Le esplosioni di protesta del Medio Oriente e più in generale del bacino del Mediterraneo riportano la piazza e le masse al centro del panorama politico. Non può essere una sorpresa che queste rivolte avvengano in quei paesi periferici ma non estranei al ciclo di sviluppo capitalista, paesi marcati non solo da regimi politici dittatoriali ed autoritari ma da sperequazioni di reddito inaccettabili. La questione sociale che trent’anni di sbornia neo-liberale ci aveva chiesto di dimenticare è attuale come non mai e dimostra tutti i limiti di un modello di sfruttamento che inevitabilmente pone la questione delle contraddizioni del capitale.
Di qui le rivolte per il pane in Algeria e l’effetto domino in Tunisia ed in Egitto, paese che, è vero, continua a crescere in termini di PIL ma è nonostante questo attanagliato da una crisi economica durissima, contrassegnata da massiccie fughe di capitali, drastica diminuzione degli investimenti stranieri diretti e calo del turismo. Soprattutto, anche la crescita economica degli ultimi anni non ha portato nessun beneficio alla popolazione, con la cricca di Mubarak in controllo di larghi settori dell’economia e lesta ad appropriarsi dei profitti, immiserendo sempre più la popolazione ed allo stesso tempo cercando di cancellare qualsiasi opposizione politica al regime. In tale contesto hanno preso forza i Fratelli Musulmani che si sono basati su un approccio di tipo mutualistico, come altre organizzazioni musulmane nella regione. I Fratelli Musulmani creano ospedali e organizzano i sindacati, in molti casi provvedono ad un sistema alternativo di welfare, come in fondo facevano molti gruppi socialisti in Europa tra XIX e XX secolo. Di qui la loro innegabile popolarità – e d’altronde un modello simile ha adottato anche Hamas in Palestina. I Fratelli Musulmani, comunque, nonostante le fobie americane, non sono un gruppo estremista, in molti aspetti simile all’AKP turco (il partito di Erdogan) anche se ovviamente le evoluzioni politiche di una rivoluzione, nel caso questa davvero avvenisse, non si possono mai dare per scontate, come l’Iran insegna.
Il punto, naturalmente, è cercare di capire quali siano le relazioni di forza tra i diversi schieramenti, come ci insegnava Antonio Gramsci, schieramenti che contengono le forze del vecchio regime, attori internazionali ed i vari movimenti politici e sociali che sostengono la rivoluzione. La caduta dell’Unione Sovietica, ad esempio, vide il riaffermarsi di quella stessa nomenklatura che doveva essere rimossa dal movimento democratico. E il fatidico 1989 nell’Est Europa ha spesso visto emergere il capitale transnazionale come il vero vincitore del cambiamento, mentre in Iran, come detto, la cacciata dello Sha portò ad una vera rivoluzione in cui però i protagonisti finirono per essere i gruppi religiosi e non il movimento socialista che pure era parte integrante delle piazze di Teheran.
In breve, la differenza tra rivolta e rivoluzione la si può valutare solamente a cose fatte, cercando di capire chi in effetti risulta vincitore alla caduta del tiranno e se, in effetti, quei famosi rapporti di forza (non solo politici ma anche e soprattutto economici) si sono invertiti a favore delle forze antagoniste. La piazza non deve dimostrare solo la sua forza d’urto, ma anche la sua capacità di farsi classe dirigente. Quel che sta avvenendo in Egitto è, con tutta evidenza, il tentativo di contenere la rivolta, sostituendo Mubarak con Suleiman, ovvero l’uomo forte dell’esercito che diverrebbe il garante dei poteri economici tradizionali e, allo stesso tempo, dei tradizionali alleati dell’Egitto di Mubarak, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele (tutti preoccupatissimi delle rivolte di piazza, alla faccia della retorica pro-democrazia!). Un Egitto fedele a Washington è garanzia di stabilità della regione, una stabilità che protegge gli affari delle potenze occidentali nell’area ma, come ormai sempre più spesso, l’orizzonte temporale degli “strateghi” americani ed europei è brevissimo. Il sostegno a governi corrotti e autoritari e alle politiche israeliane di espansione neo-coloniale, insieme alle avventure militari, hanno avuto il solo effetto di medio-termine di esasperare i conflitti, accrescere la povertà e radicalizzare in senso religioso le istanze di cambiamento. La ritirata del socialismo su scala planetaria, purtroppo, ha consegnato le masse a promesse di riscatto sociale di tipo millenaristico e spesso reazionarie, nel Maghreb come in Europa. La crisi del modello di capitalismo occidentale apre nuovi scenari, a cominciare dal sud del mondo che più ha sofferto per le contraddizioni generate dalla mercificazione delle relazioni sociali di questo trentennio neo-liberista. Il problema, pressante ed urgente come non mai, è la capacità di offrire soluzione alternative per rilanciare la lotta e per evitare che la barbarie sia l’unica alternativa al capitalismo.
Di qui le rivolte per il pane in Algeria e l’effetto domino in Tunisia ed in Egitto, paese che, è vero, continua a crescere in termini di PIL ma è nonostante questo attanagliato da una crisi economica durissima, contrassegnata da massiccie fughe di capitali, drastica diminuzione degli investimenti stranieri diretti e calo del turismo. Soprattutto, anche la crescita economica degli ultimi anni non ha portato nessun beneficio alla popolazione, con la cricca di Mubarak in controllo di larghi settori dell’economia e lesta ad appropriarsi dei profitti, immiserendo sempre più la popolazione ed allo stesso tempo cercando di cancellare qualsiasi opposizione politica al regime. In tale contesto hanno preso forza i Fratelli Musulmani che si sono basati su un approccio di tipo mutualistico, come altre organizzazioni musulmane nella regione. I Fratelli Musulmani creano ospedali e organizzano i sindacati, in molti casi provvedono ad un sistema alternativo di welfare, come in fondo facevano molti gruppi socialisti in Europa tra XIX e XX secolo. Di qui la loro innegabile popolarità – e d’altronde un modello simile ha adottato anche Hamas in Palestina. I Fratelli Musulmani, comunque, nonostante le fobie americane, non sono un gruppo estremista, in molti aspetti simile all’AKP turco (il partito di Erdogan) anche se ovviamente le evoluzioni politiche di una rivoluzione, nel caso questa davvero avvenisse, non si possono mai dare per scontate, come l’Iran insegna.
Il punto, naturalmente, è cercare di capire quali siano le relazioni di forza tra i diversi schieramenti, come ci insegnava Antonio Gramsci, schieramenti che contengono le forze del vecchio regime, attori internazionali ed i vari movimenti politici e sociali che sostengono la rivoluzione. La caduta dell’Unione Sovietica, ad esempio, vide il riaffermarsi di quella stessa nomenklatura che doveva essere rimossa dal movimento democratico. E il fatidico 1989 nell’Est Europa ha spesso visto emergere il capitale transnazionale come il vero vincitore del cambiamento, mentre in Iran, come detto, la cacciata dello Sha portò ad una vera rivoluzione in cui però i protagonisti finirono per essere i gruppi religiosi e non il movimento socialista che pure era parte integrante delle piazze di Teheran.
In breve, la differenza tra rivolta e rivoluzione la si può valutare solamente a cose fatte, cercando di capire chi in effetti risulta vincitore alla caduta del tiranno e se, in effetti, quei famosi rapporti di forza (non solo politici ma anche e soprattutto economici) si sono invertiti a favore delle forze antagoniste. La piazza non deve dimostrare solo la sua forza d’urto, ma anche la sua capacità di farsi classe dirigente. Quel che sta avvenendo in Egitto è, con tutta evidenza, il tentativo di contenere la rivolta, sostituendo Mubarak con Suleiman, ovvero l’uomo forte dell’esercito che diverrebbe il garante dei poteri economici tradizionali e, allo stesso tempo, dei tradizionali alleati dell’Egitto di Mubarak, Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele (tutti preoccupatissimi delle rivolte di piazza, alla faccia della retorica pro-democrazia!). Un Egitto fedele a Washington è garanzia di stabilità della regione, una stabilità che protegge gli affari delle potenze occidentali nell’area ma, come ormai sempre più spesso, l’orizzonte temporale degli “strateghi” americani ed europei è brevissimo. Il sostegno a governi corrotti e autoritari e alle politiche israeliane di espansione neo-coloniale, insieme alle avventure militari, hanno avuto il solo effetto di medio-termine di esasperare i conflitti, accrescere la povertà e radicalizzare in senso religioso le istanze di cambiamento. La ritirata del socialismo su scala planetaria, purtroppo, ha consegnato le masse a promesse di riscatto sociale di tipo millenaristico e spesso reazionarie, nel Maghreb come in Europa. La crisi del modello di capitalismo occidentale apre nuovi scenari, a cominciare dal sud del mondo che più ha sofferto per le contraddizioni generate dalla mercificazione delle relazioni sociali di questo trentennio neo-liberista. Il problema, pressante ed urgente come non mai, è la capacità di offrire soluzione alternative per rilanciare la lotta e per evitare che la barbarie sia l’unica alternativa al capitalismo.
Nicola Melloni
(Liberazione, 10/2/2011