giovedì 24 gennaio 2013

MPS, tra finanza e politica

Per valutare il caso MPS si possono usare diverse chiavi di lettura. Da una parte è l'ennesimo scandalo che colpisce la finanzia internazionale che non sembra certo esser migliorata particolarmente negli ultimi 5 anni. D'altronde nessuna vera riforma del settore è stata fatta, nè in Italia, né altrove. E l'ultima nomina di Obama per il posto di Segretario al Tesoro non va certo nella giusta direzione - Lew è da sempre un sostenitore della deregulation. E come abbiamo visto da non molto, il rischio sistemico legato alla concentrazione nel sistema finanziario non è diminuito ma bensì aumentato. E MPS né è l'ennesimo esempio, col ricorso ora ai Monti Bond per salvare la banca senese quando qualsiasi altra impresa non finanziaria sarebbe tranquillamente fallita.
In tutto questo però si aggiunge il penoso stato del sistema economico italiano, di cui MPS è solo l'ennesimo esempio. Come noto ormai da anni, dopo le privatizzazioni, le banche italiane sono rimaste saldamente legate al mondo della politica attraverso il ricorso alle fondazioni. Quella del MPS, in particolare, era la fondazione più forte, controllando a tutti gli effetti la banca. I sostenitori del libero mercato avrebbero, ovviamente, molto da ridire su una situazione del genere, con la politicizzazione dell'economia che porta guasti ed inefficienza. Il problema però è più complesso. Una guida politica, soprattutto di questi tempi in cui il mercato ha dimostrato tutti i suoi limiti non può essere vista, a prescindere, come un problema. Ma quello che è successo in Italia non è la guida politica, quanto piuttosto una commistione tra poteri privati e pubblici senza una vero e proprio disegno strategico. Piuttosto un risiko di potere, in cui per altro il PD e la cosiddetta sinistra italiana è entrata a piedi pari. Difficile non ricordare il caso Unipol, con gli allora DS accodati ai vari furbetti del quartierino, Fiorani e Ricucci per il controllo di BNL. Non a caso l'odierna vicenda MPS nasce proprio in quei giorni, quando la banca senese comprò ad un prezzo ampiamente superiore a quello di mercato (il 50% di più di quello che era stata appena valutata) ABN Amro. Ed è con tale operazione, fatta proprio poco prima dello scoppio della bolla, che MPS distrusse la sua posizione patrimoniale, portando con sé la Fondazione (e cioè i soldi della città di Siena), ora in bancarotta. Il tutto accompagnato poi da operazioni finanziarie balorde - CDO, ristrutturazioni del debito a là greca, etc etc - quando non proprio violazioni penali (CdA, Banca d'Italia, revisori dei conti, tutti tenuti all'oscuro).
Ora questo macello in una banca di controllo (e proprietà) politica (senza dimenticare tutte le Coop che siedono in MPS) non può non chiamare in causa proprio il PD. Non necessariamente con la sua attuale dirigenza (anche se Bersani fu uno dei più strenui difensori di Fazio), ma quantomeno nella sua conduzione delle attività economico-finanziarie. Una lotta per il potere che va ben al di là della politica dei partiti, giocata in ambienti oscuri e con obiettivi meno che chiari. E soprattutto combattuta con mezzi non sempre leciti. Davanti a tutto questo un pò di chiarezza sulle politiche che propone il PD sul riassetto del sistema finanziario e sul ruolo, trasparente, che la politica dovrebbe giocare, sono davvero d'obbligo.

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Gli aggiornamenti delle rubriche di RI

The City of London
Alesina e Giavazzi, custodi delle verità di comodo: Impareggiabile la premiata ditta del Corsera, Alesina&Giavazzi, i custodi della verità di comodo. La loro ultima uscita è ai limiti del ridicolo, degna del Bagaglino. Spettacolo per altro cui ci hanno ormai abituato: prima sostenendo che il liberismo è di sinistra (si, quel liberismo che ha aumentato ovunque le diseguaglianze e ha bloccato la mobilità sociale in UK e USA: esattamente quello che ci si aspetta dalla sinistra). [continua la lettura]


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Scene di lotta di classe in Slovenia

Continuiamo a raccontare la crisi che i grandi mezzi di informazione convenientemente ignorano. Dalla Grecia, alla Spagna, all'Inghilterra. Oggi parliamo di un piccolo paese a fianco della nostra Italia, la Slovenia, fino a pochi anni fa l'alunno prediletto dell'Europa dell'Est, protagonista di un decennio di grande crescita grazie, almeno apparentemente, alle "riforme" che l'avevano trasformato in una moderna economia capitalista. Peccato che la crisi abbia rimesso tutto in discussione. 

La rivolta dei fiori in Slovenia



Non si fermano, nella Slovenia sull’orlo della bancarotta, le proteste degli operai, dei disoccupati e degli studenti partite nel pieno delle elezioni presidenziali che hanno visto l’affermazione del socialdemocratico Pahor contro la corruzione della classe politica e i tagli alla spesa pubblica e sociale imposti dall’Unione Europea al governo di centro-destra guidato dal premier Janez Janša, leader del Partito Democratico Sloveno. Il piccolo Paese centro-orientale è in crisi verticale, con l’11,5% di disoccupazione, un’economia troppo dipendente dalle esportazioni e quindi a picco a causa della crisi, e con un governo che cerca di far cassa imponendo tagli orizzontali a cultura, sanità, istruzione, lavoro e pensioni.
I primi accenni di protesta ci sono stati il 26 novembre a Maribor – seconda città della Slovenia per grandezza e prima per disagio sociale e numero di disoccupati- dove varie migliaia di persone avevano chiesto le dimissioni del sindaco e della giunta comunale, accusati di corruzione e di malgoverno. La protesta, pacifica, degenerò con l’intervento a gamba tesa della polizia che sgomberò con violenza la piazza, tanto che vi furono alcuni feriti e persino arresti. Dopo le cariche contro i manifestanti di Maribor, i collettivi e gruppi sociali attivi in Slovenia hanno invitato a scendere in piazza anche nelle altre città del Paese “contro la corruzione e le politiche di austerità”.
E infatti già Il 30 novembre si sono svolte nel piccolo paese sorto dal collasso della Jugoslavia di Tito le prime grandi manifestazioni contro il Governo cui hanno partecipato secondo gli organizzatori almeno 10 mila persone nella sola capitale Lubiana e altre decine di migliaia in quasi tutte le principali città del Paese: la giornata si concluse con una nottata di violenti scontri davanti ai palazzi del potere partiti a seguito del tentativo da parte di un gruppo di manifestanti di irrompere nel Parlamento, tentativo cui il reparto di polizia antisommossa – il famigerato “Bestie Ninja”- ha risposto utilizzando manganelli, gas lacrimogeni e cannoni ad acqua ed effettuando più di 30 arresti.
Il 12 dicembre, intanto, i rappresentanti dei lavoratori statali hanno depositato 13.280 firme per avviare l’iter referendario relativo alla legge di bilancio appena approvata dal Parlamento. La domanda è esplicita: «Volete abrogare la legge relativa al bilancio dello Stato 2013-2014 approvata dal Parlamento nella seduta del 6 dicembre 2012?» Per avviare l’iter bastavano 3mila firme. Il presidente della Confederazione sindacale del settore pubblico, Branimir Štrukelj ha affermato che se avessero aspettato un solo giorno in più le firme sarebbero state molte, ma molte di più. Štrukelj ha precisato inoltre che lo sciopero generale del pubblico impiego proclamato per il prossimo 23 gennaio è confermato e si svolgerà soprattutto per protestare contro i paventati licenziamenti. «Ma non ci fermeremo qui – ha precisato il leader sindacale – gli scioperi, dopo il 23 gennaio, si svilupperanno a macchia di leopardo nelle varie regioni slovene»
Tutto sembra intanto tacere nelle piazze , ma la notte del 21 dicembre alcune donne lanciano addosso ai poliziotti in presidio al Parlamento centinaia di garafoni rossi: da allora sulle pagine dei principali quotidiani nazionali – e poi esteri- non si parla che di “rivolta dei fiori”. Il giorno dopo, il 22 dicembre, anniversario del plebiscito con cui si sancì l’indipendenza dalla Jugoslavia socialista, in migliaia sono di nuovo in piazza per manifestare…non come gli anni scorsi la gioia per la “festa d’indipendenza”, ma tutta la loro rabbia “contro il governo democratico, i deputati e le istituzioni” e non poca nostalgia verso “l’era socialista”.
Mauro Manzin, giornalista de “Il Piccolo” inviato in quei giorni a Lubiana, ha raccontato che c’era in piazza “la gente che guadagna 600 euro al mese e non ce la fa più: le famiglie, gli studenti, i lavoratori e i disoccupati che vedono di giorno in giorno peggiorare la propria vita”. Un popolo, spiega, autoconvocato con il tam tam di facebook. “C’erano i reduci della guerra d’indipendenza con le bandiere slovene listate a lutto. C’erano genitori e bambini, coppie di pensionati, femministe arrabbiate che urlavano la loro rabbia in faccia ai poliziotti. C’erano bandiere anarchiche e bandiere dell’ex Unione sovietica. Bustine di partigiano in testa, molti anziani rivendicavano il proprio onore mutilato, a loro dire, da uno Stato infingardo e ladro. C’era un uomo vestito da giraffa che portava in mano un cartello con su scritto:«Le vostre dita sono più lunghe del mio collo». E poi un maiale di cartapesta a raffigurare i deputati. Le vuvuzelas – continua il giornalista- facevano un chiasso infernale, assieme a fischietti e tamburi. Gli operai gridavano: «Restituiteci le nostre fabbriche, vogliamo lavorare». Improvvisamente, dal nulla, sbucò un enorme sanpietrino di plastica gonfiato e la gente se lo passava sulle proprie teste come fosse un pallone. «Noi siamo lo Stato» si gridava. E il rimpianto per la «dittatura del proletariato» si insinuava tra il malessere della gente al tramonto del capitalismo. Gli “arrabbiati” voltavano le spalle alla sede della Nova Ljubljanska Banka. Sull’ingresso dell’istituto di credito era stato attaccato un cartello: «Banchieri siete finiti», recitava. «Gotovi», «gotovi», siete finiti, siete finiti, scandiva la massa che ondeggiava contro le transenne”.
E a due giorni di distanza, il 24 dicembre, in 5000 sono tornati a invadere nonostante il giorno di festa le strade della Capitale.

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