giovedì 19 aprile 2012

NO ALL'IMBROGLIO SULL'ARTICOLO 18!
(IV parte)Di Giovanni Alleva

Continua oggi la nostra rassegna sulla riforma del lavoro analizzata da giuslavoristi indipendenti. Per firmare la petizione già proposta nei giorni scorsi, ricordiamo il link:


Punti critici della riforma del mercato del lavoro in tema di flessibilità in entrata
e in uscita ed interventi indispensabili.


La diffusione del testo del disegno di legge in materia di riforma del mercato del lavoro ha suscitato contrastanti reazioni caratterizzate, in generale, da un atteggiamento fortemente negativo nei settori conservatori, imprenditoriali ed in genere del centro-destra, e da' un giudizio positivo o addirittura molto positivo nel settore del centro-sinistra e di alcune confederazioni sindacali Cisl e Uil (soprattutto
la Cisl).
L'impressione diffusa è che si sia trattato, alla fine, di un successo soprattutto del PD e del suo segretario On. Bersani in accordo con la CGIL e che il simbolo di tale successo sia la previsione di possibilità di reintegra ex art. 18 st.lav. (nuovo testo) anche con riguardo ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (o economico). Forse il peggio è stato evitato, ma a parere di chi scrive vi è assai poco o nulla da gioire perché nel complesso tutta la riforma realizza un arretramento delle tutele e non solo con riguardo all'art. 18, perché la limitazione – d'altro canto più apparente che reale – su questa materia è stata pagata ad alto costo su altri e non meno importanti argomenti, quali la flessibilità in entrata, non diminuita ma ampliata essa
stessa, i licenziamenti collettivi e gli ammortizzatori sociali.

Poiché, però, tutte le valutazioni di insieme sono sempre altamente soggettive e opinabili, quello che importa è entrare nel merito dei singoli problemi e delle singole soluzioni con metodo quanto più possibile rigoroso dal punto di vista tecnico-giuridico e capacità di comprendere come le singole norme possano finire, poi, con il concretizzarsi in sede giudiziaria ed extragiudiziaria, modificando il rapporto di forza fra le parti sociali. Quel che importa, inoltre, visto che si tratta di un disegno di legge naturalmente aperto a possibilità di emendamenti è capire in che modo le singole norme potrebberosubire modifiche formalmente ridotte, ma di grandi conseguenze concrete sul piano regolativo.
* * *

1) FLESSIBILITÀ IN ENTRATA
Vale dunque la pena di seguire l'articolazione del disegno di legge ed occuparsi anzitutto della flessibilità in entrata ossia delle tipologie dei contratti precari, la cui sostanziale riduzione o “messa in sicurezza” in termini di maggior garanzia e di clausole antielusive avrebbe dovuto realizzare la contropartita rispetto ad un aumento della flessibilità in uscita ossia della “manutenzione” o, piuttosto, della manomissione della disciplina dei licenziamenti e, nello specifico, dell'art. 18.

La vera novità, sicuramente peggiorativa sul piano concreto e molto pericolosa su quello dei principi, con riguardo ai contratti precari è che adesso non è più necessario indicare la causale nel primo contratto a tempo determinato con la durata massima di 6 mesi, che venga stipulato fra il datore Tizio e il lavoratore Caio ovvero nel primo contratto di somministrazione con cui il datore Tizio utilizza il lavoratore Caio
tramite intervento di agenzia.

Si dirà, naturalmente, che questa novità costituisce una sorta di patto di prova in forma diversa di un modo di far conoscere i due soggetti di un possibile futuro rapporto, invogliando il datore di lavoro a “provare” quel lavoratore, ma è indiscutibile che la precarietà complessiva viene grandemente aumentata e, soprattutto, liceizzata perché il vero grande riscontro di questi 10 anni di applicazione della d.lgs n. 368 del 2001 in tema di contratti a termine e degli artt. 20 e ss. del d.lgs. 276 del 2003 in tema di lavoro somministrato è stato questo, anche un po' sorprendente: che, grazie alla previsione per cui le esigenze produttive-organizzative-sostitutive, devono essere specificate nella lettera contratto di assunzione, l'abuso del contratto a termine è stato sistematicamente stroncato in giudizio almeno 9 volte su 10.
Il problema è, se mai, che solo una piccola parte dei contratti a termine o di lavoro somministrato illegittimi, per mancanza di specificazione o di vera temporaneità dell'esigenza, sono stati portati in giudizio, ma questo è un altro problema. 
Un problema, cioè, di scarsa capacità di controllo sociale del sindacato, da un lato, e degli istituti previdenziali, dall'altro, e, soprattutto di opacità della nostra organizzazione amministrativa - la quale possiede tutti i dati circa la composizione dell'occupazione nelle singole aziende, e, quindi, anche della dimostrazione concreta degli abusi, ma non li rende conoscibili, nel senso che né il sindacato né l'istituto previdenziale hanno diritto ad accedere a tali dati se non attraverso il meccanismo faticoso e burocratico della specifica procedura contenuta nella legge sulla trasparenza amministrativa (l. n. 241 del 1990).

La controparte datoriale di centro-destra è così convinta dell'esattezza di queste valutazioni che si è preoccupata di introdurre all'art. 32, comma 3, della legge n. 183 del 2010 uno specifico termine di decadenza (60 giorni) proprio per impedire al lavoratore precario - sempre in dubbio se impugnare il contratto appena terminato o sperare in un suo spontaneo rinnovo - di procedere con i necessari tempi di
valutazione e reazione all'azione in giudizio. Questa sanatoria dell'illegalità tramite brevi termini di decadenza della possibile azione viene apparentemente rivisitata dal comma 3 dell'art. 3 del disegno di legge,
ma si tratta di norma di dubbia interpretazione.

Chiarissimo, invece, il comma 5 dello stesso articolo nello specificare che l'indennità compresa fra 2,5 e 12 mensilità con cui lo stesso art. 32, l. 183 del 2010, pretende di “coprire” tutto il periodo tra cessazione del rapporto precario e sentenza, riguardi anche il danno contributivo; e ciò è veramente gravissimo nel senso che viene qui sancito che il lavoratore il quale ha subito il torto di essere assunto come precario laddove il rapporto doveva essere invece a tempo indeterminato un anno deve comunque subirlo sotto forma di un vuoto di contribuzione, che è particolarmente ripugnante in regime ormai di pensione contributiva per tutti.
In definitiva, la riforma della flessibilità in entrata nei suoi principali strumenti costituiti dal contratto di lavoro a termine e dal contratto di lavoro somministrato è quanto mai deludente, perché l'utilizzabilità di tali contratti non verrà ridotta, ma addirittura liberalizzata per il primo contratto concluso fra un certo datore e un certo
lavoratore. Il che costituisce, inoltre e soprattutto, la grave incrinatura del principio per cui essendo il contratto a tempo indeterminato la forma normale di impiego del lavoro, il contratto a termine dovrebbe essere un'eccezione sempre specificamente giustificata anche alla luce della disciplina comunitaria.

I miglioramenti espressi sono ben poca cosa come quelli di portare da 10 a 60 giorni l'intervallo minimo fra un contratto a termine e l'altro o quella dal contenuto incerto riguardante la revisione dei termini di impugnazione. Assolutamente nulla viene detto invece circa l'abuso più comune dei contratti di somministrazione che è quello di reiterarli all'infinito o quasi, senza nessuna apprezzabile ragione, visto che ormai datore e lavoratore ben si conoscono, e quindi sarebbe possibile la stipula di contratti a termine diretti.
L'esigenza più importante resta comunque una, cioè che i dati dei centri per l'impiego sull'utilizzo dei rapporti precari e, specificamente, dei contratti a termini e di lavoro somministrato, siano resi pubblici ossia che venga istituita un'anagrafe del lavoro e che all'ispettorato del lavoro venga riconosciuto il potere di trasformare a tempo indeterminato i contratti illegittimi.
Quanto al preannunziato disboscamento delle altre forme di lavoro precario non è possibile nell'economia di questo breve scritto soffermarsi su ognuna di esse, se non per segnalare che l'abrogazione del contratto di inserimento è comprensibile nel quadro della forte promozione dell'apprendistato, mentre la limitazione, sicuramente piuttosto rigida del contratto di lavoro a progetto, riportato all'idea originaria di contratto di lavoro autonomo -caratterizzato da uno specifico risultato finale ossia da un opus- è apprezzabile ma in fondo poco significativa in concreto, perchè l'abuso dei contratti a progetto era già stato efficacemente perseguito dalla giurisprudenza, di talchè anche il ricorso a tale forma precaria era scemato non diversamente da quello dell'ancor più truffaldina forma dell'associazione in partecipazione con apporto di lavoro alla quale l'art. 10 del disegno si limita ad apporre le stesse cautele che la giurisprudenza ha già da molto tempo individuato.

La vera novità avrebbe dovuto, invece, investire l'altra modalità di lavoro precario che la prassi elusiva del diritto del lavoro ha individuato dopo le “delusioni giudiziarie” che ai datori di lavoro poco scrupolosi ha provocato l'utilizzo del contratto a progetto.
Si allude ovviamente alle c.d. “false partite iva”, tematica che viene affrontata in modo essenzialmente empirico fissando 3 presupposti (durata della collaborazione, importanza del fatturato, sede di lavoro presso il committente) con la precisazione che la ricorrenza di due di essi trasformano la collaborazione autonoma a partita iva in collaborazione parasubordinata e, pertanto, con contribuzione INPS obbligo di foglio paga etc. Non si tratta, peraltro, di trasformazione in rapporto di lavoro subordinato se non tramite la mediazione concettuale dell'art. 69 co. I del d.lgs n. 276/2003 ossia per mancanza di progetto in senso pregnante: come dire se non si tratta di lavoro autonomo puro bensì di collaborazione coordinata e continuativa ne deriva ulteriormente che per quelle collaborazioni per cui sarebbe necessario il “progetto” (e si sa che non sono tutte, restando escluse principalmente quella con la PA e quelle rese dagli iscritti agli albi professionali) la trasformazione si duplica pervenendo al lavoro subordinato. Non vogliamo dire che non si sia fatto nulla ma certamente si poteva fare di più e meglio e la disciplina merita davvero di essere riconsiderata in sede parlamentare, anche per evitare le elusioni che sempre vengono stimolate dalla fissazione di parametri empirici.

* * *

2) FLESSIBILITÀ IN USCITA
Si sa che tutta questa materia è stata affrontata partendo dal concetto che i licenziamenti (individuali) costituiscono una triade: licenziamento discriminatorio, licenziamento disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Rispetto a questa triade si è posto il problema della sanzione unica o alternativa in caso di illegittimità. L'impostazione governativa era per così dire a “scalare”: reintegra per licenziamento discriminatorio, alternativa tra reintegra e indennizzo economico a scelta del giudice per licenziamento disciplinare e solo indennizzo monetario per licenziamento per giustificato motivo oggettivo o economico.
Era chiaro che un sistema asimmetrico tra licenziamento disciplinare ed economico non poteva funzionare essendo pur sempre il datore di lavoro che -nel momento iniziale- battezza il licenziamento come “disciplinare o economico” con ovvia propensione per quello che in caso di illegittimità non prevede la reintegra.
Questo argomento ha abbacinato l'attenzione dei politici e dei tecnici e si vedrà tra breve come l'apparente vittoria dell'opinione progressista nasconda una scarsa sostanza.
Viceversa sono sfuggiti a quell'attenzione due importantissimi argomenti e cioè che l'art. 15 del disegno di legge tratta anche i licenziamenti collettivi, introducendo un gravissimo peggioramento della disciplina, e che i licenziamenti disciplinari non sono affatto regolati nel senso che l'alternativa tra reintegra e indennizzo possa essere applicata indifferentemente, perché anzi la reintegra può essere applica solo in pochi casi - essenzialmente teorici -, mentre nella grande maggioranza il giudice è tenuto ad applicare solo l'indennizzo.
Insistiamo su questi due aspetti perché, se essi non fossero modificati in sede parlamentare, la riforma dovrebbe essere fermamente rigettata. Per quel che riguarda i licenziamenti collettivi, il fatto è che ora per le violazioni procedurali la sanzione sarebbe unicamente quella economica, mentre la sanzione di reintegra sarebbe limitata alla violazione dei soli criteri di scelta dei licenziati. Detto con più precisione, l’art. 15 da un lato rende sanabile dal raggiunto accordo sindacale eventualmente raggiunto le irregolarità della comunicazione d’apertura della procedura, e dall’altro, sottopone alla sola sanzione di indennizzo economico
le irregolarità della comunicazione finale di cui all’art. 4 IX° comma che costituisce, per così dire, il rendiconto dell’utilizzo dei criteri di scelta dei licenziati, ed è dunque documento delicatissimo, sulla cui regolarità si è molto spesso giocata la sorte delle procedure di esubero.

Chiunque abbia un minimo di esperienza giudiziaria sa che, specialmente negli ultimi anni, la vera difesa contro i licenziamenti collettivi ha riguardato essenzialmente le molte possibili violazioni procedurali, dunque, la riforma equivale a togliere nella grande maggioranza dei casi la reintegra per i licenziamenti collettivi.
Il che, va aggiunto, ridimensiona ancora i presunti successi della reintroduzione della reintegra per i licenziamenti economici: detto in breve, il datore di lavoro che fa 5 licenziamenti invece di 4, ossia un licenziamento collettivo al posto di 4 licenziamenti individuali, si sottrarrebbe al rischio della reintegra, perché rientrerebbe nella più lassista disciplina dei licenziamenti collettivi.

Sui licenziamenti disciplinari il problema è questo: la reintegra è prevista nel caso si accerti che il fatto contestato al lavoratore non esisteva in via assoluta oppure, se esistente, che per esso la disciplina collettiva prevedeva espressamente solo una sanzione conservativa (multa o sospensione), o, infine, che il lavoratore sia risultato estraneo al fatto.
Ma l’ipotesi di gran lunga più frequente, nelle controversie sui licenziamenti disciplinari è quella della mancanza di proporzione tra infrazione e sanzione, e poiché si é al di fuori di quei casi, risulta sanzionata solo con l’indennizzo economico, ferma restando l’efficacia del licenziamento, che, dunque, sarà di gran lunga la soluzione più frequente della lite.
Vogliamo dire che 9 volte su 10 nei licenziamenti disciplinari si discute di un fatto che astrattamente potrebbe dar luogo al licenziamento, ma che viene parzialmente giustificato da ragioni di contesto ossia da attenuanti o esimenti (come nel caso del lavoratore che si sia effettivamente insubordinato, ma solo perché gravemente
provocato).
Il caso del lavoratore accusato di un fatto che non ha commesso o addirittura di un fatto inesistente è poco più che un caso di scuola, e l'ipotesi che il datore di lavoro sia così disavveduto da punire con il licenziamento un'infrazione che il contratto punisce solo con una sanzione minore di multa o sospensione (ad es. sanzione per assenza ingiustificata per un solo giorno) è anch'essa un'ipotesi di scuola.
La normalità delle controversie in materia disciplinare è che il fatto in sé sia più o meno scontato, ma siano le circostanze, le premesse, le ragioni ecc. quelle che determinano poi in concreto la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, e, quindi, la previsione di cui si parla non stabilisce affatto
una semplice alternativa tra reintegro ed indennizzo economico, a discrezione del magistrato, perché, purtroppo, la situazione è ben diversa:il reintegro é previsto per casi limite e solo di scuola, e l’indennizzo, invece, per la massima parte delle controversie vere.

Aggiungiamo che, in ogni caso, l’alternativa rimessa al giudice sarebbe una soluzione paternalistica che ridurrebbe ben presto la giustiziabilità dei licenziamenti illegittimi ad una sorta di pelle di leopardo, con tribunali che applicano sempre prevalentemente il reintegro ed altri che applicano sempre prevalentemente l’indennizzo; d’altro canto, proprio i giudici del lavoro stanno già protestando di fronte alla prospettiva di sentirsi accusare, un domani, di essere pregiudizialmente favorevoli o, invece, contrari al datore di lavoro o al lavoratore, e appaiono ben decisi a respingere come una mela avvelenata il dono del potere discrezionale che il legislatore sembra volere loro consegnare.
Dunque, anche questa disposizione, pertanto, è da rivedere totalmente, anche se si volesse mantenere la cosiddetta “soluzione tedesca”, dell’alternativa tra reintegra ed indennizzo economico: diremmo, per ironia, che bisognerebbe ispirarsi alla vera disciplina di diritto tedesco, nella quale l’alternativa dell’indennizzo economico viene dopo la dichiarazione di invalidità del licenziamento, su istanza di una delle parti che alleghi comprovate ragioni di incompatibilità nella prosecuzione del rapporto.

La tipizzazione delle fattispecie che possono portare o al reintegro o all’indennizzo non ha nulla a che fare con quel sistema, ma è una furbizia di questo disegno di legge che, ancora una volta, sembra promettere molto, ma dà quasi nulla. Possiamo, così, giungere, al punto che ha polarizzato attenzione ed il dibattito
giuridico-politico, è cioè quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. La Confindustria grida allo scandalo perché è stato reintrodotto anche qui come sanzione il reintegro, ma un osservatore un minimo avvertito del significato giuridico e della formula utilizzata nel testo legislativo è indotto a ritenere che si tratti o di una finta, o di un’incomprensione, per la buona ragione che la sola ipotesi in cui il reintegro verrebbe disposto è quella di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Tutti comprendono che si è ancora una volta di fronte ad un’ipotesi di scuola: l’insussistenza della ragione addotta deve addirittura essere manifesta, e quindi non ricavabile da indizi o deduzioni, ma palese, come dire, ad esempio, che il datore di lavoro abbia portato a ragione del licenziamento la chiusura di un esercizio
commerciale che è invece tuttora aperto, o un passivo del bilancio, che invece indica un attivo, e così via.
Il che, francamente, non è credibile che avvenga.
Ci permettiamo di dire, senza che ciò suoni sarcasmo per nessuno, che se di vittoria si è trattato nella reintroduzione del reintegro, si è trattato davvero dei una “vittoria di Pirro”.
In tutti gli altri casi di illegittimità c’è solo l’indennizzo economico, nella solita forbice compresa tra 12 e 24 mensilità, ma qui il problema più importante è quello di sapere quali sarebbero questi ulteriori casi, e soprattutto se essi comprendono le ipotesi di cosiddetto licenziamento speculativo, quelle cioè in cui il licenziamento per motivo oggettivo non è connesso ad una difficoltà aziendale di tipo economico o organizzativo, ma solo alla ricerca di un maggior profitto a scapito del lavoratore, come nei casi tipici di ridistribuzione su quelli superstiti dopo il licenziamento degli altri di un carico lavorativo complessivo rimasto invariato, ossia di forte peggioramento della loro condizione lavorativa, oppure quello di esternalizzazione
dei compiti svolti dai lavoratori licenziati con ricorso ad appalti a prezzi minori ecc.

Vi è anche il rischio insomma che “le altre ipotesi “ di illegittimità in cui, secondo la previsione normativa, vi sarebbe comunque un indennizzo economico, si riveli una sorta di “insieme vuoto”, anche perché lo stesso art. 14 dedicato alle sanzioni per licenziamento ingiustificato ,nella sua ultima parte richiama ancora il famigerato art. 30 della Legge 183/2010 (cosiddetto “Collegato Lavoro”), il quale descrive il giustificato motivo oggettivo come un disegno economico produttivo e organizzativo di qualsiasi tipo ideato dal datore di lavoro in base al principio di libertà economica e, dunque, in definitiva, sempre legittimo.
Si è molto lontani da un qualsiasi tipo di effettivo progresso; qui occorrerebbe, a nostro avviso, adottare in indirizzo del tutto diverso, stabilire tipologicamente le fattispecie in cui non c’è il giustificato motivo oggettivo ricomprendendovi almeno le principali ipotesi di licenziamento “speculativo”, e, poi, per il resto, introdurre il
vero rimedio che è costituito dalla prevenzione dell’utilizzo di ammortizzatori sociali conservativi (cassa integrazione o contratto di solidarietà), dopo il cui esaurimento soltanto sia possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo che, a quel punto, costituirebbe solo una misura residuale.
In questo senso, si potrebbe istituire una utile connessione con quel procedimento preventivo di conciliazione, che, questa volta, positivamente, il disegno di legge, prevede.

Il problema, in altri termini, è quello di sdrammatizzare la tematica dei licenziamenti per motivo tecnico produttivo, sia individuali che collettivi, il che significa, da un lato, individuare le fattispecie speculative per cui è vietato ricorrevi, e, dall’altro, farli precedere da un tempo di ammortizzazione tramite integrazione salariale abbastanza lungo, da renderli per la maggioranza dei casi, inutili.
Le previsioni del disegno di legge in tema dei licenziamenti si presta anche ad altre considerazioni; vi è, ad esempio, la previsione del VI° comma, non poco bizzarra, secondo la quale, in caso di licenziamento invalido o per difetto di forma, tutto si ridurrebbe al pagamento di un indennizzo anche dimezzato rispetto a quello normale, salvo che il lavoratore chieda che si accerti il difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso la controversia torna ad essere una normale controversia di licenziamento: ma su quale motivazione ci si chiede, visto che essa era mancata al principio, e chi deve dare l’onere della prova?

Alla fine sembra che si sia qui di fronte ad una sorta di incredibile processo al buio, nel senso che, se il datore di lavoro non motiva il licenziamento, il lavoratore ha la scelta tra prendere un piccolo indennizzo, o contestare lui un licenziamento di cui non è stata data ufficiale motivazione.
Siamo ad una mostruosità giuridica che va semplicemente tolta di mezzo.
Piuttosto, il disegno di legge non tocca minimamente un problema di grande rilevanza, a proposito del reintegro, cioè che quando esso sia ordinato risulti poi effettivo, e non rimanga sulla carta.
Qui sarebbe agevole trovare il rimedio, considerato che nel regime del processo ordinario, l’art. 614 bis del codice di procedura civile, consente al giudice di prevedere in sentenza pene private crescenti, se la parte condannata ad un obbligo di fare non lo esegue effettivamente.

Questa norma però, per espressa eccezione, non si applica la processo del lavoro (non per nulla è stata introdotta dal governo di centro destra): basterebbe togliere l’eccezione con un emendamento di una riga e la reintegra diventerebbe effettiva.
Come si vede, le riforme vere non sono poi tanto complicate.
Una attenzione specifica meriterebbero anche le previsioni in tema dello speciale procedimento previsto dagli artt. 16 e ss. per la trattazione della controversie di licenziamento ivi comprese quelle che conseguono ad un problema di riqualificazione del rapporto, il che significa, per esser chiari, anche delle controversie che nascono dall’impugnazione ad esempio di un contratto a progetto che sia già terminato e che contestano anzitutto che si tratti piuttosto di un rapporto di lavoro subordinato.
Lo schema è quello collaudato del procedimento a fase sommaria che si conclude con un decreto emesso nei trenta giorni dal ricorso introduttivo, salva opposizione davanti allo stesso Tribunale che ha emesso il provvedimento sommario e salvi ovviamente i gradi di appello e di Cassazione successivi, i quali però – e questo è sicuramente un tratto interessante – devono svolgersi in termini molto ristretti (60 giorni per
l’udienza in appello e 6 mesi per quella in Cassazione).

Veramente difficile non esser d’accordo, ma chi conosce il deplorevole stato in cui versano gli uffici giudiziari si chiede come sia possibile sperare in tali performance senza procedere ad un massiccio reclutamento straordinario di Giudici del Lavoro attuato mediante arruolamento anche di operatori già specializzati nella materia.
Poiché è difficile prevedere che il disegno di legge, contestato come si dice da destra e da sinistra, possa avere un iter agevole, sarebbe probabilmente il caso di stralciare questa particolare tematica ed affidarla ad un separato iter sul quale ben pochi potrebbero avere qualcosa da eccepire, perché si tratterebbe di una riforma davvero importantissima riguardando non solo i licenziamenti propriamente detti, ossia i recessi dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ma anche tutti quelli che nascono dall’impugnazione di contratti precari e ciò significherebbe davvero investire uno dei problemi principali del mercato del lavoro.

Il disegno di legge comprende poi, come detto, una ulteriore parte, in teoria anch’essa importantissima, riguardante gli ammortizzatori sociali, la cui analisi peraltro esorbita dall’economia di questa breve nota.
Si può comunque notare che appare metodologicamente corretto distinguere come fa il disegno di legge tra trattamenti di disoccupazione e tutele in costanza di rapporto di lavoro, ossia tra ammortizzatori risarcitori ed ammortizzatori conservativi, ma scorretto o meglio non condivisibile è il privilegio chiaramente accordato al primo tipo di ammortizzatori rispetto al secondo e questo è conforme alla ispirazione di fondo dell’intero disegno di legge che è quello di consentire sempre l’alleggerimento occupazionale da parte dell’impresa che, per qualsiasi ragione lo desideri, detto in metafora il tipo ideale di impresa pensato dall’estensore del disegno di legge è quello dell’impresa anglosassone che “agisce ad organetto”, riducendo liberamente il personale a fronte di qualsivoglia convenienza in tal senso e assumendone altri ex novo a presentarsi di nuove opportunità.

E’ chiaro che in questa visuale sono soprattutto importanti i trattamenti di disoccupazione, che il disegno di legge nobilita attraverso una assicurazione sociale a sé stante, l’Aspi, sostitutiva della modesta indennità di disoccupazione sociale che è una delle tante prestazioni assicurative dell’INPS. Nell’altra visuale invece che ha in mente il diverso social-tipo dell’impresa di tradizione europea, ampiamente partecipata e semi istituzionale, sono soprattutto importanti gli ammortizzatori di tipo conservativo (integrazioni salariali, contratti
di solidarietà) la cui riforma-ridimensionamento (diremmo per fortuna) è prevista dal disegno di legge come operativa tra alcuni anni, ossia si potrebbe dire per una successiva era geologica, considerata la velocità con cui si susseguono cicli economici diversi.
Prof. Avv. Piergiovanni Alleva

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