente, se non l'audace Il Divo di Paolo Sorrentino.

Per cui, per ricordare lo Zio Giulio questa settimana abbiamo scelto un documentario dal lungimirante titolo realizzato da Roberto Faenza in collaborazione con Marco Tullio Giordana, Antonio Padellaro e Carlo Rossella nel 1977. Un montaggio di reperti video dell'Istituto Luce e di tv di altri Paesi europei mai trasmessi prima in Italia, che mostrano il destino del nostro Paese intrecciato con la storia della Democrazia Cristiana dalle elezioni del 1948 fino al 'rinnovamento' del partito al congresso del 1976. Una carrellata di eventi che legano il Piano Marshall alla ricostruzione del nostro Paese tra festival della canzone Italiana, Miss Italia ed il disastro alla diga del Vajont. Sempre presente Giulio Andreotti, che alla stregua del buon Paolini, appare sullo schermo in tutte le epoche, primi o secondi piani che siano, e sembra non cambiare mai eta' o espressione, nemmeno nel passaggio dal bianco e nero al colore.

Il documentario fu ritirato dalle sale pochi mesi dopo l'uscita quando Aldo Moro venne rapito. Faenza stesso ha raccontato in un'intervista, che quando il documentario fu trasmesso in tv nei primi anni '90 la procura di Palermo ne sequestro' una copia perché in alcuni fotogrammi Andreotti appariva accanto persone sospette per mafia.

Giulia Pirrone


il Film:

Spagna: crisi economica


Questo interessante articolo, pubblicato originalmente su Infolibre e tradotto da Presseurop, ci parla di una Spagna ormai al collasso, povertà, disoccupazione, disperazione. Eppure una Spagna politicamente immobile, che non lotta per il cambiamento. Da una parte, come spesso, la disillusione con la politica porta ad una passività dell'elettorato che non vede vie d'uscita. Dall'altra la mancanza di una grande idea alternativa, che possiamo far risalire alla sconfitta del socialismo, da cui la sinistra ancora non si è ripresa, nè in Spagna, nè altrove, taglia le gambe a qualsiasi speranza di un mondo diverso. Ed infine, dato importante e forse decisivo, bisogna ricordare che anche in periodi di crisi una larga parte della popolazione ha ancora qualcosa da perdere, casa, risparmi, beni materiali, e che è quindi più preoccupata a salvare quello che ancora ha invece che lottare per riconquistare quello che ha perso.



Nonostante la disoccupazione di massa, gli sfratti e i tagli, contestazioni e disordini sono ancora isolati. La paura di perdere il benessere residuo è più forte della rabbia.
da Infolibre

Siamo nel quinto anno della crisi. La disoccupazione, la povertà e l’esclusione sociale aumentano; si registrano i primi casi di malnutrizione infantile; decine di famiglie sono state sfrattate dalle loro case; i salari continuano a scendere ma lo stesso non accade ai prezzi dei beni e dei servizi. La gente ha capito che la tempesta non è passeggera e potrebbe durare ancora per anni. Perché la società non si ribella? Perché il sistema non salta per aria? Quanto può reggere la Spagna prima che esploda la rivolta?
È difficile pensare a un concorso di cause più favorevole a una detonazione sociale. In primo luogo, gli effetti della crisi sono devastanti. Come fa a sopravvivere un paese con sei milioni di disoccupati? La cosa peggiore è che la disoccupazione continua ad aumentare, e la domanda interna crolla vertiginosamente. I risparmi e gli aiuti che hanno permesso a molti di tirare avanti stanno cominciano a esaurirsi. Tra coloro che hanno un lavoro, molti percepiscono uno stipendio di sussistenza nell’economia sommersa.
In secondo luogo le inclementi politiche di austerity imposte alla Spagna e all’Unione europea servono solo a dissanguare il paese e allontanare la ripresa. Anziché investire per bilanciare il calo della domanda, il governo sta tagliando tutte le voci di spesa dall’amministrazione. In questo modo non soltanto si aggrava la crisi, ma si compromette la copertura sociale per le persone colpite dalla disoccupazione e dalla povertà. Sembra che il governo e l’Ue abbiano stabilito che l’uscita dalla crisi deve passare per l’impoverimento generale della maggioranza degli spagnoli. Il significato di “svalutazione interna” è precisamente questo.
In terzo luogo è cresciuta la percezione di una divisione dei sacrifici enormemente iniqua. Il caso più clamoroso, ma non certo l’unico, è quello degli sfratti. Lo stato stanzia importanti aiuti e si indebita fino al collo per salvare le banche, ma non fa nulla per porre fine al dramma di coloro che non riescono a pagare il mutuo. L’insensibilità dei poteri pubblici e dei grandi partiti davanti a questa tragedia ha contribuito ad alimentare l’indignazione di buona parte della popolazione.
In quarto luogo, come accade spesso in momenti come questo, la speranza viene meno. Nonostante la propaganda del governo e la promessa di una ripresa imminente, la gente ha capito che stiamo attraversando una fase duratura di stanca, e dunque ci attendono anni difficili.
Infine siamo penalizzati da un governo inefficace e composto da partiti corrotti. Sembra incredibile, ma in uno scenario così doloroso abbiamo un presidente del governo che è ricattato per il finanziamento illecito del partito che dirige.
Nonostante tutte le calamità che ho appena enumerato, però, la gente ancora non si ribella. Che sta succedendo?
Da una parte, ormai non ci sono più alternative. Oggi non esiste un’ideologia in grado di proporre un cammino alternativo a quello attuale o di organizzare una resistenza collettiva. La popolazione si lascia dominare dalla rabbia, che si traduce nell’alienazione e nel rifiuto del sistema economico e politico ma non si cristallizza in un movimento che possa rappresentare una minaccia collettiva.

La soglia argentina

Inoltre, nonostante l’impoverimento generalizzato, la Spagna mantiene un livello di sviluppo considerevole, e sappiamo che le democrazie sviluppate sono straordinariamente stabili e possono sopportare quasi tutto. In questo senso c’è un dato storico molto significativo: non è mai successo che una democrazia con un pil pro capite inferiore a quello dell’Argentina del 1976 sia collassata.
La Spagna ha un pil pro capite molto superiore a quella soglia, nonostante la crisi degli ultimi anni. Per questo motivo è prevedibile che ci siano episodi violenti e tensioni, ma non una rivolta generalizzata. Ciò accade in parte perché lo stato è molto potente e può facilmente reprimere la protesta, e in parte perché ci sono molte famiglie proprietarie di immobili o attive in borsa che non sono disposte a rischiare il loro futuro in avventure dal risultato incerto. Lo sviluppo porta con sé un alto livello di conservatorismo politico in tutti i settori della società.
Il sintomo più chiaro del fatto che la gente, per quanto esasperata, non intende correre rischi, è l’assenza di un dibattito pubblico in Spagna sull’opportunità di restare all’interno dell’eurozona. Nonostante l’unione monetaria si sia rivelata una trappola per topi, quasi nessuno è pronto ad accettare le conseguenze a breve termine di un’uscita dall’euro. Intanto la gente continua a indirizzare le proprie lamentele contro i partiti e le istituzioni spagnole nonostante il problema risieda più in alto, nelle leggi che regolano il funzionamento dell’euro e nelle politiche decise dai paesi del nord.
Certo, l’opinione che il popolo ha delle istituzioni europee è crollata, ma non ci sono state conseguenze. L’appoggio nei confronti dell’euro è netto e costante, e fino a quando resterà tale non ci sarà alcuna rivolta. E alla fine continueremo a sopportare una situazione che comunque la si consideri resta intollerabile.
(tradotto per pressurop da Andrea Saracino)