lunedì 22 aprile 2013

Il lavoro sporco degli economisti

di Nicola Melloni
da Liberazione

Secondo John Maynard Keynes le idee degli economisti, sia quando sono corrette che quando sono sbagliate, sono più potenti di quanto si pensi comunemente. Indubbiamente, trent’anni di neo-liberismo hanno visto l’importanza della “scienza” economica crescere enormemente. Le politiche economiche, che una volta venivano prese per ragioni sociali, politiche o di sviluppo, sono state soppiantate dalla nuova ortodossia che vedeva nel mercato e nella sua più completa libertà l’unico paradigma. Gli economisti hanno così rimpiazzato i politici, trasformando la democrazia in tecnocrazia. Con i risultati che abbiamo visto.
In realtà si potrebbe fare anche il discorso inverso. Cantori di una ideologia dominante, un impressionante numero di economisti hanno fabbricato tesi su tesi, articoli su articoli, libri su libri con lo scopo di compiacere e rafforzare il sistema dominante, quello che, dopo tutto, li pagava. Si è trattato di un cortocircuito generale, in cui i politici eletti basavano le loro scelte sui suggerimenti degli economisti e gli economisti elaboravano i loro suggerimenti per compiacere una certa politica. Un mondo costellato di conflitti di interessi, di riduzione degli spazi democratici, di politiche ideologiche, per altro clamorosamente sbagliate.
La grande crisi del 2007 ha sollevato il velo su diversi di questi problemi ed avrebbe dovuto portare ad un ripensamento della disciplina economica ed anche della politica. Invece le cose sono addirittura peggiorate.
La maggior parte dei governi occidentali ha adottato politiche di austerity che sono la quintessenza dell’ideologismo. Da una parte, nessuna teoria economica degna di questo nome può spiegare come politiche restrittive in tempo di crisi dovrebbero far aumentare la crescita. Dall’altra, i risultati che vediamo, giorno per giorno, nelle nostre economie, confermano che l’austerity non funziona e che peggiora le cose. Eppure dalla Merkel a Osborne alla destra americana si continua a ripetere il mantra della riduzione del deficit e del debito come stella polare della politica economica, come unica maniera per rilanciare la crescita. Supportati in questo, dal solito codazzo di economisti prezzolati.
Avevano iniziato Alesina e Ardagna con il loro famoso lavoro sull’austerity che genera crescita. Un tentativo così maldestro da essere fatto a pezzi dagli economisti del Fondo Monetario Internazionale che hanno trovato la metodologia e la scelta dei dati così discutibile da rendere fondamentalmente invalidi i risultati dei due autori, che col loro lavoro avevano dato una ottima copertura “scientifica” (si fa per dire…) alle politiche economiche europee. Alesina, per altro, rimane fermo nelle sue convinzioni, nonostante i risultati tutt’altro che brillanti delle politiche che propone. Ha perfino sostenuto che la recente crescita della Borsa americana dopo i tagli di bilancio sia la prova della fondatezza delle sue tesi. Deve essere uno degli ultimi economisti rimasti a pensare che l’andamento della Borsa abbia qualcosa a che fare con l’economia reale.
L’altra ricerca usata per dare credibilità all’austerity di questi anni è quella di Reinhart e Rogoff che in un famoso articolo sostenevano che in presenza di un debito pubblico superiore al 90% del Pil la crescita diventa negativa. Ne consegue che i paesi affetti da alto debito devono immediatamente ridurre il debito per poter tornare a crescere, giustificando dunque tutti i tagli di bilancio che abbiamo visto in questo ultimo periodo. Peccato che anche i risultati proposti da Reinhart e Rogoff siano lungi dall’essere perfetti e credibili. Non solo, nuovamente, i dati sono stati selezionati accuratamente, escludendo quelli che erano più scomodi per i risultati che si volevano ottenere. Non solo la metodologia usata è a dir poco questionabile. Ma addirittura è stato trovato un macroscopico errore di calcolo, che ipotizziamo fino a prova contraria casuale, ma che altrettanto casualmente modifica in maniera sostanziale i risultati. Infatti, senza quell’errore, la crescita economica per i paesi con debito maggiore del 90% del Pil si trasforma magicamente da negativa in positiva.
Ancora una volta teorie economiche sbagliate se non proprio artefatte sono state prese come giustificazione di scelte politiche, trasformate in strumenti di lotta di classe sotto le mentite spoglie di obiettività scientifica. Ancora una volta un’ideologia viene spacciata come necessità senza che questo porti ad un totale ripensamento della relazione tra politica ed economia.