continuiamo a divulgare materiale fuori dal coro sulla modifica dell'articolo 18, pubblicando un altro articolo di un giuslavorista che analizza le conseguenze della riforma del lavoro.
Per aderire all'appello:
di Franco Focareta
Le ragioni che mi
spingono a dare un giudizio drasticamente negativo della ipotesi i di “riforma”
dell’art. 18 sono le seguenti.
Quello che si
contrabbanda come la conservazione del principio della reintegra nel caso di accertata
illegittimità del licenziamento per motivi economici, in realtà è il risultato
di una sofisticata operazione chirurgica che si è avvalsa, questa volta,
sicuramente della perizia tecnica
. Operazione che non
solo trasforma la possibilità di reintegra in evento assolutamente eccezionale, come lo sono
oggi i licenziamenti dichiarati nulli per motivo discriminatorio, ma che
addirittura porterà al fatto che il lavoratore nella maggior parte dei casi non
avrà più l’interesse ad agire in giudizio per l’accertamento della
illegittimità del licenziamento.
Non è vero che è stato
importato il modello tedesco, per il quale
il giudice, di fronte alla accertata illegittimità del licenzia, decide, in base ad una sua valutazione, se ordinare
la reintegra o un mero risarcimento del danno. Quello che viene fuori dal
disegno di legge è una furbesca interpretazione di quel modello fatta con la perizia
di navigati consulenti aziendali che conoscono bene la giurisprudenza in tema
di licenziamenti, e conoscendola bene hanno toccato quei tasti che porteranno a
scongiurare la reintegra per tutti i licenziamenti motivati da ragioni
economiche, salve qualche rarissimo caso
di licenziamento assolutamente maldestro.
La norma prevede la
possibilità, non certo il diritto certo, per il giudice di scegliere tra
reintegra e mero risarcimento solo in presenza di “manifesta insussistenza”
delle ragioni economiche poste a base del licenziamento, proseguendo poi con la
previsione che nelle altre ipotesi, in giudice pure accerta che non ricorre
comunque la giustificazione obiettiva addotta dal datore di lavoro, vi sara
solo il risarcimento del danno.
Orbene, come sa chiunque
calchi le scene delle aule giudiziarie, è rarissima l’ipotesi in cui un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il c.d. licenziamento individuale
per ragioni economiche, venga annullato
per “assoluta insussistenza” della ragione economica o organizzativa addotta.
Nessun datore di lavoro, soprattutto nell’ambito delle aziende cui si applica
l’art. 18, si avventura in un licenziamento, sapendo che quasi sicuramente
verrà impugnato, senza addurre qualche concreta motivazione economica, che poi
sarà in grado di provare in giudizio: un aridizione di fatturato; una
riorganizzazione magari inscenata per l’occasione, una ridefinizione ed
accorpamenti di mansioni, sempre reversibile, ecc. Insomma, mai il datore di
lavoro si presenta davanti al giudice senza uno straccio di prova di un qualche
dato produttivo oggettivo.
I licenziamenti vengono
annullati, sempre, non perché sono assolutamente insussistenti le ragioni
economiche addotte, ma perché le stesse non sono considerate sufficienti a
giustificare un licenziamento, in un giudizio di bilanciamento di interessi che
vuole la soluzione del licenziamento
come una extrema ratio; perché il
datore di lavoro non ha dimostrato che il lavoratore, il cui posto magari è
stato effettivamente soppresso, non può essere adibito ad altre mansioni;
perché il datore di lavoro non ha rispettato criteri obiettivi di scelta, richiesti
dalla giurisprudenza anche per i licenziamenti individuali. Bene, oggi in tutti
questi casi il licenziamento verrebbe dichiarato sempre illegittimo, ma senza
la possibilità per il giudice di scegliere tra reintegra e risarcimento.
Anche nel rarissimo caso
in cui il giudice dovesse accertare la assoluta insussistenza della motivazione
addotta, ci sarebbe solo la facoltà, non l’obbligo, per il giudice di ordinare
la reintegra. IL che rende la reintegra più che un evento eccezionale un vero e
proprio miraggio per il lavoratore.
Proprio perchè si tratta
di un miraggio, e considerato che anche il risarcimento del danno e fortemente
limitato rispetto alla disciplina attuale, non solo perchè è previsto un limite
massimo di soli 24 mensilità ma anche per i criteri indicati per la sua
concreta determinazione, il lavoratore sarà indotto, ad accettare qualsiasi
offerta transattiva che non sia insignificante, diciamo che con un offerta di
10-12 mensilità per il lavoratore sarà difficile dire di no,considerato che
facendo la causa e vincendola, dopo qualche anno non troverebbe sicuramente la
reintegra ma solo un risarcimento di poco superiore.
A spingere il lavoratore
in questa direzione vi sarà poi la apposita procedura di conciliazione, nella
quale il rifiuto di una eventuale proposta conciliativa diverrà motivo di
penalizzazione per il lavoratore nel corso dell’eventuale giudizio; sia ai fini
della condanna alle spese di giudizio sia per la determinazione dello stesso
risarcimento del danno.
Un bel regalo alle
aziende che potranno liberarsi di lavoratori scomodi o troppo costosi, mettendo
a bilancio un modesto costo, al massimo un anno di retribuzione, senza
affrontare neanche le cause. Costo facilmente recuperabile magari assumendo
dopo in pò un apprendista; così anche il modesto costo viene addossato allo
stato con la mancata contribuzione.
Il tutto è reso ancora
più preoccupante se si pone attenzione che la disciplina rende anche più facili
i licenziamenti collettivi. Anche qui nel caso di violazione delle procedure, non
ci sarà più la sanzione della reintegra. Si rammenta che nei licenziamenti
collettivi il controllo del giudice si limita appunto ai vizi procedurali.
Anche questo controllo viene quindi depotenziato.
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