di Guido Rossi
da Il Sole 24 Ore
Che la vita politica italiana, in attesa delle elezioni, sia ormai
ridotta in agende, di vario contenuto e stile, di candidati politici o
di rappresentanti della fantomatica società civile è certamente fenomeno
singolare e in parte anomalo. Al crollo delle ideologie che, nel bene e
nel male, presentavano modelli e programmi politici, adattati e
propugnati dai cittadini, si sono ora sostituite agende che sanno più di
proclami che di programmi.
E poi, queste agende per simulazioni d’intenti riempiono, ognuna con i
modi suoi e i suoi sostenitori, i mass media e i social network, sempre
più condizionatori decisivi dell’opinione pubblica e delle volontà
degli aventi diritto al voto elettorale democratico. Fra tali agende la
più seguita e commentata è certamente quella del dimissionario
Presidente del Consiglio Mario Monti. Agenda non a caso esaltata da un
imprecisato e confuso "centro" politico e benedetta dal Vaticano,
fors’anche perché il lemma latino "agenda" indicò nel cristianesimo
antico il grande libro della messa e ha preso poi il suo attuale
significato nella metà del ‘600 nella nostra lingua dalla locuzione
ecclesiastica "agenda diei", cioè "gli uffizi del giorno".
Questa agenda centrista di Mario Monti dà quasi l’impressione di
essere impermeabile, quasi ad ulteriore compenso della benedizione
ricevuta, a qualsiasi principio di laicità dello Stato, dimentica in un
sol colpo dell’eredità del nostro Rinascimento, e del contributo
all’Illuminismo, nonché degli attuali fermenti ed esigenze di un Paese
sempre più multietnico e multiculturale, ancorché non si voglia in
Europa rinfocolare i presupposti religiosi della guerra dei trent’anni.
Ma essa risulta poi altresì distratta, se non per uno scadente
riferimento, rispetto ai principi fondamentali della democrazia
costituzionale.
La stessa "salita in politica", confusa nelle variegate funzioni e
benemerenze, sembra accoppiarsi ad un singolare criterio di scelta dei
candidati della propria lista elettorale. Infatti, i titoli delle loro
ammissioni e le cause di ineleggibilità e incompatibilità, in evidente
sovrapposizione all’art. 66 della Costituzione, che li dovrebbe vedere
giudicati da ciascuna Camera, saranno sottoposti ad una preventiva "due
diligence" del manager Enrico Bondi. Fuor dell’uso improprio delle
espressioni straniere, i delegati a rappresentare il Governo dei
cittadini saranno dunque scelti con il giudizio di un nuovo "Capo
azienda" lontano e fuori della politica?
È forse allora finalmente tempo che chi ne ha l’autorità spieghi che
lo Stato non è un’azienda, che la politica non è una branca
dell’economia aziendale, che la meritocrazia, i cui criteri sono sempre
più discutibili, porta all’oligarchia di élite, che promuovono
gigantesche inuguaglianze e difettano per loro natura di cultura
democratica. Non è quindi un caso che nell’agenda Monti il benessere dei
cittadini e l’economia sociale di mercato, finora soffocati dalla
politica dell’austerità e del rigore, tanto impietosa quanto
discutibile, non siano previsti ed attuati attraverso provvedimenti a
tutela dei fondamentali diritti (lavoro, istruzione, salute), nei quali
si realizza la democrazia costituzionale.
E poi, come ha giustamente rilevato Barbara Spinelli su La
Repubblica, il titolo stesso dell’agenda: "Cambiare l’Italia, riformare
l’Europa" dovrebbe essere modificato in "Cambiare l’Europa per cambiare
l’Italia". Non va dimenticato infatti che i mali dell’Italia, pur in sé
tutt’altro che trascurabili, sono nell’ultimo anno dipesi in gran parte
da una difettosa e pericolosa struttura politica europea, la quale ha
solo potuto parzialmente bloccare, per merito della Bce, la devastante
crisi depressiva dei vari Stati membri, fra cui il nostro. L’Unione
Europea si presenta infatti oggi come una struttura
tecnocratico-amministrativa, che non ha ancora come fondamento né un
popolo europeo né una nazione degli europei. Non è sufficiente allora
semplicemente riformare l’Europa, ma è necessario cambiarla.
Un recentissimo articolo sull’Economist ha infatti
paragonato l’attuale situazione del l’Unione Europea a quella del Sacro
Romano Impero. Il parallelismo dovuto tra gli altri allo storico Peter
Claus Hartmann, è per molti versi inquietante. L’impero, anche dopo la
defenestrazione di Praga, che dà inizio alla Guerra dei trent’anni tra
gli Stati cattolici e quelli protestanti, si chiude con la pace di
Westfalia, nel 1648, nella totale incapacità di siglare un’unità
politica europea, sicché finisce per scomporsi in frammentati Principati
geopoliticamente irrilevanti. Nella metà del diciottesimo secolo,
Austria e Prussia, che cercano di ridurre gli altri territori ad una
"terza Germania", sono ulteriore fonte di destabilizzazione. Ed è in
questo paragone che ritengo oggi sconveniente un’adesione italiana
all’agenda Schäuble, che prevede un supercommissario per bloccare i
bilanci degli Stati membri irrispettosi delle regole sul deficit.
Senza continuare con ulteriori paragoni, sembra opportuno che, se non
vuole dissolversi, come Sacro Romano Impero, preda poi facile di
Napoleone, l’Europa debba democraticamente cambiare privilegiando
l’elemento federalistico su quello statale, sia nella sua
organizzazione, sia nella formazione della sua volontà democratica e nel
modo di agire dei suoi organi centrali. Lo stesso Parlamento europeo
non può rappresentare ciò che non è e ciò che ancora non esiste: né il
popolo europeo, né una sfera pubblica politica europea, che decida
aldilà dei confini nazionali le questioni decisive per la sua
sopravvivenza.
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martedì 8 gennaio 2013
La lezione di Obama
di Nicola Melloni
da Liberazione
L'accordo sul fiscal cliff e le scelte europee
Proprio in extremis, quando pareva ormai sicuro che l’economia americana potesse cadere nel temuto burrone fiscale, Obama è riuscito a strappare un accordo, seppur ancora temporaneo, tra Democratici e Repubblicani. Il fiscal cliff era stato un escamotage assurdo, concordato un anno e mezzo fa, per consentire al governo di innalzare il debito pubblico, che in America è determinato per legge. Non riuscendo a trovare una mediazione su nessun punto rilevante di politica economica, Democratici e Repubblicani avevano stretto un patto che avrebbe scontentato tutti: più tasse per i ricchi e il ceto medio accompagnati da gravosi tagli di spesa pubblica, una sorta di austerity all’americana che avrebbe riportato l’economia Usa in recessione.Da un anno e mezzo a questa parte le posizioni non si erano riavvicinate più di tanto. I Repubblicani, sobillati dal Tea Party, erano soprattutto impegnati a mantenere gli sgravi fiscali introdotti da Bush ed allo stesso tempo a ridurre notevolmente la spesa pubblica vista come origine principale del debito americano. I democratici invece pretendevano un aumento delle tasse per i ricchi e tagli meno massicci di spesa. Per il momento sembra aver decisamente prevalso la linea di Obama e dei democratici. Le tasse per i ceti più ricchi sono state infine alzate (anche se solo oltre la soglia dei 400mila dollari, mentre i Democratici chiedevano che le aliquote più alte colpissero i redditi da 250mila dollari in su) mentre la discussione sui tagli di spesa sono state rimandate di due mesi.
Obama, al secondo mandato e ormai scafato nei trucchi della politica di Washington, è riuscito a far leva sulle divisioni all’interno del Great Old Party. I conservatori “tradizionali” si sono rifiutati di piegarsi alla logica del “tanto peggio, tanto meglio” degli estremisti del Tea Party che hanno infatti votato contro l’accordo. I Tea Party hanno un approccio ideologizzato fin quasi al fanatismo e vogliono ridurre a tutti i costi il peso dello Stato in economia – dunque poche tasse, e spesa pubblica bassissima, a cominciare dalla riforma sanitaria e dalla social insurance. E non erano disposti a nessun compromesso anche a costo di far sprofondare l’economia in recessione. Ma l’establishment repubblicano e soprattutto i suoi grandi finanziatori non potevano seguirli su questa strada. In fondo neanche i falchi di Wall Street che troveranno una busta paga un poco più leggera a fine anno, erano disposti a tollerare una politica economica suicida che, con la recessione, avrebbe portato ad una riduzione dei profitti. Ed in cambio del loro silente consenso, le grandi corporations, a cominciare da Goldman Sachs, hanno ricevuto da Obama sgravi fiscali e sussidi per un valore di 205 miliardi di dollari.
Sfruttando dunque le divisioni nel campo avversario Obama è riuscito, almeno per il momento ed in attesa delle decisioni sui tagli di spesa, a portare a casa una vittoria piuttosto netta. In realtà questa vittoria è più che altro simbolica e difficilmente cambierà i meccanismi di distribuzione della ricchezza. D’altronde durante il primo mandato di Obama le corporations americane hanno visto la quota profitti ritornare oltre la soglia pre-crisi mentre la quota salari è in calo verticale. E tale situazione non cambierà di certo con la modesta ripartizione fiscale.
Ma anche i simboli sono importanti. Chiedere ai ricchi di cominciare a pagare di più è senza dubbio un primo passo nella giusta direzione. Un primo passo nell’identificazione dei problemi strutturali del capitalismo neoliberista che ha tentato di combinare diseguaglianza e democrazia tramite il ricorso alla leva finanziaria, creando ricchezza fittizia per compensare la perdita di ricchezza reale per i lavoratori. E dunque un ribilanciamento del budget pubblico in maniera meno classista è motivo di soddisfazione.
E soprattutto dovrebbe far riflettere le cancellerie europee ed i partiti che, più a torto che a ragione, ancora oggi si definiscono socialisti. A cominciare dall’Italia, paese in cui, lo sappiamo bene, il debito è arrivato ormai a soglie insostenibili ma anche paese in cui la ricchezza privata rimane altissima e concentrata nelle mani di pochi. Non solo dunque un sentimento di equità ed etica, ma anche la logica economica dovrebbe portare il futuro governo ad andare proprio lì, tra i più abbienti, a cercare le risorse per la cura ed il rilancio della nostra economia. A cominciare da una patrimoniale pesante e da un riordino delle aliquote Irpef in maniera da colpire contemporaneamente patrimoni e redditi più alti, detassando contemporaneamente i redditi più bassi, il lavoro e gli investimenti. Per una volta, ispirarsi al modello americano non sarebbe poi così male.
fonte: http://www.liberazione.it/news-file/La-lezione-di-Obama.htm
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