mercoledì 20 febbraio 2013

Napolitano, il PD e lo spettro di Berlusconi




Uno spettro si aggira per l'Italia. Ha tutto da perdere e noi abbiamo tutto da guadagnarci (dalla sua sconfitta) - è lo spettro di Silvio Berlusconi. Se non uno spettro, quantomeno uno zombie. Era politicamente morto e sepolto non più di qualche mese fa. La sua maggioranza, larghissima, si era sfaldata sotto il peso di scandali sessuali, incompetenza economica, dilettantismo politico. Il Pdl era allo sbando, diviso in mille correnti. Nessuno se non una schiera di amazzoni (chiamiamole così per carità di patria...) era più disposto a difenderlo, Crosetto lo insultava al telefono, gli ex An gli facevano la faida interna, pronti a tornare a fare i fascisti senza doppio petto. Insomma, sembrava davvero game over.
In una democrazia normale si sarebbe votato alla caduta di quel malaugurato governo, come si è fatto in Spagna, in Portogallo, in Irlanda e, pensate un po', persino in Grecia, due volte. Ma no, lo spread era troppo alto. Era alto anche in quegli altri paesi però. Col senno di poi si può dire che i tassi di interesse sono scesi col governo Monti, vero, ma sono scesi pure in tutti gli altri PIGS, anche con maggioranze instabili, con elezioni bis, con scandali politici. Insomma, se non è crollata la Grecia, se la Spagna sopravvive, se il Portogallo è ancora nell'Euro si può con certezza dire che non sia per merito di Monti, ma forse, invece di Draghi. Col senno di poi sono capaci tutti. Ma in tanti eravamo capaci anche col senno di prima. Votare si poteva - è incontestabile, ora - e si doveva. Si doveva per rispetto degli elettori e della democrazia. E si doveva perché bisognava sbarazzarsi di Berlusconi. Soprattutto se si va in giro a dire che la crisi italiana è figlia di Silvio B. Ed allora non si poteva governare con lui. E non si poteva dargli l'occasione di riorganizzare le truppe, stare al coperto per un anno e poi tornare alla carica come unica e vera opposizione dell'assai impopolare governo Monti. Opposizione che non è mai stata fatta, ma tant'è. 
Come diceva Mao, bastonare il cane che affoga. Analogia un pò dura, ma decisamente a proposito. Peccato che invece s sia messo di mezzo Re Giorgio con i suoi intrighi e colpi di palazzo. Il governo del Presidente, per passare alla storia come il salvatore dell'Italia. Mentre rischia di essere quello che ha permesso il ritorno del morto vivente, di Berlusconi, del padre di tutti i mali del Paese - anche se è davvero conveniente dimenticare come in questi 19 anni al governo ci sia stato anche il PD e i suoi antenati che qualche colpa dovrebbero pur prendersela e qualche autocritica dovrebbero pur farla. 
Invece ora, dopo aver rianimato, per l'ennesima volta, Berlusconi con una respirazione bocca a bocca, manco fossero una delle olgettine, dopo aver votato leggi orribili d'accordo con Monti e con B. stesso, dopo aver buttato l'Italia in recessione, ecco, dopo tutto questo ci chiedono di nuovo un voto basato solo sulla fiducia e sulla paura dello zombie.
Ma siamo seri. L'unico vero voto utile è contro chi ha permesso questo sfacelo. Votare per chi non voleva Monti, per chi non ha mai fatto inciuci con Berlusconi, per chi le cose le vuole cambiare davvero. Votare non per paura, ma per speranza. 


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Una serie di fortunati eventi e quattro buone ragioni per votare SEL alle prossime elezioni

di Andrea Pisauro - andreapisauro.com
(candidato per SEL alla Camera dei Deputati, circoscrizione estero/Europa) 


A meno di una settimana dalle elezioni politiche che segnaranno la fine della peggiore legislatura della storia repubblicana, per quella che potrebbe essere definita una serie di fortunati eventi, la coalizione di centrosinistra composta da SEL, PD, PSI e (marxisti per) Tabacci si trova nell'incresciosa situazione di potere concretamente vincere le elezioni. A scanso di equivoci chiariamo subito che questa e' una buona notizia per l'Italia.

Il combinato disposto della peggior legge elettorale del mondo civilizzato, fatta di sbarramenti a geometria variabile e premi di maggioranza incostituzionali, unita alla straordinaria circostanza della presenza di tre poli di destra (Berlusconi, Monti e il povero Giannino) rischiano infatti di rendere elettoralmente possibile non soltanto una maggioranza di centrosinistra in entrambe le camere, ma anche di offrire al costituendo governo il privilegio di una minoranza divisa in quattro fazioni l'un contro l'altra armate. Tutto dipendera' ovviamente dal risultato della Lombardia, dove si concentrano gli sforzi dei contendenti. La vittora di Italia Bene Comune nella culla del Berlusconismo puo' veramente segnare la fine di una stagione politica segnata dal degrado civile e dalla devastazione economica e sociale, per aprirne un'altra, ma fondata su cosa?

Ci sono delle ragioni politiche sensate per un elettore di sinistra per sostenere questa coalizione che non siano quella di volere salire sul carro dei vincitori annunciati? E quale partito scegliere? Io ne individuo quattro sulla base delle quali sostenere Italia Bene Comune e votare Sinistra Ecologia e Liberta'.

1) Coalizione fondata sul metodo democratico.
La crisi e' anche figlia della debolezza delle strutture democratiche, in mano alle oligarchie partitiche e ai gruppi di potere che li finanziano. La scelta della coalizione di scegliere la propria leadership attraverso primarie vere e partecipate, e di usarle anche per la selezione delle candidature al parlamento e' una scelta coraggiosa che vincola il mandato politico dei rappresentanti agli impegni e ai legami formatisi durante le primarie. Si tratta di un passo importante che non ha precedenti nella vita politica del paese cosi come nelle liste concorrenti (fatta eccezione per le poco partecipate parlamentarie della lista di Grillo)


2) Serve un governo di sinistra per cambiare rotta in Europa
Se la crisi dell'economia reale dipende in buona sostanza dagli accordi presi ai vertici intergovernativi dei paesi piu' forti dell'eurozona, e' evidente la concreta assenza di alternative al tentativo (che si badi bene, in quanto tale può anche fallire) di cambiare le cose dal governo del paese, in un momento in cui questo è l’unico organo democraticamente scelto (seppur indirettamente) che sia in grado di incidere nei processi europei alla base dell’attuale situazione di crisi. L'opposizione e' sostanzialmente irrilevante ai fini di un dibattito che si sviluppera' nei prossimi 2-3 anni, ultima finestra di opportunita' per ribaltare l'austerita' prima della rottura dell'Euro. Il Fiscal Compact e' del resto gia' screditato nei fatti dalle analisi delle FMI e dalla sostanziale impossibilita' di raggiungerne gli obiettivi, cosa di cui le leadership europee si stanno lentamente rendendosi conto. Il tema dei prossimi tre anni sara' necessariamente come riformarlo e un governo di sinistra in Italia e' la migliore chance per cambiare la rotta in Europa.


3) Il Partito Democratico lentamente cambia
Qualunque considerazione sulla natura della coalizione non puo' prescindere da un serio esame sulla natura del suo partito maggioritario. Il motivo per cui e' lecito sperare in un cambio di rotta da un governo di sinistra è la considerazione sulla natura del PD di Bersani e dell’evoluzione impressa dalla svolta neosocialista di Fassina e Co sui temi della difesa del lavoro e dell'analisi della crisi economica, evoluzione tuttora incompiuta ma che porta il maggior partito della sinistra italiana su posizioni infinitamente più avanzate della terza via fuori tempo massimo di Veltroni (e Renzi).
La svolta di linea politica si e' riflessa anche nel voto delle primarie per i parlamentari, che hanno visto un'orda di giovani turchi travolgere veltroniani e cattolici. Non e' affatto da sottovalutare l'impatto che ha avuto un gruppo parlamentare estremamente moderato nelle scelte in parlamento del PD dell'ultimo anno e mezzo. Chiaramente questo spostamento a sinistra, che e' incidentalmente ma non troppo anche uno dei motivi che hanno inchiodato Vendola al 15% delle recenti primarie, puo' e deve essere assecondato e con un voto alla componente piu' a sinistra della coalizione, ovvero SEL.


4) Un voto a SEL per spaventare i moderati
Quanto detto sopra puo' reggere alla prova dei fatti in presenza non solo di una maggioranza di centrosinistra anche al Senato, ma anche di una sostanziale dipendenza della maggioranza dalla presenza di una forza marcatamente di sinistra ed incompatibile con un'alleanza con i montiani. SEL ha chiaramente messo sul campo la sua indisponibilita' ad un allargamento della maggioranza di centrosinistra a Monti ed e' prontissima ad alzare alcuni paletti programmatici irrinunciabili sull'ampliamento di misure di welfare a chi non ne ha e sull'allentamento dei tagli in caso di assenza di maggioranza al Senato.


Incognite ce ne sono tante, e il rischio di fallire c'e'. Ma per la prima volta in tanto tempo, c'e' anche la possibilita' di avere successo.  Del resto, l'alternativa a un governo di sinistra e' il baratro in cui abbiamo gia' iniziato a cadere. Forse per una volta conviene provare a crederci?

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Riforme fallite, società disorganizzata


Nicola Melloni
da Sbilanciamoci

La rotta d'Italia. Alla base della crisi italiana c’è il fallimento delle riforme della “seconda Repubblica”. Non serve continuare su quella strada, serve rinnovare la politica, organizzare la società, ricostruire una classe dirigente


Dove stiamo andando? Per rispondere, dobbiamo capire la strada che abbiamo fatto per arrivare fin qui: gli organismi sociali, diversamente dalle navi, si muovono lungo percorsi storici e non possono, di norma, cambiare strada a piacimento.
La Prima Repubblica crollò sotto il peso di una “casta” politica diventata autoreferenziale che, con una serie di politiche pubbliche sconsiderate, aveva messo in ginocchio i conti dello Stato. Da qui la spinta verso due profondi cambiamenti istituzionali. Dal punto di vista più prettamente politico, due riforme per riconquistare la fiducia dei cittadini: il passaggio dal proporzionale al maggioritario (so chi voto, maggior controllo sull’eletto, ricostruzione del rapporto politica-cittadini), e la riforma in senso federale (maggiori poteri e capacità di spesa delle regioni, sussidiarietà, tasse e decisioni politiche più vicine al territorio). A questo si è aggiunto naturalmente un profondo cambiamento del sistema economico, legato al processo di europeizzazione a marca fortemente liberista (parametri di Maastricht, privatizzazioni). In breve, la classe dirigente (o una parte di essa) cercò di cambiare l’Italia attraverso un processo di riforme istituzionali dall’alto (institutional change). L’obiettivo era la trasformazione in un “Paese normale” (D’Alema) replicando i modelli allora in auge del capitalismo anglosassone.
I risultati sono stati però disastrosi. La riforma elettorale si rivelò, da subito, fallimentare, con una governabilità addirittura peggiore di quella della prima Repubblica, in cui le piccole formazioni politiche e ancora di più i notabili locali acquistarono un potere di interdizione sempre maggiore, mentre la capacità nazionale dei partiti andava scemando.
Il federalismo o regionalizzazione non ha avuto risultati migliori e gli scandali dell’ultimo anno ce lo confermano. La maggioranza delle inchieste giudiziarie sulla politica si sono spostate da Roma ai tanti Consigli regionali. Il cosiddetto controllo dei cittadini su spese e rappresentanti si è rivelato un’utopia. Si sono in realtà moltiplicati i centri di potere, e in questa maniera si è semplicemente spostato il locus di spesa, senza ridurla, anzi.
Non è andata meglio con la riforma del capitalismo italiano. Il peso dello Stato nell’economia è chiaramente sceso, ma i legami tra potere politico e potere economico si sono moltiplicati, dai favori agli amici e agli amici degli amici, alle modalità di gestione della fondazioni bancarie.
Le altre riforme economiche hanno seguito una tendenza simile. In particolare la riforma del lavoro, iniziata con il pacchetto Treu, aveva come scopo rendere più flessibile il mercato del lavoro e dunque rilanciare l’industria italiana e la sua capacità imprenditoriale. In realtà i risultati sono stati illustrati molto bene da Giuseppe Travaglini nel suo articolo per la Rotta d’Italia (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ascesa-e-declino-del-Prodotto-pro-capite-16573). In Italia si lavora più che altrove, ma si produce meno. Non sorprende dunque che gli obiettivi conclamati di inizio anni ’90 (maggior crescita, minore debito) siano rimasti miraggi (vedi l’articolo di Massimiliano Di Pace nella Rotta d’Italia). (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Vent-anni-di-governi-vediamo-i-risultati-16561).
Di fronte a questo fallimento, ancora oggi si insiste su altre e nuove riforme: più potere al governo, nuovo sistema elettorale, altre riforme del mercato del lavoro, etc. Un errore di metodo che non tiene conto delle lezioni di questi ultimi 15 anni. Il modo in cui le istituzioni funzionano (institutional performance) e si sviluppano (institutional development) è largamente dovuto alle strutture sociali, politiche ed economiche e al loro sviluppo storico.
In un’economia dominata dalla piccola e media impresa, incapace e spesso indisponibile a crescere (difficoltà di accesso al credito, capital market fortemente sottosviluppato, cultura diffusa a livello di impresa che preferisce il controllo diretto), la flessibilità del mercato del lavoro si è posta in antitesi a ricerca e sviluppo – una competizione basata sul contenimento dei costi invece che sull’innovazione.
In un paese contraddistinto dai localismi, dal potere dei notabilati e da una economia a tratti neo-feuldale, soprattutto nelle regione meridionali, l’introduzione del sistema maggioritario non ha avuto nessun effetto, se non quello di indebolire ulteriormente i partiti (è il caso, naturalmente, di Forza Italia, ma anche il Pds-Ds fuori dalle classiche regioni rosse aveva una struttura troppo debole per fronteggiare tale situazione).
Una problematica di questo tipo si è poi replicata e ingigantita a livello regionale, dove interessi privati e centri di potere hanno spesso condizionato la politica locale lasciata senza guida (e controllo) da partiti acefali che sono sopravvissuti solo grazie alla gestione del potere, e dunque delle risorse a esso connesse – con conseguente contorno di scandali.
L’elemento mancante in tutto questo è stata proprio la politica, da non intendersi meramente come leadership dei partiti, ma come strumento di organizzazione della società e di trasmissione bidirezionale tra cittadini e Stato. Nella tanto vituperata prima Repubblica, partiti e sindacati garantivano l’organizzazione e la rappresentanza di interessi, tenendo insieme faticosamente i diversi pezzi del sistema, crollato poi per tensioni domestiche e internazionali. Il tentativo di porvi rimedio è stato affidato ad una serie di riforme calate dall’altro che non tenevano in alcuna considerazione la struttura degli organismi sociali. Dimenticando, convenientemente, che fiducia, legittimità e “successo” non si ottengono a forza di cambiamenti dall’alto, ma con la capacità di includere, comunicare e agire. Da un lato, i partiti sono mancati nell’elaborazione di un nuova idea di società, riducendosi a fare la ruota di scorta di processi che non sono stati in grado di controllare (globalizzazione, ruolo dell’Europa, potere dei mercati finanziari) senza saper offrire un progetto organico di trasformazione. L’unica idea trainante degli ultimi vent’anni è stata l’entrata nell’Euro, senza avere per altro neppure la comprensione dei vincoli – e delle opportunità – che avrebbe comportato.
Dall’altro lato, i partiti hanno smesso di parlare alla società. Imprenditori e borghesia sono stati sostanzialmente lasciati a se stessi, senza un disegno strategico di sviluppo e cambiamento. L’abbandono della politica industriale ne è il più chiaro esempio: si è pensato bastasse privatizzare e liberalizzare per ottenere crescita e prosperità, senza capire che la piccola impresa (e pure quella grande, storicamente attaccata alla mammella dell’aiuto pubblico) non era preparata per affrontare i processi di internazionalizzazione dell’economia globale. E il lavoro stesso è stato progressivamente abbandonato dai partiti che storicamente lo difendevano e da sindacati incapaci di adattarsi ai nuovi modelli organizzativi del lavoro – sottraendo per altro anche un importante pungolo al mondo imprenditoriale, e appunto facilitando quei processi di sfruttamento del lavoro che pauperizzano la società invece di farla progredire. I risultati sono quelli che sappiamo: uno stato imbelle davanti alle sfide del nuovo millennio e una politica sorda e incapace di parlare alla gente e che espelle dalle istituzioni (e quindi dalla cittadinanza) fette sempre maggiori di popolazione. Pensare che possano bastare delle elezioni primarie per risolvere quest’ultimo problema è, al meglio, illusorio.
In tutto questo, dunque, l’Italia è senza rotta. E non può bastare un governo col cacciavite in mano, come pensa di fare invece il Pd, perché non ci sono bulloni da fissare, ma una società da organizzare. Evitando le facili scorciatoie di nuove riforme destinate a fallire, ma ritornando a parlare alla “pancia” d’Italia, ricostruendo dalla base una classe dirigente in grado di fornire una guida per uscire dalle sabbie mobili in cui stiamo ormai affondando. 



fonte: http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Riforme-fallite-societa-disorganizzata-16870


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Reagan, un Berlusconi antelitteram

Pubblichiamo oggi un articolo da The Nation su Ronald Reagan di cui ricorreva qualche giorno fa il 102 compleanno. Reagan viene tuttora idolatrato dalla destra americana ed europea ed è stato pure rivalutato da una parte della sinistra. Quindi, al di là della propaganda, sarebbe ora di fare un pò di luce su una figura storica che è riuscita ad unire la farsa e la tragedia, a manipolare milioni di persone e a dare origine a quel periodo di deregulation che tanti danni ha provocato in tutto il globo. 
Reagan è stato una sorta di Berlusconi ante-litteram, un contaballe imperterrito, sempre pronto a spararla il più grossa possibile (basta ricordare la Reaganomics e la balzana idea che meno tasse volesse dire più soldi per lo Stato), e con un concetto di democrazia a confronto del quale anche il nostro B. sembra un vero e sincero democratico. La lettura dell'articolo di Rick Perlstein è davvero illuminante.


di Rick Perlstein
da The Nation


I missed a friend's birthday a couple of weeks ago. February 6 was the 102nd anniversary of Ronald Reagan's birth. I've been spending a lot of time with the old fellow, as some of you know, working on a book, and I really should make amends. Because he astonishes me. A man as myopic as what you'll be seeing below really deserves some sort of recognition. He really, really does.
As I noted in a recent post on Reagan's contribution to the ideology of NRA vigilantism, I spent a goodly amount of time this previous summer at the Hoover Institution at Stanford listening to the daily radio broadcasts broadcasts by which he reintroduced himself politically to the nation, beginning in 1975, following his second term as governor of California. Listening to Reagan with Google by my side was an astonishment, even knowing how much he habitually stretched the truth. There was the time I heard him make an impassioned brief against the Ahab-like maritime bureaucrats insisting that a steamship that plied its trade up and down the Mississippi for tourists, the Delta Queen, be fireproofed according to law, which her owners said would put her out of business. Even though she "has never had a fire...No matter, said the bureaucrats in Washington. The Delta Queen could not be made an exception."
I went on Google Newspapers, typed in "Delta Queen" and "fire." And learned...she had caught on fire little more than two years earlier.
Fact-checking Ronald Reagan has been, sometimes, almost comical. But it sometimes makes you want to punch through a window, too. In July of 1975 he made an especially aggressive broadcast attacking "the innuendos and the accusations that the CIA and our government had a hand in bringing about the downfall of the government of Chile." (It wasn't innuendo, as a Church Committee report published in 1976 definitively proved, and which Reagan, as a member of the blue ribbon Rockefeller Commission investigating the CIA that year had to have known when he uttered the words).
He went on to flay Congressmen who "act as if fascism had been imposed on the Chileans, to their great distress and unhappiness."
He then cited a recent unprecedented Gallup poll undertaken in the South American nation. It recorded that 83 percent "agree with the new government's statement of principles," over 90 percent said "the government has either completed, or nearly completed, these principles, which include that freedom of thought will be respected,"; that sixty-four percent thought they were "living better"; 75 percent liked their medical care; 73 percent thought conditions would improve (only 11 percent disagreed). As for the new government which had brought their nation to this happy pass, "60 percent gave it the highest rating possible and only 3 percent feel it was bad. This is quite a contrast to much of what we've heard in the news about a reign of terror, political prisoners, torture, and a depressed and frightened populace!"
The paradox will give you a headache, right? Polling only works in a country without a depressed, frightened populace, no? Were the public trusts authorities enough to tell them the truth without fear of retribution. Chileans, since September 11, 1973 had lived under an official "state of siege," renewed every month by military decree and not lifted until 1978—at which point General Pinochet revised the state of siege to a mere "state of emergency." The new rules he magnanimously explained, meant "I cannot banish anyone for more than six months and there will be no more trials of a military nature" (through the nightly curfew would remain in force). "This is not a threat but I am testing how people will behave," he said. "The reality is that we are living in a tranquil period and there is support for the government. I believe that this backing permits me to lift the state of siege and maintain only a state of emergency."
And what did he offer as his evidence, in 1978, that these "relaxed" measures were acceptable? Ironically enough, a Gallup Poll citing 80.6 percent support for his government.
Back in 1975, meanwhile, the first time Gallup came calling in Santiago, by public law the military junta could banish anyone they wanted, and keep them "in detention in locations other than regular prisons"—such as, infamously, the national soccer stadium, where some 40,000 political enemies had been held. By private law, thousands of regime enemies were simply "disappeared," including an Air Force official, Alberto Bachelet, who was tortured to death in 1974 (the papers reported he died from cardiac arrest in a basketball game). His daughter and mother were picked up for detention and torture six months before this Reagan broadcast. Would you speak truthfully to a stranger bearing a clipboard in a country like that?
Apparently Ronald Reagan never thought of that. Gallup said Chileans loved their ruler, and that was good enough for him. Put simply, there were good guys and bad guys. Augusto Pincochet, vociferously anti-Communist, was one of the good ones.
Call it a preview of what was to come, ten years later, when he called the proprietors of another set of death squads, the Nicaraguan Contras, "our brothers," "the moral equivalent of the Founding Fathers and the brave men and women of the French resistance." Happy birthday, Mr. President!

fonte: http://www.thenation.com/blog/172980/happy-birthday-mr-fortieth-president#


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La crisi dell'Euro non è finita

Proponiamo di seguito un interessante disamina di Martin Wolf, capo economista al Financial Times. Wolf spiega con dovizia di particolari perché la crisi dell'Euro non sia finita. Si, il rischio spread è calato notevolmente, e questo potrebbe, ipoteticamente, dare più tempo ai nostri governi per rimettere a posto la UE. Ma per fare questo bisogna cambiare la natura dell'Europa e affrontare direttamente i problemi della crisi, il debito, la competitività e il disequilibrio tra Sud e Nord Europa. Altrimenti la crisi è destinata a tornare, e probabilmente prima di quando pensiamo.

Why the euro crisis is not yet over

di Martin Wolf
da Financial Times

Is the eurozone crisis over? The answer is: “yes and no”. Yes, risks of an immediate crisis are reduced. But no, the currency’s survival is not certain. So long as this is true, the possibility of renewed stress remains.
The best indicator of revived confidence is the decline in interest-rate spreads between sovereign bonds of vulnerable countries and German Bunds. Irish spreads, for example, were just 205 basis points on Monday, down from 1,125 points in July 2011. Portuguese spreads are 465 basis points, while even Greek spreads are 946 basis points, down from 4,680 points in March 2012. Italian and Spanish spreads have been brought to the relatively low levels of 278 and 362 basis points, respectively. (See
Behind this improvement lie three realities. The first is Germany’s desire to keep the eurozone intact. The second is the will of vulnerable countries to stick with the policies demanded by creditors. The third was the decision of the European Central Bank to announce bold initiatives – such as an enhanced longer-term refinancing operation for banks and outright monetary transactions for sovereigns – despite Bundesbank opposition. All this has given speculators a glorious run.
Yet that is not the end of the story. The currency union is supposed to be an irrevocable monetary marriage. Even if it is a bad marriage, the union may still survive longer than many thought because the costs of divorce are so high. But a bad romance is still fragile, however large the costs of breaking up. The eurozone is a bad marriage. Can it become a good one?
A good marriage is one spouses would re-enter even if they had the choice to start all over again. Surely, many members would refuse to do so today, for they find themselves inside a nightmare of misery and ill will. In the fourth quarter of last year, eurozone aggregate gross domestic product was still 3 per cent below its pre-crisis peak, while US GDP was 2.4 per cent above it. In the same period, Italian GDP was at levels last seen in 2000 and at 7.6 per cent below its pre-crisis peak. Spain’s GDP was 6.3 per cent below the pre-crisis peak, while its unemployment rate had reached 26 per cent. All the crisis-hit economies, save for Ireland’s, have been in decline for years. The Irish economy is essentially stagnant. Even Germany’s GDP was only 1.4 per cent above the pre-crisis peak, its export power weakened by the decline of its main trading partners.
If all members of the eurozone would rejoin happily today, they would be extreme masochists. It is debatable whether even Germany is really better off inside: yes, it has become a champion exporter and runs large external surpluses, but real wages and incomes have been repressed. Meanwhile, the political fabric frays in crisis-hit countries. Anger at home and friction abroad plague both creditors and debtors.
What, then, needs to happen to turn this bad marriage into a good one? The answer has two elements: manage a return to economic health as quickly as possible, and introduce reforms that make a repeat of the disaster improbable. The two are related: the more plausible longer-term health becomes, the quicker should be today’s recovery.
A return to economic health has three related components: write-offs of unpayable debt inherited from the past; rebalancing; and financing of today’s imbalances. In considering how far all this might work, I assume that the risk-sharing and fiscal transfers associated with typical federations are not going to happen in the eurozone. The eurozone will end up more integrated than before, but far less integrated than Australia, Canada or the US.
On debt write-offs, more will be necessary than what has happened for Greece. Moreover, the more the burden of adjustment is forced on to crisis-hit countries via falling prices and wages, the greater the real burden of debt and the bigger the required write-offs. Debt write-offs are likely to be needed both for sovereigns and banks. The resistance to recognising this is immensely strong. But it may be futile.
The journey towards adjustment and renewed growth is even more important. It is going to be hard and long. Suppose the Spanish and Italian economies started to grow at 1.5 per cent a year, which I doubt. It would still take until 2017 or 2018 before they returned to pre-crisis peaks: 10 lost years. Moreover, it is also unclear what would drive such growth. Potential supply does not of itself guarantee actual demand.
Fiscal policy is contractionary. Countries suffering from private sector debt overhangs, such as Spain, are unlikely to see a resurgence in lending, borrowing and spending in the private sector. External demand will be weak, largely because many members are adopting contractionary policies at the same time. Not least because it is far from clear that the competitiveness of crisis-hit countries has improved decisively, except in the case of Ireland, as Capital Economics explains in a recent
note. Indeed, evidence suggests that Italian external competitiveness is worsening, relative to Germany’s. Yes, the external account deficits have shrunk. But much of this is due to the recessions they have suffered.
Meanwhile, the financing from the ECB, though enough to prevent a sudden collapse into insolvency of weak sovereigns and the banks to which they are tied, required rapid fiscal tightening. The results have been dismal. In a recent letter to ministers, Olli Rehn, the European Commission’s vice-president in charge of economics and monetary affairs, condemned the International Monetary Fund’s recent doubts on fiscal multipliers as not “helpful”. This, I take it, is an indication of heightened sensitivities. Instead of listening to the advice of a wise marriage counsellor, the authorities have rejected it outright.
Those who believe the eurozone’s trials are now behind it must assume either an extraordinary economic turnround or a willingness of those trapped in deep recessions to soldier on, year after grim year. Neither assumption seems at all plausible. Moreover, prospects for desirable longer-term reforms – a banking union and enhanced risk sharing – look quite remote. Far more likely is a union founded on one-sided, contractionary adjustment. Will the parties live happily ever after or will this union continue to be characterised by irreconcilable differences? The answer seems evident, at least to me. If so, this unhappy story cannot yet be over.

fonte: http://www.ft.com/cms/s/0/74acaf5c-79f2-11e2-9dad-00144feabdc0.html#axzz2LNamElyG

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