giovedì 31 gennaio 2013

50 mila studenti in meno, come voleva la Fornero

E quale sarà mai lo scandalo del crollo dei 50 mila iscritti in meno all'Università che capeggia oggi su tutti i principali giornali? In fondo circa 1 mesetto fa una cosa simile era stata auspicata dal Ministro Fornero senza che nessuno si risentisse. La signora, in sostanza, aveva detto che sarebbe meglio riscoprire il lavoro manuale invece che perdere tempo a studiare. In fondo, parafrasando una famosa canzone, non sarà mica che oggi anche l'operaio vuole il figlio dottore? 
Studiare non è da tutti, e i giovani italiani, anche senza i consigli della signora, ci sono arrivati da soli. In una società che non offre nessuna speranza di riscatto sociale lo studio diventa un inutile orpello. E viene dunque scoraggiato, con rette in aumento e borse di studio in calo. Poco importa se già siamo tra gli ultimi in Europa sia come iscritti, sia, soprattutto, come laureati. Poco importa che un paese che non produce sapere è un paese in declino. Ancora meno importa che in un paese dove i giovani non possono studiare l'ascensore sociale si è fermato. Appunto, studiare è per i ricchi. Gli altri a sgobbare.
Questo è il paese che sognava la Fornero, ma è anche il paese che ci ha lasciato in eredità la Seconda Repubblica. Quella della riforma Gelmini, ovvio. Ma non solo. Perché quel PD che oggi autorevolmente si candida a guidare il Paese ha governato per la metà della degli ultimi 19 anni e non può certo accampare scuse, perchè questo disastro chiama in causa tutti i governi. E dovrebbe essere al centro della campagna elettorale, ed invece è totalmente assente. E sarebbe strano il contrario. In fondo, questo mondo infame non l'ha certo fatto solo Berlusconi da solo. La sinistra, o quella che una volta si chiamava così, ha mollato gli operai con salari da fame, mentre i padroni ingrassavano. Ha mollato i nuovi lavoratori trasformandoli in precari in nome delle richieste del capitale. Ha abbassato le tasse per i più ricchi, mentre tagliava i fondi alla scuola pubblica e finanziava quella privata. E si sorprende degli studenti in piazza, arrabbiati, a volte pure col volto coperto. Quelle manifestazioni non sono più quelle dei figli della media borghesia annoiati. Sono solo l'altra faccia di questo disastro, di questo abbandono della scuola che vuol dire solo rinuncia al futuro. Sono l'Italia che va a fondo.

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Caso Aldrovandi: Polizia di stato o Stato di polizia

La notizia non è ancora ufficiale ma si tratta di una possibilità più che concreta. I poliziotti che hanno ucciso a botte Federico Aldrovandi, condannati in via definitiva (per omicidio colposo...) ed infine tradotti in carcere (pur se per appena 6 mesi), potrebbero tornare a servire in polizia, a indossare la divisa e, sai mai, a pestare a morte altri ragazzi.
Non sono fantasie, ma ipotesi concrete confermate dalla madre di Federico in una intervista a radio24. Non conosco le regole della polizia, ma che un assassino, condannato per un atto commesso in servizio, non venga espulso con disonore (in uno Stato democratico la polizia si sarebbe fatta parte civile e avrebbe chiesto i danni agli agenti che ne infangano il nome) sembra veramente fantascienza. Vero, si tratta della polizia di Genova, dei picchiatori fascisti che si accaniscono su innocenti manifestanti, che picchiano ragazzi alle spalle, e sparano fumogeni contro i ministeri. Con una differenza, che grazie ad un tribunale della Repubblica, dopo anni di attesa, questi 3 eroi in uniforme sono stati condannati. 
Ma non evidentemente dalla polizia, o almeno c'è questa possibilità. E che semplicemente esista questa chance è una vergogna infinita, un potenziale supporto morale dello Stato per degli assassini.
In fabbrica si può essere licenziati per avere la tessera della FIOM. In polizia il posto è così fisso che anche ammazzare a bastonate un ragazzo non è un motivo buono per essere cacciati...

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La banca a vapore
Di Simone Rossi 

Si dice la Storia sia maestra, che insegni a non ripetere i medesimi errori; niente di più vero, se non che un maestro può poco nel momento in cui l'allievo non si applica, per pigrizia, per opportunismo o perché in male fede. La situazione attuale di crisi economica e sociale ha paralleli con altre situazioni nel passato europeo, una classe dirigente interessata al bene comune eviterebbe gli errori commessi a suo tempo, ma non lo fa. La crisi in corso ha origine nel settore bancario, progressivamente deregolamentato a partire dagli anni '80 del secolo scorso ed alimentato dal crescente ricorso al credito da parte dei cittadini per far fronte alla caduta del reale potere d'acquisto delle famiglie; dal 2008 ad oggi i governi e le istituzioni europee hanno gettato miliardi di euro nel pozzo senza fondo delle banche, sotto forma di acquisizioni, di prestiti agevolati e fondi cosiddetti salva-Stati, il cui reale obiettivo è sollevare le banche dai rischi presi speculando sul debito pubblico dei paesi più deboli. Tolte le promesse e le lacrime di coccodrillo nei summit intergovernativi, poco o nulla è stato fatto per porre il settore finanziario sotto controllo pubblico e per impedire la speculazione. L'inerzia e l'ignavia dei governi (ma anche dei partiti progressisti all'opposizione un po' ovunque) stanno gettando i presupposti per una crisi peggiore.

Nel mese di gennaio il canale pubblico BBC2 ha trasmesso un documentario a puntate sulla storia delle ferrovie britanniche, a cura di Dan Snow; oltre ad affrontare l'aspetto dell'evoluzione tecnologica, il programma offre una panoramica sul contesto sociale ed economico in cui l'epopea ferroviaria si sviluppò. L'invenzione e l'applicazione della locomotiva nei primi decenni del XIX secolo risposero alla necessità di rifornire le industrie dell'Inghilterra settentrionale di materia prima, principalmente carbone, e di ampliare il mercato per i beni finiti; a seguito del successo delle prime linee, in particolare di quella tra Manchester e Liverpool, le ferrovie divennero un investimento ad alto profitto su cui si innesco un fenomeno speculativo che drenò ingenti capitali tanto da parte di grandi investitori, quanto delle piccola e media borghesia, attratta dai buoni dividendi delle azioni. Dalla seconda metà degli anni '30 del XIX secolo decine di compagnie entrarono in competizione per aggiudicarsi l'autorizzazione governativa a realizzare nuove linee, ricorrendo anche alla corruzione dei deputati e dei funzionari pubblici per battere la concorrenza. Per convenienza e per ideologia, il governo centrale preferì non intervenire per regolamentare il settore, limitandosi a definire standard minimi e ad approvare i progetti avanzati dai privati senza una visione programmatica. La bolla spMeculativa scoppiò nel 1847, lasciando sul lastrico migliaia di persone con il consueto corollario di suicidi, tuttavia i governi che si succedettero mantennero il proprio atteggiamento lassista, confidando nella capacità auto-regolatoria delle compagnie ferroviarie, anche in materia di sicurezza. Solo il disastro ferroviario di Armagh, Irlanda del Nord, che causò ottanta morti e duecentosessanta feriti, in gran parte bambini, spinse il parlamento a legiferare in materia di sicurezza, senza invece intervenire nella pianificazione e nella regolamentazione delle compagnie.

Queste vicende, come altre avvenute nel corso della storia del capitalismo, sono sintomatiche di come l'idea per cui i capitalisti sono in grado di regolamentarsi e di produrre benessere per la collettività sia illusoria quando non truffaldina; la forza distruttrice, eversiva della ricerca del massimo profitto a qualunque costo deve, invece, essere domata e vinta dalla collettività. I partiti conservatori e liberali non invertiranno la tendenza, essendo i promotori del capitalismo selvaggio, non lo faranno i moderati che si definiscono socialisti o socialdemocratici, che così facendo smentirebbero sé stessi. Prima che questo treno impazzito si schianti, il freno dobbiamo tirarlo noi, lavoratori, disoccupati, pensionati, studenti; quanto prima ne prenderemo coscienza, tanto meglio per tutti.


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mercoledì 30 gennaio 2013

Lo spread e l'ennesima buffonata di Monti

Va bene la campagna elettorale, ma c'è un limite a tutto. Monti, lo ricordiamo, è andato al governo sulla base di favole costruite ad arte da giornali e commentatori, del tipo che la sua presenza al posto di Berlusconi avrebbe tagliato lo spread di 200 punti. Infatti, poco dopo la sua nomina, lo spread toccò il massimo storico, e scese solo dopo l'intervento di Draghi, cosa che in Europa sanno tutti ma solo in Italia si continua a mistificare come successo del governo.
Ora si ricomincia. Intervistato in Rai, Monti ha sostenuto che la presenza di Vendola al governo avrebbe rischi sullo spread. Vale a dire: Berlusconi non si può votare, il centrosinistra nemmeno, gli italiani devono scegliere la lista Monti per governare, altrimenti i mercati ci puniranno.
Una concezione della democrazia bislacca, in linea con quella del governo tecnico imposto al Parlamento e agli italiani che mai l'avevano votato. Monti mente sapendo di mentire quando dice che esiste un'ipoteca del mercato su queste elezioni. Lo abbiamo visto a più riprese, oramai anche FT e Goldman Sachs hanno ripudiato l'austerity e il vero problema per l'Italia sarebbe un nuovo governo con Monti in qualche posizione importante. Le sue scelte economiche hanno fatto dell'Italia lo zimbello d'Europa, la disoccupazione è alle stelle e l'economia in recessione. Non è certo Vendola che dobbiamo temere, ma Monti.
Detto questo, questa manfrina appare davvero patetica, dato che i due sembrano pure destinati a governare insieme. Dove non potè Dio, potè Bersani. Che vincerà le elezioni, ma ha detto in tutte le salse di voler Monti con sé. E avendo già tirato su Vendola per coprirsi a sinistra, si dovrà far buon viso a cattiva sorte. Bella prospettiva che due che hanno litigato ferocemente durante la campagna elettorale si ritrovino allo stesso tavolo. Alla faccia della coerenza, e della credibilità della politica. 

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martedì 29 gennaio 2013

Anche Goldman Sachs contro l'austerity inglese

Dopo la breve ripresa estiva spinta dalle Olimpiadi e da qualche artificio contabile, l'economia inglese è di nuovo in calo, tornado al suo trend solito da quando i Conservatori sono andati al potere. Cameron e Osborne si sono intestarditi in una austerity assurda (a maggior ragione con i tassi bassi che consente l'indipendenza monetaria) che contraddice qualsiasi logica. Un tal furore ideologico da far dubitare addirittura i banchieri di Goldman Sachs, il cui chairman, Jim O'Neal, ha preso parola per criticare i programmi di austerity del governo. Seguendo una logica molto semplice, cioè che se le cose non funzionano, allora sarebbe il caso di provare qualche alternativa.
Common sense, si direbbe a Londra. Ma common sense che sembra mancare al governo di coalizione. Che ora però ha perso anche la sua ultima scusa. Osborne e soci avevano giustificato il ricorso all'austerity come obbligato per non perdere la fiducia dei mercati. Ora i re del mercato, Goldman Sachs, appunto, annunciano di aver perso fiducia non nell'economia inglese, ma nel suo governo e nel suo piano di tagli. Non sarebbe il caso di voltar pagina?
Qui sotto proponiamo l'articolo del Guardian che racconta la storia in questione.



George Osborne's austerity plan 'risks lost decade' for UK economy

Top Goldman Sachs banker Jim O'Neill joins growing criticism of chancellor's pursuit of deficit reduction in face of stagnation

di Conal Urquhart
da Guardian


George Osborne should recognise that his deficit-reduction programme is failing and change economic policy to avoid a triple-dip recession, a senior investment banker has warned.
Jim O'Neill, the chairman of Goldman Sachs Asset Management, said the chancellor's continued pursuit of austerity despite signs that the economy was stagnating, including worse-than-expected GDP figures, risked a lost decade for the British economy with low growth and increasing public debt.
Figures unveiled on Friday showed that the British economy shrank in the last quarter of 2012. If the economy shrinks again in the first quarter of 2012, Britain will be in recession for the third time since the economic crash of 2008.
The government insists that its policy of cutting expenditure is the only course available but critics insist that the absence of growth was increasing the deficit rather than cutting it.
O'Neill told the BBC: "Based on my business experience, if what you thought was not delivering what you expect to be the outcome surely you have to change what you thought a little. At a minimum, a repositioning of the stance, if not a full change."
The banker's comments echo criticism of Osborne from within his own party. Boris Johnson, the mayor of London, said government spending could trigger a virtuous cycle of spending by business, which would activate cash held by companies and create economic growth.
Ed Balls, the shadow chancellor, accused Osborne of being "asleep at the wheel" and said now was the time for a "plan B" to promote growth through cuts to VAT and spending on infrastructure.
"The longer David Cameron and George Osborne cling on to their failing plan the more long-term damage will be done. They must finally listen and act to kick start this economy," he said.
But Osborne, speaking at the annual World Economic Forum in the Swiss ski resort of Davos, remained defiant. "We can either run away from those problems or we can confront them and I am determined to confront them so that we can go on creating jobs for the people of this country," he told Sky News. "I am absolutely clear that we have got the right plan but of course it is not a plan that was ever going to deliver results overnight. We said from the start it was a long road, it was a hard road, but it was the only road."

fonte: http://www.guardian.co.uk/politics/2013/jan/26/goldman-sachs-criticism-george-osborne-austerity

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Il senso del PD per il lavoro

Questa gaffe (?) della Finocchiaro dice tutto o quasi sulla signora e sulla sua storia. In Parlamento dal 1987, quando c'era l'URSS, Reagan era presidente e Platini giocava ancora nella Juventus, la signora deve esser diventata tutt'uno col Palazzo e con la sua poltrona. Tant'è che anche quando corse per la regione Sicilia, e perse malamente, pensò bene di fregarsene degli elettori siciliani che l'avevano votata e tornare a Roma. In fondo, lei è una parlamentare della Repubblica, mica una bidella!



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domenica 27 gennaio 2013

A che servono le tasse

di Nicola Melloni

da Liberazione


Ecco quello che una sinistra seria dovrebbe (e potrebbe) fare

Come sempre in Italia durante la campagna elettorale le tasse sono argomento tabù, buono solo per un po’ di propaganda e mai per una discussione seria. Il dibattito politico è concentrato da una parte sull’annoso problema dell’evasione e, dall’altro, sulle tasse troppo alte. La pressione fiscale italiana è sicuramente superiore alla media europea, ma sostanzialmente in linea con molti dei grandi paesi dell’Europa Occidentale (mentre l’Europa orientale abbassa la media della Ue sostanzialmente), inferiore a quella francese e di poco superiore a quella tedesca.
Quello invece che andrebbe discusso è la funzione sociale ed economica delle tasse e dunque su come modulare la fiscalità. Le tasse non sono (o almeno non dovrebbero essere) semplicemente un tributo per mantenere i costi dello Stato, ma una importante leva economica, se utilizzata correttamente. Ad iniziare, nella gestione macroeconomica, da un sistema di incentivi tali da spostare la ricchezza verso gli utilizzi più produttivi a scapito di quelli che lo sono meno. Dal punto di vista sociale e politico, senza dover tornare fino a Keynes, Hobson, le tasse sono una componente fondamentale per alleviare le diseguaglianze eccessive, tali da compromettere sia il corretto funzionamento del sistema economico (sia per l’accumulazione di ricchezza improduttiva, sia, al contrario, per un "mismatch" tra attività produttive e possibilità di consumo), sia quello della nostra democrazia, che rischia di trasformarsi in oligarchia.
Vediamo nel dettaglio.
Per quanto riguarda il livello di tassazione sulle imprese, l’Italia si colloca decisamente al di sopra della media europea – che contrariamente a quello che si pensa comunemente è circa la metà (come media calcolata tra i vari paesi Ue: 22.5%) di quella americana (40%). Anche se spesso non è tutto oro quello che luccica – gli Stati Uniti avrebbero appunto il livello nominale di tassazione delle corporazioni più alto del mondo, peccato che la tassazione effettiva (grazie alle esenzione e al ricorso sistematico a vari paradisi fiscali) sia circa la metà. In ogni caso, la nostra "corporate tax" ufficiale (31%) è inferiore a quella dei paesi nordici e pure a quella francese, spagnola ed inglese, ma decisamente superiore, ad esempio, a quella tedesca, soprattutto quando prendiamo in considerazione le tasse implicite sul capitale (36% vs 24%). Il tutto mentre la tassazione sulle rendite finanziarie, pure innalzate al 20%, rimane una delle più favorevoli in Europa (in Germania è sopra al 30%), creando così, de facto, una contrapposizione tra capitale industriale e finanziario.
Ben diversa è la situazione per quanto riguarda la tassazione sul lavoro. In questo caso il nostro paese registra la pressione fiscale più alta d’Europa, al 44% (Germania 39, Francia 41, media UE 34). In realtà questo record negativo è frutto soprattutto dell’evasione fiscale che, colpendo fortemente la entrate dal lavoro autonomo, ha portato a maggiorazioni del prelievo sul lavoro dipendente per compensare, almeno in parte, il buco creato dall’infedeltà fiscale. Con degli effetti, neanche tanto collaterali, disastrosi: una pressione inusitata sui redditi da lavoro dipendente con conseguente repressione dei consumi, costi eccessivi per il datore di lavoro, ed un livello scandaloso di economia sommersa. Appare dunque del tutto evidente come gli incentivi economici creati dalla tassazione siano ben poco funzionali al rilancio del paese.
L’altro aspetto essenziale del problema, cioè quello legato alla funzione sociale della tassazione, è la progressività delle imposte. L’Irpef è l’imposta che tassa il reddito, introdotta una quarantina di anni fa con una modalità, allora, fortemente progressiva, come per altro da dettato costituzionale. Ma cambiata poi nel tempo seguendo il dettato ideologico del neo-liberismo che proprio sul terreno fiscale ha radicalizzato lo scontro coi keynesiani a partire dalla famigerata “reaganomics” che nasceva proprio su teorie fantasiose e ideologizzate come la curva di Laffer, secondo cui un livello di tassazione inferiore avrebbe aumentato le entrate fiscali grazie allo stimolo esercitato sull’economia reale. E dunque tasse più basse per i ceti più abbienti.
Il nuovo mainstream fiscale ha portato ad una rimodulazione delle aliquote Irpef, prima riducendo drasticamente il numero di scaglioni e poi con un deciso innalzamento dell’aliquota più bassa (dal 10 al 18%) ed un ancor più marcato decremento delle aliquote maggiori (dal 72 al poco meno del 45%). Il colpo definitivo è venuto addirittura proprio col governo Prodi, quello che doveva essere il primo governo di sinistra della storia italiana. La rimodulazione allora impostata, fortemente regressiva rispetto al modello precedente, trovava una sua giustificazione guardando ai sistemi fiscali nord-Europei (dove comunque le tasse per l’aliquota più alta superano abbondantemente il 50%). Con un importante caveat, volutamente ignorato. E cioè che quelle società sono caratterizzate da un sistema economico assai diverso dal nostro, in cui la dialettica capitale-lavoro è mitigata dalla concertazione sindacati-imprese che riduce le diseguaglianze salariali già prima della tassazione.
Il combinato tassazione solo marginalmente progressiva-evasione ha contribuito a determinare la scandalosa situazione odierna, in cui il 10% della popolazione detiene quasi il 50% della ricchezza privata. Ed entra allora qui in gioco un’altra peculiarità dell’economia italiana, ovvero l’incredibilmente alto livello di patrimonializzazione della ricchezza che porta a dati altrimenti inspiegabili, come un livello di ricchezza privata assoluta e un rapporto ricchezza privata/Pil più alto in Italia che nella florida Germania. Dati che vengono spesso sventolati come un punto di forza dell’economia italiana ma che andrebbero rivisti in chiave critica come segno del malessere del sistema produttivo – la ricchezza italiana rientra solo marginalmente nel circolo economico in quanto la patrimonializzazione (soprattutto sui beni immobili, raddoppiata in 15 anni e che rappresenta il 60% della ricchezza netta) viene preferita all’investimento produttivo (e dunque, per altro, tassabile sul reddito generato). Non è certo una sorpresa che tale fenomeno avvenga in una economia industriale basata soprattutto sulla piccola e piccolissima impresa che fatica a decollare anche per le scelte imprenditoriali dei padroni che contribuiscono con la propria ricchezza a solo il 12% al bilancio aziendale (contro il 30% della Francia ed il 34% della Germania).
In una tale situazione dovrebbe dunque essere lapalissiano un ricorso ad una tassa patrimoniale fortemente progressiva, accompagnata da una rimodulazione del carico fiscale che allenti la presa sui fattori produttivi a favore di tasse maggiori sui redditi più alti. Un aumento della tassazione ha effetti recessivi soprattutto quando colpisce i redditi più bassi, in quanto riducendo il reddito disponibile riduce il consumo. Ma ha effetti assai meno dirompenti (e minori di quelli dei tagli fiscali richiesti dall’austerity) quando colpisce i redditi più alti, i cui consumi rimangono sostanzialmente invariati. A questa va aggiunta una tassazione sulla ricchezza che vada oltre il modesto contributo dell’Imu. Lì, ormai è chiaro, si concentra la ricchezza italiana e dunque, naturalmente, lì andrebbe ricercata, nuovamente con effetti recessivi piuttosto modesti qualora andasse ad intaccare, anche pesantemente, i patrimoni più alti. Così da rimodulare il sistema di incentivi che al momento favorisce l’accumulazione improduttiva (tassata troppo poco) rispetto all’investimento produttivo (tassato troppo). In questa maniera si potrebbe da una parte ridurre le diseguaglianze sociali e dall’altra detassare gli investimenti in capitale e lavoro. Così da riconciliare il giusto stimolo economico con una maggiore eguaglianza.


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venerdì 25 gennaio 2013

Il pasticciaccio brutto di Mps

di Nicola Melloni

da Liberazione

Ma non raccontavano che il sistema bancario itliano era sano?

L’affaire Mps, al di là delle strumentalizzazioni politiche, ci ricorda che la crisi finanziaria non è ancora finita e, soprattutto, che le radici di quella crisi sono state tutt’altro che estirpate. A questo si aggiungono le classiche peculiarità del nostro sistema produttivo in cui un rapporto molto meno che limpido tra economia e politica rende tutto più complicato. Non è un caso che si assista in queste ore ad un fuoco incrociato sul Pd, additato più o meno giustamente come il referente politico del Monte dei Paschi.
Giochi politici che segnalano però un problema reale della nostra economia. Non a caso Monti ha immediatamente richiesto a gran voce una governance di tipo diverso nel nostro sistema finanziario e ha attaccato duramente il ruolo svolto dalle fondazioni che, dopo le privatizzazioni, ha mantenuto sostanzialmente intatto il controllo politico su molte grandi banche, a cominciare appunto da Mps. Il tutto viene aggravato dai soliti pasticci italiani, col rischio di aprire un serio conflitto istituzionale tra Tesoro e Banca d’Italia, con la seconda responsabile per il controllo bancario e il primo che dovrebbe supervisionare le fondazioni che ora si scambiano accuse incrociate su chi avrebbe dovuto vigilare sul caso Monte dei Paschi.
Sarebbe però fuorviante credere che sia la politica la protagonista assoluta di questo ennesimo scandalo. La politica ha delle grosse responsabilità, non ci sono dubbi, ma i problemi di Mps vanno ricercati nella struttura del sistema finanziario. Lo scandalo attuale, infatti, non è altro che il frutto avvelenato di quella logica speculativa che ha messo a terra tante banche americane ed inglesi (e non solo) nel 2007-08 e da cui, ci avevano raccontato, il nostro sistema finanziario sarebbe stato immune.
E’ ora evidente che non è questo il caso. Nel grande risiko bancario europeo che aveva preceduto di pochi mesi lo scoppio della bolla finanziaria, Mps, insieme ad altre banche ed entità finanziarie italiane, era stata protagonista. Un processo di fusioni ed acquisizioni che non aveva nessuna logica industriale se non quella di concentrare il capitale ed accumulare munizioni nella guerra per il predominio finanziario. Un processo in cui molte banche hanno fatto il passo più lungo della gamba, indebitandosi enormemente e rimanendo così inermi sul mercato una volta che la bolla scoppiò.
Nel caso di Mps la cosa fu anche peggiore, in quanto l’acquisto di Abm Amro fu fatto a prezzi scandalosamente gonfiati, il 50% della valutazione data dal mercato solo pochi mesi prima. Da quell’errore iniziale ne sono poi discesi altri, a cascata. Incluso un quantomeno disinvolto ricorso ai famigerati derivati con buchi spaventosi che si aprivano nelle finanze del Monte, poi coperti con altre operazioni finanziarie che nascondevano le passività presenti per ritrovarsele poi, moltiplicate, nel medio periodo. Aggiungiamoci una gestione di tutto l’affare che, se confermata, sarebbe criminale (Consiglio d’Amministrazione, Banca d’Italia e revisori dei conti tenuti all’oscuro dei vari artifizi finanziari) ed ecco che ci ritroviamo davanti a uno scandalo di proporzioni enormi.
Ma, come dicevamo, non certo un caso unico e non certo un caso prettamente italiano. Di operazioni spericolate, di acquisizioni rischiose, di ricorso massiccio ai derivati è piena la storia di questi ultimi anni. Il problema semmai, lo sappiamo, è nella struttura di incentivi che danno mercato e regole esistenti. Regole non cambiate, lo vediamo bene ora, con Mps che attraverso il ricorso ai Monti Bond verrà salvata dallo Stato, confermando il ruolo predominante delle banche, tuttora "too big to fail" anche a cinque anni dallo scoppio della crisi dei subprime.
In tutto questo non vogliamo certo sottovalutare le colpe della politica. Ma le colpe non vanno cercate sulle singole azioni e nemmeno, più di tanto, sul mancato controllo. Il punto è invece la funzione di indirizzo che manca completamente, con una politica che non deve certo gestire le banche ma dovrebbe essere in grado di selezionare un percorso virtuoso, incentivando un modello di sviluppo bancario ben diverso da quello attuale, slegato dalla speculazione e dalla creazione di denaro attraverso il "leverage", e più legato al territorio e alle attività produttive. Al contrario la politica è rimasta succube del mercato, assecondando un ricorso sistematico al debito, affascinata dalle bolle di sapone della finanza anglosassone. Il centro della questione non è dunque troppa politica che inquina il mercato, ma troppa poca buona politica a controllare un mercato inefficiente.


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Sviste ed illusioni nella strategia di SEL
Di Simone Rossi 

Come si suol dire comunemente, l'importanza delle cose si vede nei piccoli gesti. In tal senso ho trovato istruttivi gli interventi di introduzione ad un'iniziativa elettorale organizzata dalla sezione londinese del partito Sinistra Ecologia Libertà (SEL), a loro modo più significativi delle narrazioni del leader del partito o delle frasi fatte cui ricorrono alcuni candidati a corto di idee e di capacità di analisi.

Sabato 19 gennaio ho assistito in parte alla presentazione di due dei candidati di SEL alle elezioni legislative per la circoscrizione europea. Più dei proclami e dei propositi per un'Unione Europea sociale, maggiormente attenta ai bisogni dei cittadini, mi ha colpito la prospettiva adottata dagli intervenuti nella descrizione della società. Il moderatore, il collaboratore de il Manifesto Paolo Gerbaudo, ha introdotto l'iniziativa con una panoramica sulla situazione dei giovani in Italia e sull'emigrazione, i cui flussi hanno assunto carattere massiccio negli ultimi anni di pari passo con l'incremento della disoccupazione giovanile. Ricorrendo alla abusata definizione di "meglio gioventù", Gerbaudo ha descritto i nostri connazionali all'estero come possessori di un'elevata scolarità ed espressione della classe media, senza produrre alcun effetto di stupore o dissenso tra i presenti, in primis i candidati ed il coordinatore uscente della sezione locale. Piuttosto, la medesima definizione è stata ripresa nell'intervento successivo, improntato sulla narrazione, per dirla alla maniera di Vendola, che vede delle nostre comunità emigrate solamente un'aspetto. D'altronde, abbandonata l'ideologia marxista leninista in favore di una fumosa identità di sinistra, nel cui pantheon trovano agevolmente spazio Gandhi, Steve Jobs e, perché no, Bono Vox, è facile scivolare in errori nell'analisi della realtà che ci circonda. Si perde quindi di vista l'entità e la natura complessiva dell'emigrazione italiana, in cui vi è sicuramente una componente di forza lavoro ad alta scolarità impiegata in ambito accademico e nelle professioni liberali ma in cui sono presenti sacche di povertà e di marginalità cui manca frequentemente una rappresentanza politica e sindacale. Conseguentemente, il partito non è in grado di proporre soluzioni alle problematiche delle fasce meno avvantaggiate; perché non le vede.

L'episodio di cui sopra, per quanto particolare, è sintomatico e rappresentativo di quale connotazione abbia SEL, come evidenziato in un articolo apparso su il Corriere della Sera il 23 gennaio. Il partito si propone di essere una forza di Sinistra post ideologica, in cui convergono varie tendenze politiche, senza una chiara identità; il che non può comportare che un'incapacità di proporre un progetto di società alternativo a quello perseguito da PD, dal PdL e dal Centro, limitando la proposta politica ad una serie di correttivi al sistema vigente. Una scelta, questa, che non può che essere perdente alla luce dei vigenti rapporti di forza tra classi sociali, in cui partiti ed organizzazioni come SEL non hanno alcuna massa critica né capacita di mobilitazione dei lavoratori da utilizzare come deterrente per muovere la propria controparte a miti consigli. Nonostante la velleità della dirigenza e la buona fede di molti iscritti, militanti ed elettori, è difficile pensare che il loro partito possa ottenere miglior successo nel frenare la cosa al Centro del PD di quanto non ne abbiano avuto le più forti sinistre interne a PCI, PDS e DS negli scorsi decenni. Un errore di valutazione al limite dell'ingenuità che potrebbe costare caro agli italiani se dopo le elezioni in Parlamento non entrerà una forza di alternativa, come Rivoluzione Civile si ripone di essere.


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giovedì 24 gennaio 2013

MPS, tra finanza e politica

Per valutare il caso MPS si possono usare diverse chiavi di lettura. Da una parte è l'ennesimo scandalo che colpisce la finanzia internazionale che non sembra certo esser migliorata particolarmente negli ultimi 5 anni. D'altronde nessuna vera riforma del settore è stata fatta, nè in Italia, né altrove. E l'ultima nomina di Obama per il posto di Segretario al Tesoro non va certo nella giusta direzione - Lew è da sempre un sostenitore della deregulation. E come abbiamo visto da non molto, il rischio sistemico legato alla concentrazione nel sistema finanziario non è diminuito ma bensì aumentato. E MPS né è l'ennesimo esempio, col ricorso ora ai Monti Bond per salvare la banca senese quando qualsiasi altra impresa non finanziaria sarebbe tranquillamente fallita.
In tutto questo però si aggiunge il penoso stato del sistema economico italiano, di cui MPS è solo l'ennesimo esempio. Come noto ormai da anni, dopo le privatizzazioni, le banche italiane sono rimaste saldamente legate al mondo della politica attraverso il ricorso alle fondazioni. Quella del MPS, in particolare, era la fondazione più forte, controllando a tutti gli effetti la banca. I sostenitori del libero mercato avrebbero, ovviamente, molto da ridire su una situazione del genere, con la politicizzazione dell'economia che porta guasti ed inefficienza. Il problema però è più complesso. Una guida politica, soprattutto di questi tempi in cui il mercato ha dimostrato tutti i suoi limiti non può essere vista, a prescindere, come un problema. Ma quello che è successo in Italia non è la guida politica, quanto piuttosto una commistione tra poteri privati e pubblici senza una vero e proprio disegno strategico. Piuttosto un risiko di potere, in cui per altro il PD e la cosiddetta sinistra italiana è entrata a piedi pari. Difficile non ricordare il caso Unipol, con gli allora DS accodati ai vari furbetti del quartierino, Fiorani e Ricucci per il controllo di BNL. Non a caso l'odierna vicenda MPS nasce proprio in quei giorni, quando la banca senese comprò ad un prezzo ampiamente superiore a quello di mercato (il 50% di più di quello che era stata appena valutata) ABN Amro. Ed è con tale operazione, fatta proprio poco prima dello scoppio della bolla, che MPS distrusse la sua posizione patrimoniale, portando con sé la Fondazione (e cioè i soldi della città di Siena), ora in bancarotta. Il tutto accompagnato poi da operazioni finanziarie balorde - CDO, ristrutturazioni del debito a là greca, etc etc - quando non proprio violazioni penali (CdA, Banca d'Italia, revisori dei conti, tutti tenuti all'oscuro).
Ora questo macello in una banca di controllo (e proprietà) politica (senza dimenticare tutte le Coop che siedono in MPS) non può non chiamare in causa proprio il PD. Non necessariamente con la sua attuale dirigenza (anche se Bersani fu uno dei più strenui difensori di Fazio), ma quantomeno nella sua conduzione delle attività economico-finanziarie. Una lotta per il potere che va ben al di là della politica dei partiti, giocata in ambienti oscuri e con obiettivi meno che chiari. E soprattutto combattuta con mezzi non sempre leciti. Davanti a tutto questo un pò di chiarezza sulle politiche che propone il PD sul riassetto del sistema finanziario e sul ruolo, trasparente, che la politica dovrebbe giocare, sono davvero d'obbligo.

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Gli aggiornamenti delle rubriche di RI

The City of London
Alesina e Giavazzi, custodi delle verità di comodo: Impareggiabile la premiata ditta del Corsera, Alesina&Giavazzi, i custodi della verità di comodo. La loro ultima uscita è ai limiti del ridicolo, degna del Bagaglino. Spettacolo per altro cui ci hanno ormai abituato: prima sostenendo che il liberismo è di sinistra (si, quel liberismo che ha aumentato ovunque le diseguaglianze e ha bloccato la mobilità sociale in UK e USA: esattamente quello che ci si aspetta dalla sinistra). [continua la lettura]


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Scene di lotta di classe in Slovenia

Continuiamo a raccontare la crisi che i grandi mezzi di informazione convenientemente ignorano. Dalla Grecia, alla Spagna, all'Inghilterra. Oggi parliamo di un piccolo paese a fianco della nostra Italia, la Slovenia, fino a pochi anni fa l'alunno prediletto dell'Europa dell'Est, protagonista di un decennio di grande crescita grazie, almeno apparentemente, alle "riforme" che l'avevano trasformato in una moderna economia capitalista. Peccato che la crisi abbia rimesso tutto in discussione. 

La rivolta dei fiori in Slovenia



Non si fermano, nella Slovenia sull’orlo della bancarotta, le proteste degli operai, dei disoccupati e degli studenti partite nel pieno delle elezioni presidenziali che hanno visto l’affermazione del socialdemocratico Pahor contro la corruzione della classe politica e i tagli alla spesa pubblica e sociale imposti dall’Unione Europea al governo di centro-destra guidato dal premier Janez Janša, leader del Partito Democratico Sloveno. Il piccolo Paese centro-orientale è in crisi verticale, con l’11,5% di disoccupazione, un’economia troppo dipendente dalle esportazioni e quindi a picco a causa della crisi, e con un governo che cerca di far cassa imponendo tagli orizzontali a cultura, sanità, istruzione, lavoro e pensioni.
I primi accenni di protesta ci sono stati il 26 novembre a Maribor – seconda città della Slovenia per grandezza e prima per disagio sociale e numero di disoccupati- dove varie migliaia di persone avevano chiesto le dimissioni del sindaco e della giunta comunale, accusati di corruzione e di malgoverno. La protesta, pacifica, degenerò con l’intervento a gamba tesa della polizia che sgomberò con violenza la piazza, tanto che vi furono alcuni feriti e persino arresti. Dopo le cariche contro i manifestanti di Maribor, i collettivi e gruppi sociali attivi in Slovenia hanno invitato a scendere in piazza anche nelle altre città del Paese “contro la corruzione e le politiche di austerità”.
E infatti già Il 30 novembre si sono svolte nel piccolo paese sorto dal collasso della Jugoslavia di Tito le prime grandi manifestazioni contro il Governo cui hanno partecipato secondo gli organizzatori almeno 10 mila persone nella sola capitale Lubiana e altre decine di migliaia in quasi tutte le principali città del Paese: la giornata si concluse con una nottata di violenti scontri davanti ai palazzi del potere partiti a seguito del tentativo da parte di un gruppo di manifestanti di irrompere nel Parlamento, tentativo cui il reparto di polizia antisommossa – il famigerato “Bestie Ninja”- ha risposto utilizzando manganelli, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua ed effettuando più di 30 arresti.
Il 12 dicembre, intanto, i rappresentanti dei lavoratori statali hanno depositato 13.280 firme per avviare l’iter referendario relativo alla legge di bilancio appena approvata dal Parlamento. La domanda è esplicita: «Volete abrogare la legge relativa al bilancio dello Stato 2013-2014 approvata dal Parlamento nella seduta del 6 dicembre 2012?» Per avviare l’iter bastavano 3mila firme. Il presidente della Confederazione sindacale del settore pubblico, Branimir Štrukelj ha affermato che se avessero aspettato un solo giorno in più le firme sarebbero state molte, ma molte di più. Štrukelj ha precisato inoltre che lo sciopero generale del pubblico impiego proclamato per il prossimo 23 gennaio è confermato e si svolgerà soprattutto per protestare contro i paventati licenziamenti. «Ma non ci fermeremo qui – ha precisato il leader sindacale – gli scioperi, dopo il 23 gennaio, si svilupperanno a macchia di leopardo nelle varie regioni slovene»
Tutto sembra intanto tacere nelle piazze , ma la notte del 21 dicembre alcune donne lanciano addosso ai poliziotti in presidio al Parlamento centinaia di garafoni rossi: da allora sulle pagine dei principali quotidiani nazionali – e poi esteri- non si parla che di “rivolta dei fiori”. Il giorno dopo, il 22 dicembre, anniversario del plebiscito con cui si sancì l’indipendenza dalla Jugoslavia socialista, in migliaia sono di nuovo in piazza per manifestare…non come gli anni scorsi la gioia per la “festa d’indipendenza”, ma tutta la loro rabbia “contro il governo democratico, i deputati e le istituzioni” e non poca nostalgia verso “l’era socialista”.
Mauro Manzin, giornalista de “Il Piccolo” inviato in quei giorni a Lubiana, ha raccontato che c’era in piazza “la gente che guadagna 600 euro al mese e non ce la fa più: le famiglie, gli studenti, i lavoratori e i disoccupati che vedono di giorno in giorno peggiorare la propria vita”. Un popolo, spiega, autoconvocato con il tam tam di facebook. “C’erano i reduci della guerra d’indipendenza con le bandiere slovene listate a lutto. C’erano genitori e bambini, coppie di pensionati, femministe arrabbiate che urlavano la loro rabbia in faccia ai poliziotti. C’erano bandiere anarchiche e bandiere dell’ex Unione sovietica. Bustine di partigiano in testa, molti anziani rivendicavano il proprio onore mutilato, a loro dire, da uno Stato infingardo e ladro. C’era un uomo vestito da giraffa che portava in mano un cartello con su scritto:«Le vostre dita sono più lunghe del mio collo». E poi un maiale di cartapesta a raffigurare i deputati. Le vuvuzelas – continua il giornalista- facevano un chiasso infernale, assieme a fischietti e tamburi. Gli operai gridavano: «Restituiteci le nostre fabbriche, vogliamo lavorare». Improvvisamente, dal nulla, sbucò un enorme sanpietrino di plastica gonfiato e la gente se lo passava sulle proprie teste come fosse un pallone. «Noi siamo lo Stato» si gridava. E il rimpianto per la «dittatura del proletariato» si insinuava tra il malessere della gente al tramonto del capitalismo. Gli “arrabbiati” voltavano le spalle alla sede della Nova Ljubljanska Banka. Sull’ingresso dell’istituto di credito era stato attaccato un cartello: «Banchieri siete finiti», recitava. «Gotovi», «gotovi», siete finiti, siete finiti, scandiva la massa che ondeggiava contro le transenne”.
E a due giorni di distanza, il 24 dicembre, in 5000 sono tornati a invadere nonostante il giorno di festa le strade della Capitale.

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mercoledì 23 gennaio 2013

Da un banchiere all'altro

Il nuovo mandato di Obama è iniziato, per molti versi, in una direzione più marcatamente progressista rispetto a 4 anni fa. Prima la vittoria, seppur ancora parziale, sul fiscal cliff. Poi l'attacco alla lobby delle armi. Ma in finanza, che è poi il cuore del problema del capitalismo, Obama sembra ancora reticente, per non dire colpevolmente ripetente. Tim Geithner non è più al Tesoro, ma, se scusate il gioco di parole, non è stato fatto tesoro degli errori nella non-regolamentazione del settore finanziario. Anzi, al posto di Geithener è stato nominato Jacob Lew, già banchiere a City Group (salvato proprio da Geithner 4 anni fa) e con un solido curriculum da investment bannker. Poco stato, molto mercato, molta deregolamentazione. Non proprio una buona novella per l'economia mondiale...
Riportiamo dunque di seguito un articolo di Charles Ferguson dal Guardian che commenta proprio l'ennesimo caso di sliding doors tra governo e banche a Washington



Jack Lew, Tim Geithner: the treasury's new boss, same as the old boss


di Charles Ferguson
dal Guardian

 The long-anticipated departure of Tim Geithner and the appointment of his successor, Jacob Lew, has brought much discussion of Geithner's record, his legacy, and the likely trajectory of the Obama administration treasury department under Lew. In considering this question, I found inspiration in our most profound political philosophers. I refer, of course, to The Who, in the finale of their immortal and highly relevant Won't Get Fooled Again:
"Meet the new boss
Same as the old boss"
Consider first Geithner's legacy, first as president of the New York Federal Reserve, then as treasury secretary. (Actually, his tendencies were evident even earlier, when he was carrying Larry Summers' water during the Asian financial crisis of the late 1990s.) As head of the New York Fed during the bubble, Geithner did – well, not much of anything: no regulation, no warnings, no protests about abuses or excesses, nada, zilch. Geithner was in the audience at Jackson Hole in 2005 when Raghuram Rajan, then the IMF's chief economist, delivered his now-famous warning about systemically dangerous incentives and risk-taking in the financial sector – a warning that Larry Summers slapped down publicly, and about which Geithner never uttered a public word, then or later.
Then came 2008, when, so far as we can determine, Geithner basically did everything that Hank Paulson told him to, and not much else. In fairness, one must concede that Paulson, Ben Bernanke, and Geithner were effective in preventing utter systemic collapse – albeit a collapse caused in large measure by their own earlier actions and inactions. Geithner continued that pattern, and then firmly established it as his legacy, after he took over at treasury.
But what, precisely, is that pattern?
In sum, it was to be intelligently pragmatic, in preventing acute systemic collapse and then returning the financial system, the political system, and the economy to their status quo. So, on the plus side, the Obama administration did not embrace the suicidal austerity path and laissez-faire preached by some, and practiced in some now-devastated European nations.
Banks and financial markets were propped up by the treasury department and by Federal Reserve purchases of over $2tn in securities; the auto industry was saved (or at least General Motors was); and a second Great Depression was avoided. Not to be assumed – and worthy of serious praise.
But what wasn't done, and Geithner never even tried to do, is equally telling.
No purge of the senior managements and boards of directors of the financial sector, not even those, such as Citigroup and Bank of America, which were totally dependent on federal support for their existence (Citigroup was nearly 40% owned by Geithner's department). No curtailment of bonuses, no attempt even to tax them. No breaking up of too-big-to-fail institutions, some of which were and remain so complex that they are, as my colleague Charles Morris has said, too big to succeed. No attempt to curtail the toxic lobbying and revolving-door hiring of those same institutions – once again, including several that would not exist except for federal aid. No attempt to develop an evidentiary record to support criminal prosecution for the massive criminality that accompanied the bubble. No attempt to develop an evidentiary record for asset seizures under Rico, the law routinely used to seize the assets of criminal organizations. No serious attempt to rescue millions of homeowners facing foreclosure, or imprisoned in houses that they will never be able to sell for as much as they owe. No attempt to rein in the deeply entrenched culture and incentives that produce toxic financial "innovations" and increasingly frequent crises. A pattern of hiring truly dreadful people, ranging from Goldman Sachs lobbyists to private equity executives who worked with banks to bet against their own securities.
And so, now we have, indeed, "succeeded" in returning to something roughly like the status quo. What is that status quo?
We have an even more dangerously concentrated, politically even more powerful, still highly corrupt, unproductive financial sector; a clear message sent that even a horrific crisis caused by massive criminality yields no punishment whatsoever; insufficient, weak regulatory laws and institutions; an administration largely managed by people who were, and remain, part of the problem; a massively corrupt political system in which opaque, uncontrolled contributions yielded a $3bn presidential election; and even greater economic inequality than when Obama and Geithner took office.
Tim Geithner, upon returning to private life, will surely be rewarded in the typical ways. Perhaps, he will become a banker. If not, president of a university or thinktank, with consulting arrangements, board memberships, and speechmaking to the financial sector bringing him a living wage of five or ten million a year.
And now we will have Jack Lew. What can we expect of him?
I refer you to The Who's lyrics. For three years before entering the Obama administration, Lew was a Citigroup executive, and for the last year he was the chief operating officer of Citigroup Alternative Investments, which made some money by betting against mortgage securities, but which lost many billions more when the crisis came. That crisis and those losses did not prevent Lew from receiving a handsome bonus, paid after he had been appointed to his first Obama administration job.
But that isn't his main problem. His main problem is that he has already demonstrated that he's willing to be a typical political hack, and to give bankers what they want. In congressional testimony, he actually said, with a straight face, that deregulation had not contributed to the financial crisis.
As The Who have warned us …

fonte: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2013/jan/13/jack-lew-tim-geithner-us-treasury-boss

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martedì 22 gennaio 2013

L'economia reale distrutta da Monti

di Nicola Melloni

da Liberazione

L’Italia è in recessione e ci rimarrà anche il prossimo anno. E la responsabilità maggiore ricade sul governo Monti (e sul suo predecessore Berlusconi). Se queste parole non le avesse dette il governatore della Banca d’Italia Visco, qualcuno avrebbe potuto pensare alla solita “propaganda comunista”. Ed invece….
Iniziamo dai numeri. Per mesi ci avevano raccontato che rimettendo a posto i conti pubblici il Pil sarebbe di nuovo cresciuto già nel 2012, ed invece il calo è stato superiore al 2%. Ci hanno allora detto che nel 2013 si sarebbe invertita la tendenza: ed invece già adesso Bankitalia ci anticipa che anche per quest’anno saremo in recessione. Poi, forse, dal 2014, le cose andranno meglio – ma non c’è tanto da fidarsi, data la costante sovrastima da parte di tutti i centri studi (e qui delle due l’una: o sono totalmente incapaci o mistificano la realtà ad uso politico).
E per quanto riguarda le responsabilità di questo sfacelo? Anche qui continuiamo a seguire il discorso di Visco, d’altronde i numeri, per una volta, non mentono. Monti, Scalfari e i custodi dell’ortodossia monetarista e filo-governativa possono arrampicarsi sugli specchi finché vogliono, ma la realtà è davanti agli occhi di tutti: il maggior responsabile della recessione della nostra economia è il governo da poco dimesso. Certificato, appunto, da Bankitalia che nelle sue tabelle analizza le origini della recessione e spiega che la parte del leone l’hanno fatta le svariate finanziarie di questi anni. Non è certo una sorpresa, per noi almeno. Sono ormai due anni che economisti di sinistra e commentatori di varia origine denunciano l’assurdità delle politiche di austerity. Ultimamente si è aggiunto al coro anche il Fondo Monetario Internazionale che ha rivisto i suoi parametri per le previsioni economiche: anche a Washington si sono finalmente accorti che i tagli di bilancio deprimono il Pil, ben oltre le iniziali previsioni (frutto di un calcolo sbagliato – non è dato sapere se consapevole o meno – del moltiplicatore keynesiano). Ma Monti e suoi non hanno voluto ascoltare nessuna di queste voci, testardi come solo i professori arroganti possono essere. E allora avanti con i tagli, con il bel risultato che la nostra economia sta sprofondando.
Ma, ci continuano a dire media e politici in piena campagna elettorale, questi tagli erano indispensabili per rimettere in sesto i conti pubblici. Peccato che questi siano in realtà peggiorati da quando Monti è al governo: deficit ancora sulla fatidica soglia del 3% del PIL, rapporto debito/Pil in continua ascesa. Non era d’altronde difficile prevederlo: i tagli e le tasse maggiori deprimono l’economia (il denominatore scende) ed allo stesso tempo riducono le entrate fiscali ed aumentano i costi del welfare, tipo cassa integrazione (e dunque il debito-numeratore aumenta). A giustificare i tagli rimane allora solo la favoletta dello spread, calato grazie al salva-Italia. Peccato che proprio all’indomani della finanziaria "lacrime e sangue" di Monti (in aggiunta ai tagli selvaggi di Berlusconi-Tremonti), i tassi di interesse abbiano raggiunto i massimi di questa crisi. Ormai la storia dello spread è stata smascherata e non ha nulla a che fare con l’operato del governo Monti – per maggiori informazioni rivolgersi a Mario Draghi, al suo ufficio della BCE.
Davanti a questi dati drammatici ci si aspetterebbe una lunga discussione e una rimodulazione dei programmi, soprattutto in una campagna elettorale che dovrebbe essere decisa proprio sui temi della crisi. Da una parte Monti e i suoi centristi non possono essere credibili nei loro programmi economici, ancorati come sono alla logica dell’austerity. E sicuramente una credibilità maggiore non può avere Berlusconi che l’austerity l’aveva iniziata già prima di Monti e che ha sostanzialmente sottovalutato gli effetti economici della crisi finanziaria. Ma non è certo molto meglio il programma Bersani che si delinea comunque in continuità con l’agenda Monti, appoggiata "senza se e senza ma" per oltre un anno. Il punto in questione è che, bloccati dai trattati europei, la politica dell’austerity è destinata a continuare. Il fiscal compact prevede una riduzione continuativa del debito in eccesso del 60% del Pil nel giro di 20 anni – circa 50 miliardi solo per il 2013. Con nessuna garanzia, come abbiamo visto, che questi tagli producano l’effetto sperato e abbassino il rapporto debito/Pil, con il rischio aggiuntivo di sanzioni da parte della UE.
Di fronte a tutto questo il Pd e Sel non hanno nulla da dire. Non una denuncia, o almeno una ridiscussione dei trattati europei; non una apertura sulla patrimoniale, l’unico vero strumento per rimettere seriamente a posto i conti pubblici, con effetti assai meno depressivi sui consumi. Una coalizione che si definisce progressista non vuole nemmeno discutere una tassa che colpisce i patrimoni maggiori in un paese dove il 10 per cento della popolazione controlla il 50 per cento della ricchezza. E soprattutto in un paese dove la ricchezza privata è ben cinque volte superiore al nostro debito, e dove dunque si potrebbero trovare soluzioni alternative all’austerity. Solo su queste basi si può battere la destra, che non è certo solo quella di Berlusconi. E’ quella che in Italia, Spagna, Grecia, ma anche nel resto d’Europa, affama il lavoro e non tocca i privilegi dei ricchi, nascondendosi dietro fallimentari ricette economiche.

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Il Mali e il male del colonialismo

Presentiamo di seguito un interessante analisi sul Mali, gli interessi di stampo colonialista francesi, e la guerra che sui giornali viene largamente ignorata ma che è solo l'ennesimo episodio dell'imperialismo occidentale in Europa. Come al solito di mezzo ci sono importanti risorse minerarie ed il loro controllo, tra rinascita africana, avanzata cinese e vecchie abitudini europee. Ed una volta di più le "supposte" differenze politiche ed ideologiche tra destra e sinistra svaniscono immediatamente quando si parla di "interesse nazionale", maniera gentile e politically correct per definire lo sfruttamento di altri popoli e nazioni.

“Il Mali e il Sahel campi di battaglia di una nuova guerra fredda molto calda”

 

di Andrea Genovali
da Marx21

Il Mali, paese di poco più di 14 milioni di persone, alla 178° posizione su 182 nell’indice dello sviluppo umano, posto nella parte nord occidentale del continente africano, confina con l’Algeria, il Niger, il Burkina, la Costa d’Avorio, la Guinea, il Senegal e la Mauritania. Già colonia francese con il nome di Sudan francese, acquistò la sua indipendenza formale, come gran parte dei paesi africani, nel 1960 unito al Senegal in quella che fu la Federazione del Mali. Dopo l’implosione della federazione si proclamò indipendente e dette vita alla repubblica che fino al 1968 fu una repubblica socialista guidata da Keita che venne abbattuto da un colpo di stato militare guidato da Traorè, ancora sulla scena in questi anni, e solo nel 1992 si avviò verso un processo di democratizzazione con il presidente dello stato eletto direttamente dal popolo ogni 5 anni.

Il Mali è un paese del cosiddetto Sahel, dall’arabo “paesi sulla riva del mare” anche se poi in alcune versione si intende per riva anche quella del deserto e per questo alla fine si ricomprendono nel termine i paesi che si affacciano sull’oceano Atlantico del nordafrica fino al Corno d’Africa passando attraverso i paesi centroafricani: Mauritania, Mali, Burkina, Niger, Ciad, Senegal, Sudan e Eritrea. Una fascia di paesi che nel corso di questi anni ha visto una progressiva militarizzazione da parte della potenza ex coloniale (Francia) ma non solo. Vi è stata, ed è ancora in corso, una progressiva presenza militare dell’occidente nella zona a causa delle ingenti ricchezze che insistono nel sottosuolo dei paesi saheliani. E’ noto come il petrolio del golfo di Guinea sia una riserva importante per gli Usa, da cui hanno attinto nel corso degli anni ingenti quantità. Dall’Africa gli Usa soddisfano attualmente il 20% delle loro necessità petrolifere con la previsione di arrivare al 25% nel 2015. L’occidente africano ha riserve petrolifere stimabili in 60.000 milioni di barili, quantità che fanno gola all’assetato occidente.Non a caso è dal lontano 2003 che è iniziata una campagna militare che ha come pretesto il terrorismo islamico (gruppi salafiti) da parte degli Usa in vari paese del Sahel e con la previsione di costruire una base militare navale a Sao Tomè di proporzioni mastodontiche. La presenza salafita è una realtà ma quanto è imputabile alle potenze occidentali la loro crescita? Questo per dire che si è lavorato anche in Europa e negli Usa affinché gli islamisti (il problema) diventassero una realtà la cui unica risposta possibile fosse di tipo militare (la soluzione) e con la militarizzazione del territorio anche l’espropriazione forzosa delle risorse di quei paesi. Una tragica strategia già vista in Palestina e nel Vicino Oriente da parte degli occidentali. Una colonizzazione militare del Sahel che oggi passa anche dal finanziamento della Africom (la macchina di intervento della Nato in Africa nella quale gli eserciti africani svolgono il ruolo di manovalanza, come avveniva al tempo delle colonie), tramite la Banca Africana per lo Sviluppo. In questo contesto larga parte dei paese del Sahel sono guidati da elementi di una borghesia compradora che ha studiato in Europa e svolgono il ruolo di proconsoli della Francia, dell’Europa e degli Usa. Sicuramente, questo malgoverno che svende il futuro dei popoli del Sahel agli stranieri è fonte di forte malessere e disagio fra le popolazioni. In questo malessere profondo, causato dall’occidente e da governi africani corrotti, si inserisce l’islamismo jiadista. Ma questo è un argomento che in pochi vogliono affrontare perchè disvelerebbe le responsabilità dell’Unione Europea e degli Usa nelle tragedie che vivono i popoli africani e non solo. Meglio allora militarizzare senza tante discussioni.Questo in breve e per sommi capi lo scenario nel quale si sta sviluppando la guerra in Mali che però ci è d’aiuto per comprendere come le ragioni siano molto complesse nel loro dispiegarsi anche se semplici nella sostanza: ragioni figlie delle rapaci politiche occidentali che hanno nella depredazione delle risorse energetiche e minerarie le loro ragioni fondamentali.E il Mali è il nuovo capitolo di questa “guerra” per le risorse da parte francese, anche se gli interessi europei e statunitensi non sono estranei al conflitto. Affermiamo questo tenendo sempre ben presente il convitato di pietra che è la Cina che, nel corso di questi anni, ha sviluppato un approccio e una strategia nelle relazioni con i paesi africani che, pur tenendo al centro del proprio agire i legittimi interessi di Pechino, ha saputo sviluppare relazioni che non sono neppure lontanamente paragonabili all’imperialismo occidentale e per questo stanno attraendo nella loro orbita moltissimi paesi del continente nero. E, sicuramente, la battaglia in corso in Africa è anche, e forse soprattutto, rivolta contro la presenza cinese che con il suo approccio maggiormente rispettoso degli interessi dei popoli africani sta alterando a suo favore e in maniera profonda e duratura gli equilibri e le relazioni con i paesi africani, prima ad appannaggio esclusivamente di Europa e Stati Uniti.La presenza francese, ovviamente, per storia e ragioni economiche pesa come un macigno sul Sahel. I francesi, al di là del colore politico dei loro governi, sono intervenuti sempre nei problemi interni di quei paesi che ricadono nella loro cosiddetta “area di influenza”, senza mai tenere di conto il diritto internazionale e i diritti umani delle popolazioni africane. Sono intervenuti direttamente nel conflitto interno in Costa d’Avorio quando il presidente che aveva vinto le elezioni al turno di ballottaggio venne contestato dall’uscente Gbagbo che l’accusò di brogli e rimase al suo posto, salvo poi essere rovesciato qualche mese più tardi con l’aiuto dei francesi. Un presidente fedele a Parigi ma che adesso voleva liberalizzare il mercato del petrolio rompendo la politica colonialistica francese e questo era ovviamente inaccettabile per Parigi; in Ciad hanno salvato l’impresentabile Deby, in Libia rovesciato Gheddafi, anche se in questo caso insieme all’occidente. Ed è proprio sulle conseguenze di quel rovesciamento che nascono molte delle questioni di oggi in Mali. I tuareg, che erano rimasti vicini a Gheddafi fino alla fine, sono fuggiti nel deserto portando con sé armi, veicoli e munizioni e adesso sono la colonna portante dei jiadisti in Mali (anche se sembra che una parte di essi stia prendendo le distanze dagli islamisti).In Mali, però, stiamo assistendo a una procedura di intervento diversa rispetto ad alcuni casi recenti. Infatti, mentre in Libia e in altri stati c’è stato un intervento che non ha visto lo schierarsi degli eserciti straniere sul territorio in Mali si va delineando un’altra dimensione di scontro e molto probabilmente vi sarà una escalation militare che potrà coinvolgere gran parte del continente. Non è astratto parlare di una battaglia internazionale per l’Africa, o meglio per accaparrarsi le risorse africane, specie quelle saheliane.Il Mali è terzo produttore africano di oro e in questi anni sono stati concessi oltre 60 permessi di esplorazione ad aziende straniere del settore aurifero. Ma vi sono anche risorse energetiche non ancora sfruttate adeguatamente e fra di esse spicca l’uranio. Giacimenti di grande rilevanza (uno è stato stimato in circa 5000 tonnellate), che se li stanno contendendo compagnie private canadesi e australiane; quello stesso uranio che la Francia si accaparra in Niger, paese confinante con il Mali. E proprio la vicinanza del Niger con il Mali è uno dei motivi per i quali sta facendo questa guerra al fine di evitare turbolenze in una regione così importante per gli interessi strategici francesi. Ma non solo. Anche la bauxite, di cui è il Mali è il primo esportatore in Africa, fondamentale per l’alluminio, è al centro dell’interesse delle compagnie internazionali occidentali, multinazionali inglesi soprattutto. E ancora: il gas. E’ stato scoperto un gigantesco giacimento a 60 chilometri dalla capitale Bamako che si dice sia di una purezza eccezionale e a soli 107 metri di profondità. Ma anche in Niger, Mauritania, Algeria e altri paesi della zona si stanno scoprendo giacimenti di risorse energetiche di grande interesse che alimentano gli appetiti dei paesi imperialisti.Se questo è lo scenario, e soprattutto, gli interessi che stanno dietro alla guerra in atto vediamo adesso di ricostruire brevemente come si è arrivato allo scontro evidenziando le responsabilità.Il nord del Mali è, in realtà, due terzi del territorio nel quale vi sono risorse energetiche e minerarie preziose, come si è visto poco sopra. Ed oggi esso si sta forse trasformando in un avamposto di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). Negli scorsi mesi le autorità del Mali si rivolsero all’Ecowas (la Comunità economica dei paesi occidentali dell’Africa) chiedendo che fossero africane le truppe militari che dovevano intervenire in una operazione di pacificazione. E questa è una strategia che aveva avuto positive risposte in passato, ad esempio in Sierra Leone. L’Onu dichiarò che questo poteva avvenire solo con il via libera del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il Mali allora lo sollecitò ma il Consiglio di Sicurezza la respinse perché necessitava di più tempo per analizzare la situazione. La verità è che l’Europa, Francia in primis, non voleva che la situazione fosse gestita solo dai paesi africani (troppo importanti, abbiamo già detto, sono ad esempio gli sfruttamenti di gas francesi in Niger che è separato dal Mali da una riga tracciata criminalmente sulla carta geografica dalle potenze coloniali al momento della spartizione del continente) e, infatti, è stato solo dopo che il Mali ha cercato l’aiuto della Commissione Europea, e che il segretario dell’Onu nominasse Romano Prodi suo Inviato speciale per la regione del Sahel, che il Consiglio di Sicurezza Onu ha dato il proprio parere positivo a lavorare per un via libera alla missione di paesi africani come forza di interposizione in Mali. Ma per Parigi era impensabile che fossero solo i paesi africani della missione Onu a risolvere le questioni maliane senza una “cabina di regia” europea (leggi francese).In ogni caso a dicembre il Consiglio di Sicurezza aveva dato altri 45 giorni di tempo per preparare la missione militare in Mali. Ma i francesi, sulla scia dell’esempio statunitense, per difendere i propri interessi economici nell’area hanno deciso di dare il via alle operazioni militari, con il sostegno della Nato, senza nessuna autorizzazione dell’Onu, bombardando le postazioni dei ribelli nel Nord del paese e inviando truppe di terra. Una guerra per riaffermare la propria “sovranità” in quella che venne definita la “Francafrique” e che ha il sostegno del 65% dei cittadini francesi e anche del clero del Mali, che si è schierato con la Francia. Anche se altri settori della chiesa cattolica, anche italiana, si sono apertamente espressi contro la guerra alimentando i dubbi circa le ragioni prettamente legate allo sfruttamento delle risorse energetiche che stanno alla base dell’intervento di stampo neocoloniale dei transalpini. E’ solo dopo l’intervento francese che anche il Consiglio di Sicurezza ha dato il via libera alla missione pacificatrice Onu composta da caschi blu africani; ma ormai l’intervento militare francese ha cambiato qualsiasi prospettiva di una pace che sarebbe stata difficile da realizzare ma che senza l’intervento militare era ancora possibile. Il governo maliano avrebbe potuto gestire la situazione se il contingente militare fosse stato quello che l’Onu aveva dichiarato essere: cioè di soli militari africani; mentre adesso dopo l’entrata in scena dei francesi tutto si è mortalmente complicato e la guerra sta diventando una guerra di guerriglia dove si combatte metro su metro e per la Francia il rischio di un Afghanistan si profila serio e concreto, oltre che di destabilizzazione dell’intera area. E, intanto, sono già oltre i 500.000 i maliani che sono fuggiti dalle loro case.Tutto questo mentre il governo italiano, in piena campagna elettorale e ormai a camere sciolte e legittimato a intervenire solo per motivi di ordinaria amministrazione, non ha esitato a coinvolgere il nostro paese in questa guerra per gli interessi francesi (fra le altre cose l’Eni è uscita dallo scenario maliano), calpestando ancora una volta la nostra carta costituzionale. Un governo che ha avuto il via libera dopo una telefonata intercorsa fra Monti e i segretari politici di Pd, Pdl e centristi cattolici che sostengono il governo e nel silenzio assordante della presidenza della repubblica, sempre molto attiva a intervenire nelle vicende politiche del paese, e che in questa occasione non ha nulla da eccepire. Una scelta questa del governo Monti che getta nuovo sgomento e disonore sulla parte migliore della società italiana che non si arrende alla distruzione dei valori della costituzione nata dalla Resistenza e vuole che sia la diplomazia l’unica vera arma per la risoluzione delle controversie internazionali.
Purtroppo, la ormai celebre frase di Karl von Clausewitz per cui “la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi” ha preso di nuovo piena legittimità in occidente, ad iniziare dalla Prima guerra del Golfo voluta da George W. Bush e iniziata quel maledetto 17 gennaio del 1991 contro l’Iraq di Saddam Hussein, fino ad allora fedele alleato di Washington ma colpevole di aver osato troppo nei confronti del suo vecchio padrone a stelle e strisce invadendo il piccolo, ricchissimo, artificiale e medioevale Kuwait, cassaforte petrolifera degli Usa. Da quel momento il mondo non è stato più come quello che la mia generazione e quelle precedenti la mia avevano conosciuto, costruito con gli accordo della conferenza di pace di Yalta dove i paesi vincitori della Seconda guerra mondiale avevano disegnato un nuovo scenario in grado di assicurare lunghi decenni di pace. Ma questa è la tristissima realtà dei nostri anni.

fonte: http://www.marx21.it/internazionale/africa/21637-il-mali-e-il-sahel-campi-di-battaglia-di-una-nuova-guerra-fredda-molto-calda.html

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lunedì 21 gennaio 2013

Financial Times contro Monti e l'austerity

Proponiamo di seguito un editoriale del FT, il giornale della City londinese, che attacca duramente Mario Monti, il suo governo e la sua pretesa di guidare nuovamente l'Italia. Wolfgang Muchau, l'editorialista del FT, spiega con precisione che il governo Monti si è contraddistinto solo per il suo ricordo indiscriminato all'austerity, senza portare a casa nessun risultato concreto - mentre il calo dello spread è dovuto, come abbiamo ripetuto più volte, a Mario Draghi.
Per Munchau la vera questione è una ridefinizione della politica economica a livello europeo, chiedendo agli stati del Nord, ed in particolare alla Germania, di contribuire al riequilibrio economico. Continuare ad ostinarsi sulla strada dell'austerity rischia di portare presto ad una uscita dell'euro se non ad una vera e propria reazione autoritaria. Un consiglio che forse Bersani dovrebbe ascoltare...

Monti is not the right man to lead Italy

Most Italians know they owe the fall in bond yields to Draghi
The financial crisis has faded in Italy but the economic crisis has been growing. There has hardly been a day without news of the credit crunch worsening, and a fall in employment, consumption, production and business confidence. Once again, a European government has misjudged the predictable impact of austerity. Having shown almost no growth for a decade, the Italian economy is lingering in a long and deep recession.
Like the other countries on the eurozone’s southern rim, Italy faces three options. The first is to stay in the euro and take on alone the burden of full adjustment. By this I mean both economic adjustment, in terms of unit labour costs and inflation; and fiscal adjustment. The second is to stay in the eurozone, contingent on shared adjustment between creditor and debtor nations. The third is to leave the euro. Successive Italian governments have tried a fourth option – stay in the euro, focus on short-term fiscal adjustment only and wait.
Since we know from economic history how such episodes end, option four will ultimately lead us back to options one, two or three. My favourite would have been the second: make euro membership conditional on symmetrical adjustment. But Mario Monti, Italy’s prime minister, did not stand up to Angela Merkel. He did not tell the German chancellor that his country’s continued engagement with the single currency would have to depend on a proper banking union with full resolution and deposit insurance capacity; a eurozone bond; and more expansionist economic policies by Berlin. In his interview with the Financial Times last week, Mariano Rajoy, the Spanish prime minister, demanded symmetrical adjustment – again, rather late, since Germany is already planning an austerity budget for 2014. In view of all political decisions already taken, the option of symmetrical adjustment is slowly receding.
So where does this leave Italy ahead of next month’s elections? As prime minister, Mr Monti promised reform and ended up raising taxes. His government tried to introduce modest structural reforms but they were watered down to macroeconomic insignificance. Having started as a leader of a technical government, he has emerged as a tough, political operator. His narrative has been that he saved Italy from the brink, or rather from Silvio Berlusconi, his predecessor. A fall in bond yields has played into this narrative, but most Italians know they owe this to another Mario – Draghi, president of the European Central Bank.
On the left, Pier Luigi Bersani, general secretary of the Partito Democratico, has supported austerity but has recently been trying to distance himself from those policies. He has also been more hesitant on structural reforms. His main campaign themes are a wealth tax, the fight against tax evasion, money laundering and gay rights. He says he wants Italy to stay in the eurozone. There is a marginal chance he will be more successful in standing up to Ms Merkel because he is in a better position to team up with François Hollande, the French president and a fellow Socialist.
On the right, the alliance of Mr Berlusconi and the Northern League has been behind in the polls but is making advances. So far, the former prime minister has had a good campaign. He has delivered an anti-austerity message that has struck a chord with a disillusioned electorate. He also keeps criticising Germany for its reluctance to accept a eurozone bond and to allow the ECB to buy Italian bonds unconditionally.
You could interpret this as an option-two stance: insist on symmetrical adjustment or get out. We know Mr Berlusconi only too well, however. He was a prime minister for long enough to have shaped such a debate much earlier. To become credible, he must produce a clear strategy that maps out the choices in detail. All we have now are television soundbites.
Judging from the latest opinion polls, the most likely election result is gridlock, perhaps in the form of a Bersani-Monti coalition of the centre-left, possibly with a centre-right majority in the Italian senate, where different voting rules apply. This would leave everyone, more or less, in charge. Nobody would have the power to implement a policy. Everybody would have the right to veto one.
If that were the case, Italy would continue to muddle through, pretending it had opted to remain in the euro but without creating the conditions to make membership sustainable. In the meantime, I would expect an anti-euro political consensus to emerge that would probably either win an outright majority in subsequent elections or trigger a political crisis with ultimately the same effect.
As for Mr Monti, my best guess is that history will accord him a role similar to that played by Heinrich Brüning, Germany’s chancellor from 1930 to 1932. He, too, was part of a prevailing establishment consensus that there was no alternative to austerity.
Italy still has a few choices open. But it has to make them.

fonte: http://www.ft.com/cms/s/0/882bb27a-6166-11e2-957e-00144feab49a.html#axzz2IZ1yfnuN

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domenica 20 gennaio 2013

La Grecia tra economia a pezzi e politica corrotta

No, non ci siamo dimenticati della Grecia, come invece pare aver fatto il resto dei media italiani. Oggi proponiamo un articolo di Megan Green da Bloomberg in cui si racconta lo scandalo della famigerata lista Lagarde, la lista degli evasori greci che vari governi hanno cercato di far sparire. E che, ricomparsa a sorpresa, sta scatenando un terremoto soprattutto nel PASOK (ah, questi socialisti europei!) ma che il parlamento sta cercando di insabbiare. Ancora una volta è Syriza l'unico partito a chiedere una vera e propria commissione d'inchiesta, mentre Sinistra Democratica, pseudo-partito di sinistra entrato nella grande coalizione tradendo le promesse elettorali, ha addirittura espulso 2 suoi parlamentari per aver appoggiato la richiesta di una commissione d'inchiesta. Parigi (o Atene), si sa, val bene una messa.


Thought It Was Safe to Forget Greece? Think Again


di Megan Green
da Bloomberg

Just before Christmas, I met with former Greek Finance Minister George Papaconstantinou, and he talked about how excited he was to spend the holidays abroad, where -- unlike in Greece -- he could roam freely without a security detail. His holiday didn’t go quite as expected.
On Dec. 28, Papaconstantinou was accused of removing names from a list of Greeks with Swiss bank accounts -- the so-called Lagarde list -- and he was expelled from the socialist Pasok party. This week, Greek legislators will debate whether to start a parliamentary investigation against him.
The rest of the world has largely ignored this latest twist of the plot in Greece. Not only does it demonstrate the kind of institutional failure that has landed the country in so much trouble, but it could also mark the beginning of the end for the current coalition government -- and possibly for Greece’s euro- area membership, as well.
The story begins in late 2010, when then French Finance Minister Christine Lagarde distributed a list to her counterparts around Europe with the names of thousands of depositors at the Geneva branch of HSBC Holdings Plc. Most countries investigated the accounts and collected many millions of euros and other currencies in unpaid taxes.
Not so in Greece, a country that international creditors have repeatedly lambasted for its tolerance of rampant tax evasion. While the Lagarde list included about 2,000 Greek depositors, successive Greek governments did not use it to collect a single cent from tax evaders.

No Trust

So what did the government do with the list? That depends on whom you ask. Most Greeks I speak to about this tell me without hesitation that the Lagarde list was used for extortion. There is no proof of this, but it demonstrates clearly the level of trust that Greeks have in their politicians.
Papaconstantinou was the first Greek official to receive the list from Lagarde. In a TV interview last week, he said he immediately asked the Financial Crimes Squad in Athens to check a sample of names. Then he says he transferred the data onto a memory stick and gave the full list to the squad.
After Papaconstantinou left office as finance minister in June 2011, the list disappeared until September 2012, when the current finance minister, Yannis Stournaras, apparently learned of its existence from the press and said he had never received it. Evangelos Venizelos, the finance minister serving between Papaconstantinou and Stournaras, responded to Stournaras’s statement by saying he didn’t know the whereabouts of the Lagarde list. A few days later, he nevertheless presented it to the authorities, declaring that he had never read it but instead only briefly glanced at it, noticing that there were three Jewish names on it (whatever that means).
The mishandling of the Lagarde list is the result of extremely weak -- and, in some cases, failed -- institutions in Greece. The Financial Crimes Squad should have conducted a full investigation of the names on the list, with the finance minister then authorizing a course of action to recoup revenue from identified tax evaders.
That this scandal should have happened at all is bad enough, yet the government’s proposed remedy is worse. On Dec. 28, a total of 71 members of the ruling coalition signed a petition demanding that Papaconstantinou -- alone -- should be investigated, for allegedly removing the names of three of his relatives from the list.
If Greece’s parliamentarians vote in favor of this plan this week, it would be yet another reflection of institutional failure in Greece.

No Motive

The accusation against Papaconstantinou is hardly clear- cut. Papaconstantinou’s relatives have presented evidence to the Financial Crimes Squad that their deposits in Switzerland were legal and properly declared. If this evidence is accepted, then the former finance minister had no obvious motive for removing their names, raising the question of whether he, or someone else, did so and why.
More important, Papaconstantinou is only one of many people involved. Venizelos’s recollection of the list evolved as the scandal unfolded. He not only failed to start an investigation into the names on the list, but also took the list with him when he left office. Should Venizelos not be under investigation, as well? Additionally, any complete inquiry should include senior members of the crimes squad, who received the list from Papaconstantinou and also sat on their hands.
The proposed parliamentary investigation against Papaconstantinou has already ruffled some Greek feathers. Last week, two members of the Democratic Left were expelled from their party for demanding a more complete inquiry. The Independent Greeks and neo-fascist Golden Dawn parties have demanded that former prime ministers also be included in the investigation.
The real threat to the government, however, comes from the main opposition party, Syriza. No matter who is investigated, Syriza stands to gain support from the Lagarde-list saga given the party’s status as an outsider to the cozy political establishment that has run Greece into the ground.
So far, the coalition has managed to hold on to power because no party has had the incentive to bring it down. But this may be changing. Syriza has led the charge in demanding that the Lagarde-list inquiry include a number of politicians and officials. The party probably smells Pasok’s weakness and is going in for the kill.
If Syriza can use the Lagarde-list scandal to come close to attracting enough support to form a majority government, we can expect it to incite even more anti-austerity sentiment in the electorate than we have seen so far, with the goal of forcing early elections.

Impossible Reforms

The public outcry would make further austerity measures and structural reforms almost impossible to implement, and members of parliament would probably continue to resign under pressure from international creditors to meet target conditions for the loans that keep Greece afloat. The coalition’s numbers in the 300-seat parliament have already dwindled to 164 from 179 since the June election.
Most analysts equate a Syriza government in Greece with the country’s exit from the euro area, given party leader Alexis Tsipras’s saber rattling before the June election. The party’s language has softened recently, with Tsipras swapping demands for a moratorium on debt payments with calls for a more constructive debt conference to renegotiate the terms. This week, Tsipras began a public-relations blitz in Germany and the U.S. to manage his party’s image abroad.
So once in government, Syriza might just back down and fall into line with the demands of the European Union, the European Central Bank and the International Monetary Fund. Then again, it might not. Following the decision of European finance ministers in late 2012 to grant Greece some public-debt relief, most investors concluded that the euro area’s problem child would remain out of sight, at least until after the German elections in September 2013. The Lagarde-list saga could bring Greece back into focus earlier than anyone was expecting.

fonte: http://www.bloomberg.com/news/2013-01-15/thought-it-was-safe-to-forget-greece-think-again.html

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