Ci risiamo. Di nuovo la Grecia, di nuovo l'Italia. L'Europa, ormai agonizzante, ripropone ogni mese gli stessi problemi che solo qualche giorno addietro aveva solennemente promesso di aver risolto. Ma come? Con i tagli selvaggi che si erano imposti ad Atene non si era rassicurato che la crisi greca fosse stata definitivamente sconfitta? L'intervento del Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria avrebbe dovuto mettere un freno all'allargamento dello spread sui titoli di Atene e l'allungamento temporale dei prestiti doveva risolvere i problemi più urgenti di liquidità. Ed invece nuovamente si parla di bancarotta di Atene. In Italia la situazione è ancora più grottesca. L'Europa approva la manovra di Berlusconi, poi, ancora prima che diventi legge, mette le mani avanti: state pronti ad altri interventi se il gettito fosse insufficiente. Ma che gente è questa qui che pretende di governarci? Non c'è un briciolo di piano strutturale, si continua con balletti di cifre ed interventi, si mette una pezza su ogni buco che si crea senza rendersi conto che ormai il tessuto originario ha ceduto e ogni nuovo intervento crea le condizioni per un nuovo e più largo buco.
La nuova pezza del governo italiano è l'ingresso della Cina sul mercato dei titoli di stato, con Pechino che potrebbe fare quello che sarebbe normale facessero la Bce o il Fesf, cioè acquistare Bot e Btp per abbassare il prezzo ed il rendimento richiesto dagli investitori. Rimane da chiedersi perché dovrebbe essere la Cina a salvare l'Europa mentre le istituzioni comunitarie abbandonano i paesi più in difficoltà. Anche in caso di successo - con che prezzo per la nostra sovranità lo potremo sapere solo dopo - questa soluzione sarebbe solo temporanea. L'altro pilastro della strategia governativa, nonostante si fosse promesso il contrario, è ora l'attacco alle pensioni. Non solo è iniquo, ingiusto ed inaccettabile far pagare le magagne di politiche economiche sbagliate ai più deboli e ai più poveri, ma anche i vantaggi economici dell'operazione-quota 100 sono risibili di fronte ai problemi che ci troviamo ad affrontare, che son di ben altra portata. Ma le questioni di fondo continuano a non essere toccate.
Ovunque si parla di rilanciare la crescita, ma di misure economiche in tal senso non vi è traccia. Eppure a Bruxelles ci dicono che va bene così, mostrando il vero volto, feroce e ignorante, della nomenklatura europea. Ad Atene come a Roma si pretende una immediata messa in sicurezza dei conti senza nessuna valutazione di sostenibilità dell'impianto economico. Sempre e comunque la stessa logica: rassicuriamo i mercati, il resto verrà da sé. Infatti. Il resto sta venendo, ma non è quello che si auguravano dalle parti dell'Unione e della Banca Europea. Lo abbiamo detto e lo continuiamo a ripetere, rimettere a posto i conti senza una strategia più ampia di rilancio dell'economia è solo un futile (e criminale) esercizio di dilazione. Non solo: c'è modo e modo di risanare i conti. Lo si può fare in maniera recessiva - colpendo lavoratori e consumatori, come intende fare Berlusconi - con l'ovvia appendice di successive manovre per rimettere mano ai conti scassinati dalla recessione. O si può intervenire in maniera virtuosa, con la patrimoniale, colpendo i redditi più alti e quindi con una propensione marginale al consumo assai più bassa. Quello che serve, dunque, è una patrimoniale seria, sul modello di quella proposta da Modiano, che, rastrellando fino a 200 miliardi di euro, contribuirebbe in maniera decisiva a ridurre il debito, riconquistare la fiducia dei mercati e, di conseguenza, abbassare in maniera consistente lo spread con i titoli tedeschi. A regime si libererebbero 9 miliardi di euro annui, tre volte il contributo che si spera di ottenere da una contro-riforma pensionistica, denaro utile per rilanciare l'occupazione e il salario (e dunque consumi, crescita ed investimenti) con interventi, ad esempio, sul cuneo fiscale.
Purtroppo una proposta di così tanto buon senso come la patrimoniale viene sostanzialmente ignorata dall'establishment politico di destra e di sinistra e solo Rifondazione Comunista la sostiene con forza. Quest'isolamento non deve però scoraggiarci. La politica, lo sappiamo, non la si fa solo nelle stanze dei partiti, la si fa anche nelle piazze. Una politica onesta e giusta che torni a parlare ai lavoratori perché solo rilanciando (e non penalizzando!) il lavoro potrà arrivare la salvezza della nostra economia.
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giovedì 15 settembre 2011
Rassegna stampa:
La Palestina sfida l'ONU sullo stato promesso
Da "Repubblica" del 15/09/2011
ll 20 settembre Abu Mazen dovrebbe chiedere al Palazzo di Vetro il riconoscimento dello Stato. Scontato il sì dell'Assemblea. Una svolta carica di incognite per il Medio Oriente, che Israele e gli Usa stanno tentando disperatamente di bloccare. Creare un comune denominatore di interessi in un popolo frantumato resta un problema. Il voto però susciterebbe di certo emozioni e rianimerebbe progetti e ideali
di BERNARDO VALLI
Il simbolo della campagna per il riconoscimento all'Onu dello Stato di Palestina
Tra cinque giorni, il 20 settembre, sarà presentata alle Nazioni Unite la candidatura della Palestina come Stato indipendente. L'incertezza sussiste, poiché in queste ore sono in corso frenetiche azioni diplomatiche. C'è chi tenta di impedire (o edulcorare) l'iniziativa; e chi al contrario vuole solennizzarla, darle un carattere storico.
Dopo un periodo di stagnazione e di frustrazione, la questione israelo-palestinese sta per diventare di nuovo dinamica (e incandescente). A 64 anni dalla nascita dello Stato ebraico, il promesso, rifiutato, rivendicato, demonizzato, auspicato Stato palestinese da affiancargli è alla vigilia di un riconoscimento formale da parte della stragrande maggioranza della società internazionale espressa nell'Assemblea generale dell'Onu. Benché questo non significhi che lo Stato ripudiato o invocato stia diventando miracolosamente una realtà, la consacrazione formale segna una svolta non solo in Medio Oriente.
Ron Prozor, rispettato ed esperto ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha comunicato di recente una notizia sgradevole alla coalizione (di centro e di estrema destra) formata da Netanyahu, da Lieberman e da Barak, rispettivamente primo ministro, ministro degli Esteri e della Difesa, al governo a Tel Aviv. Con un telegramma segreto, rivelato dal quotidiano Haaretz, il diplomatico ha fatto sapere che Israele non aveva alcuna possibilità di impedire il riconoscimento dello Stato palestinese. Dopo sessanta e più incontri con i suoi colleghi del Palazzo di Vetro, Prozor ha concluso di poter contare unicamente sull'astensione di alcuni paesi (sui 193 rappresentati) o sull'assenza di altri. Soltanto una manciata di Stati voteranno contro la candidatura palestinese. Nell'Unione europea, secondo Prozor, gli unici sicuri sarebbero la Germania, l'Italia, i Paesi Bassi e la Repubblica ceca. La promozione a Stato della Palestina infliggerà una profonda ferita al governo di Israele.
Per il presidente degli Stati Uniti l'appuntamento del 20 settembre nel Palazzo di vetro di New York è un dilemma diplomatico lacerante. Opporsi a un gesto di autoderminazione dei palestinesi, dopo avere appoggiato apertamente i popoli arabi (in Tunisia, in Egitto e in Libia) a liberarsi dei loro raìs, non appare molto coerente. Ma Barack Obama deve fare i conti con i vecchi legami dell'America con Israele, con l'opposizione al Congresso che minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi, e anche con la convinzione che la via migliore per arrivare a uno Stato palestinese sia quella dei negoziati. In verità da tempo interrotti per il rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per la questione di Gerusalemme Est e per il rifiuto palestinese di riconoscere il carattere "ebraico" dello Stato di Israele (che finirebbe con l'escludere i cittadini musulmani di Israele).
Accusato di non essersi impegnato in tempo per disinnescare l'appuntamento del 20 settembre, Obama ha spedito d'urgenza i suoi inviati in tutte le direzioni: a Ramallah da Mahmud Abbas (detto Abu Mazen), a Gerusalemme da Benjamin Netanyahu, e in tante capitali mediorientali. L'opposizione americana al riconoscimento di uno Stato palestinese, o in tutti i casi i tentativi di limitarne la portata, rischiano di riaccendere l'antiamericanismo, finora del tutto assente dalle piazze tunisine, egiziane e libiche della "primavera araba".
Non sarà agevole convincere Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità Palestinese, a non presentare la candidatura, o ad alleggerirla al punto da limitarne il significato. Tuttavia la minaccia del Congresso americano di sospendere gli aiuti non può lasciarlo indifferente. La Cisgiordania vive un boom economico senza precedenti nei quarantaquattro anni di occupazione israeliana e le sovvenzioni provenienti dagli Stati Uniti vi hanno contribuito. Ma è difficile che Abbas possa rimangiarsi quel che i leader mediorientali hanno ormai acquisito come una parola d'ordine. Nabil el-Araby, segretario della Lega araba, sottolinea in queste ore l'ovvietà dell'iniziativa all'Assemblea generale dell'Onu; e Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, l'ex alleato in aperta polemica con Israele, insiste dicendo che il riconoscimento dello Stato palestinese "non è una scelta ma un obbligo".
Il voto dell'Assemblea generale darebbe alla Palestina lo status di osservatore permanente delle Nazioni Unite, come "Stato non membro". La stessa situazione del Vaticano. O per lunghi anni della Svizzera. Adesso la Palestina è una semplice "entità". Per diventare il 194esimo membro a pieno titolo dell'Onu essa avrebbe bisogno del voto del Consiglio di Sicurezza. Ma là l'aspetta il veto degli Stati Uniti. Ed è assai probabile che dopo il riconoscimento formale dell'Assemblea non si vada oltre. Anche se il presidente Abbas sostiene, con una calma non più tanto remissiva, che i palestinesi ricorreranno fino al Consiglio di Sicurezza per ottenere la piena appartenenza alle Nazioni Unite.
I vantaggi acquisiti dello Stato palestinese sarebbero comunque consistenti dopo il voto dell'Assemblea. Esso avrebbe ad esempio accesso alla Corte internazionale di Giustizia dell'Aja e a quella penale internazionale, con la facoltà di denunciare Israele per le sue eventuali azioni come forza di occupazione. E potrebbe usufruire delle istituzioni finanziarie, economiche e commerciali. Potrebbe soprattutto esigere di trattare alla pari con lo Stato di Israele, non più nel quadro del Quartetto (Usa, Russia, Europa, Onu), ma in quello dell'Onu e sulla base delle risoluzioni. Sempre ammesso che Israele accetti le regole imposte dal nuovo status della Palestina. Già traumatizzata dai cambiamenti provocati dalla "primavera araba" in Egitto, e dall'accresciuta ostilità della Turchia, non più alleata, la società israeliana risentirà ancor più l'isolamento, dopo il probabile voto all'Assemblea generale che gli Stati Uniti cercano in queste ore di scongiurare. La rinuncia alla candidatura, imposta o ottenuta dagli Stati Uniti, provocherebbe in tutti i modi reazioni in molte capitali del Medio Oriente. Lo stesso riconoscimento incompleto o puramente formale dell'Assemblea generale potrebbe non bastare alle piazze arabe, le quali potrebbero esigere il voto decisivo del Consiglio di Sicurezza.
Le forze centrifughe e la storia hanno frantumato negli anni la Palestina in cinque zone o entità. La prima dell'elenco può essere Gaza, abitata da un milione di uomini e donne che vivono come in un limbo rispetto al resto dei palestinesi. Un limbo non facile, sotto l'autorità intollerante di Hamas, e in una società più islamista, più tradizionalista ed esclusa dal crescente benessere di cui gode la Cisgordania. Isolata, Gaza è rivolta all'Egitto. Seconda zona o entità la West Bank, la Cisgiordania. Là vivono due milioni e seicentomila palestinesi, governati dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), oggetto di indulgenza da parte di Israele, i cui soldati occupano una larga porzione del territorio. Una certa sicurezza e un evidente progresso economico hanno creato una stabilità che ha favorito uno status quo, da non pochi osservatori definito prerivoluzionario. Pur godendo di una situazione favorevole rispetto a quella dei connazionali di Gaza, i palestinesi della West Bank non si sentono garantiti da uno stato di diritto. Restano cittadini sotto un'occupazione straniera e non nutrono grande fiducia nei loro corrotti amministratori dell'Olp.
La terza entità palestinese vive a Gerusalemme Est e conta trecentomila uomini e donne. Circa il 38 per cento della popolazione. Gli abitanti non sono cittadini israeliani, ma residenti permanenti costretti a temere notte e giorno la perdita del diritto di residenza. Le barriere imposte nella vita quotidiana aumentano il senso di precarietà. Essi pagano le tasse allo Stato israeliano e usufruiscono, in tono minore, dei diritti all'assistenza sanitaria e alla scuola. In questo sono favoriti rispetto ai palestinesi della West Bank. La quarta entità è la più numerosa. Conta cinque milioni di uomini e donne registrati come profughi. Vivono in cinquantotto campi, diventati grossi borghi, in Giordania, in Siria, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Sognano il ritorno in una patria che non c'è più o che è stata dimezzata. Il riconoscimento formale dello Stato palestinese riaccenderà molte speranze.
La quinta e ultima entità palestinese conta un milione e trecentomila persone, con la nazionalità israeliana. Come creare un comun denominatore di interessi e di aspirazioni in un popolo frantumato e represso resta un problema. Ma certo la nascita di uno Stato formalmente riconosciuto susciterà emozioni e rianimerà progetti e ideali.
Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI
di BERNARDO VALLI
Il simbolo della campagna per il riconoscimento all'Onu dello Stato di Palestina
Tra cinque giorni, il 20 settembre, sarà presentata alle Nazioni Unite la candidatura della Palestina come Stato indipendente. L'incertezza sussiste, poiché in queste ore sono in corso frenetiche azioni diplomatiche. C'è chi tenta di impedire (o edulcorare) l'iniziativa; e chi al contrario vuole solennizzarla, darle un carattere storico.
Dopo un periodo di stagnazione e di frustrazione, la questione israelo-palestinese sta per diventare di nuovo dinamica (e incandescente). A 64 anni dalla nascita dello Stato ebraico, il promesso, rifiutato, rivendicato, demonizzato, auspicato Stato palestinese da affiancargli è alla vigilia di un riconoscimento formale da parte della stragrande maggioranza della società internazionale espressa nell'Assemblea generale dell'Onu. Benché questo non significhi che lo Stato ripudiato o invocato stia diventando miracolosamente una realtà, la consacrazione formale segna una svolta non solo in Medio Oriente.
Ron Prozor, rispettato ed esperto ambasciatore di Israele presso le Nazioni Unite, ha comunicato di recente una notizia sgradevole alla coalizione (di centro e di estrema destra) formata da Netanyahu, da Lieberman e da Barak, rispettivamente primo ministro, ministro degli Esteri e della Difesa, al governo a Tel Aviv. Con un telegramma segreto, rivelato dal quotidiano Haaretz, il diplomatico ha fatto sapere che Israele non aveva alcuna possibilità di impedire il riconoscimento dello Stato palestinese. Dopo sessanta e più incontri con i suoi colleghi del Palazzo di Vetro, Prozor ha concluso di poter contare unicamente sull'astensione di alcuni paesi (sui 193 rappresentati) o sull'assenza di altri. Soltanto una manciata di Stati voteranno contro la candidatura palestinese. Nell'Unione europea, secondo Prozor, gli unici sicuri sarebbero la Germania, l'Italia, i Paesi Bassi e la Repubblica ceca. La promozione a Stato della Palestina infliggerà una profonda ferita al governo di Israele.
Per il presidente degli Stati Uniti l'appuntamento del 20 settembre nel Palazzo di vetro di New York è un dilemma diplomatico lacerante. Opporsi a un gesto di autoderminazione dei palestinesi, dopo avere appoggiato apertamente i popoli arabi (in Tunisia, in Egitto e in Libia) a liberarsi dei loro raìs, non appare molto coerente. Ma Barack Obama deve fare i conti con i vecchi legami dell'America con Israele, con l'opposizione al Congresso che minaccia di tagliare gli aiuti ai palestinesi, e anche con la convinzione che la via migliore per arrivare a uno Stato palestinese sia quella dei negoziati. In verità da tempo interrotti per il rifiuto israeliano di congelare gli insediamenti di coloni in Cisgiordania, per la questione di Gerusalemme Est e per il rifiuto palestinese di riconoscere il carattere "ebraico" dello Stato di Israele (che finirebbe con l'escludere i cittadini musulmani di Israele).
Accusato di non essersi impegnato in tempo per disinnescare l'appuntamento del 20 settembre, Obama ha spedito d'urgenza i suoi inviati in tutte le direzioni: a Ramallah da Mahmud Abbas (detto Abu Mazen), a Gerusalemme da Benjamin Netanyahu, e in tante capitali mediorientali. L'opposizione americana al riconoscimento di uno Stato palestinese, o in tutti i casi i tentativi di limitarne la portata, rischiano di riaccendere l'antiamericanismo, finora del tutto assente dalle piazze tunisine, egiziane e libiche della "primavera araba".
Non sarà agevole convincere Mahmud Abbas, presidente dell'Autorità Palestinese, a non presentare la candidatura, o ad alleggerirla al punto da limitarne il significato. Tuttavia la minaccia del Congresso americano di sospendere gli aiuti non può lasciarlo indifferente. La Cisgiordania vive un boom economico senza precedenti nei quarantaquattro anni di occupazione israeliana e le sovvenzioni provenienti dagli Stati Uniti vi hanno contribuito. Ma è difficile che Abbas possa rimangiarsi quel che i leader mediorientali hanno ormai acquisito come una parola d'ordine. Nabil el-Araby, segretario della Lega araba, sottolinea in queste ore l'ovvietà dell'iniziativa all'Assemblea generale dell'Onu; e Recep Tayyip Erdogan, il primo ministro turco, l'ex alleato in aperta polemica con Israele, insiste dicendo che il riconoscimento dello Stato palestinese "non è una scelta ma un obbligo".
Il voto dell'Assemblea generale darebbe alla Palestina lo status di osservatore permanente delle Nazioni Unite, come "Stato non membro". La stessa situazione del Vaticano. O per lunghi anni della Svizzera. Adesso la Palestina è una semplice "entità". Per diventare il 194esimo membro a pieno titolo dell'Onu essa avrebbe bisogno del voto del Consiglio di Sicurezza. Ma là l'aspetta il veto degli Stati Uniti. Ed è assai probabile che dopo il riconoscimento formale dell'Assemblea non si vada oltre. Anche se il presidente Abbas sostiene, con una calma non più tanto remissiva, che i palestinesi ricorreranno fino al Consiglio di Sicurezza per ottenere la piena appartenenza alle Nazioni Unite.
I vantaggi acquisiti dello Stato palestinese sarebbero comunque consistenti dopo il voto dell'Assemblea. Esso avrebbe ad esempio accesso alla Corte internazionale di Giustizia dell'Aja e a quella penale internazionale, con la facoltà di denunciare Israele per le sue eventuali azioni come forza di occupazione. E potrebbe usufruire delle istituzioni finanziarie, economiche e commerciali. Potrebbe soprattutto esigere di trattare alla pari con lo Stato di Israele, non più nel quadro del Quartetto (Usa, Russia, Europa, Onu), ma in quello dell'Onu e sulla base delle risoluzioni. Sempre ammesso che Israele accetti le regole imposte dal nuovo status della Palestina. Già traumatizzata dai cambiamenti provocati dalla "primavera araba" in Egitto, e dall'accresciuta ostilità della Turchia, non più alleata, la società israeliana risentirà ancor più l'isolamento, dopo il probabile voto all'Assemblea generale che gli Stati Uniti cercano in queste ore di scongiurare. La rinuncia alla candidatura, imposta o ottenuta dagli Stati Uniti, provocherebbe in tutti i modi reazioni in molte capitali del Medio Oriente. Lo stesso riconoscimento incompleto o puramente formale dell'Assemblea generale potrebbe non bastare alle piazze arabe, le quali potrebbero esigere il voto decisivo del Consiglio di Sicurezza.
Le forze centrifughe e la storia hanno frantumato negli anni la Palestina in cinque zone o entità. La prima dell'elenco può essere Gaza, abitata da un milione di uomini e donne che vivono come in un limbo rispetto al resto dei palestinesi. Un limbo non facile, sotto l'autorità intollerante di Hamas, e in una società più islamista, più tradizionalista ed esclusa dal crescente benessere di cui gode la Cisgordania. Isolata, Gaza è rivolta all'Egitto. Seconda zona o entità la West Bank, la Cisgiordania. Là vivono due milioni e seicentomila palestinesi, governati dall'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), oggetto di indulgenza da parte di Israele, i cui soldati occupano una larga porzione del territorio. Una certa sicurezza e un evidente progresso economico hanno creato una stabilità che ha favorito uno status quo, da non pochi osservatori definito prerivoluzionario. Pur godendo di una situazione favorevole rispetto a quella dei connazionali di Gaza, i palestinesi della West Bank non si sentono garantiti da uno stato di diritto. Restano cittadini sotto un'occupazione straniera e non nutrono grande fiducia nei loro corrotti amministratori dell'Olp.
La terza entità palestinese vive a Gerusalemme Est e conta trecentomila uomini e donne. Circa il 38 per cento della popolazione. Gli abitanti non sono cittadini israeliani, ma residenti permanenti costretti a temere notte e giorno la perdita del diritto di residenza. Le barriere imposte nella vita quotidiana aumentano il senso di precarietà. Essi pagano le tasse allo Stato israeliano e usufruiscono, in tono minore, dei diritti all'assistenza sanitaria e alla scuola. In questo sono favoriti rispetto ai palestinesi della West Bank. La quarta entità è la più numerosa. Conta cinque milioni di uomini e donne registrati come profughi. Vivono in cinquantotto campi, diventati grossi borghi, in Giordania, in Siria, in Libano, nella West Bank e a Gaza. Sognano il ritorno in una patria che non c'è più o che è stata dimezzata. Il riconoscimento formale dello Stato palestinese riaccenderà molte speranze.
La quinta e ultima entità palestinese conta un milione e trecentomila persone, con la nazionalità israeliana. Come creare un comun denominatore di interessi e di aspirazioni in un popolo frantumato e represso resta un problema. Ma certo la nascita di uno Stato formalmente riconosciuto susciterà emozioni e rianimerà progetti e ideali.
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Rassegna stampa
Chrysler, niente accordo sul contratto, Marchionne attacca il sindacato
Da "Repubblica" del 15/09/2011
DETROIT - Il sindacato Uaw, che rappresenta i lavoratori Usa del settore auto, ha prorogato la durata dei suoi contratti con la General Motors e la Chrysler - che riguardano circa 71mila lavoratori statunitensi - dopo che non era stato raggiunto un accordo entro la scadenza della mezzanotte di New York.
In una dura lettera inviata al presidente della Uaw, Bob King, l'amministratore delegato della Chrysler, Sergio Marchionne - riporta il New York Times - ha stigmatizzato il fatto che il sindacalista abbia passato la giornata in trattative con la Gm piuttosto che con la Chrysler dopo che lo stesso top manager italo-canadese era appositamente tornato negli Usa 1 interrompendo l'impegno "istituzionale" al Salone dell'auto di Francoforte. L'accusa al leader dell'Uaw è di non aver mantenuto gli impegni e di non tenere nella giusta considerazione i 26mila dipendenti della Chrysler.
"Sono giunto tardi la scorsa notte da Francoforte - si legge nella lettera pubblicata dal New York Times - per essere qui oggi e perfezionare il dialogo che era stato intrapreso dalle nostre squadre, ma ciò richiedeva la sua presenza e la mia per concludere. Sfortunatamente - scrive Marchionne a King - lei non poteva essere qui, mi dicono, per impegni concorrenti". Marchionne considera un fallimento il non essere riusciti a chiudere il contratto entro la scadenza e si dice disposto a prorogare di una settimana il contratto esistente, per appianare tutte le divergenze, a cominciare da quelle sugli aspetti economici.
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In una dura lettera inviata al presidente della Uaw, Bob King, l'amministratore delegato della Chrysler, Sergio Marchionne - riporta il New York Times - ha stigmatizzato il fatto che il sindacalista abbia passato la giornata in trattative con la Gm piuttosto che con la Chrysler dopo che lo stesso top manager italo-canadese era appositamente tornato negli Usa 1 interrompendo l'impegno "istituzionale" al Salone dell'auto di Francoforte. L'accusa al leader dell'Uaw è di non aver mantenuto gli impegni e di non tenere nella giusta considerazione i 26mila dipendenti della Chrysler.
"Sono giunto tardi la scorsa notte da Francoforte - si legge nella lettera pubblicata dal New York Times - per essere qui oggi e perfezionare il dialogo che era stato intrapreso dalle nostre squadre, ma ciò richiedeva la sua presenza e la mia per concludere. Sfortunatamente - scrive Marchionne a King - lei non poteva essere qui, mi dicono, per impegni concorrenti". Marchionne considera un fallimento il non essere riusciti a chiudere il contratto entro la scadenza e si dice disposto a prorogare di una settimana il contratto esistente, per appianare tutte le divergenze, a cominciare da quelle sugli aspetti economici.
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Libellés :
Chrysler,
Fiat,
marchionne,
sindacato
Rassegna stampa:
"Marchionne ringrazia, articolo 8, quello che ci serviva"
Da "Il Manifesto", 17/09/2011
«Quello che ci serviva ci è stato dato». L'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne incassa quel che di peggio il governo ha fatto nella manovra, l'articolo 8 che fa saltare il contratto nazionale di lavoro, e lo rivendica senza peli sulla lingua. «La mossa che è stata fatta adesso dal ministro Sacconi - dice Marchionne al Salone dell'auto di Francoforte - con l'articolo 8 è importantissima e comincerà a dare non solo alla Fiat, ma a tutti quelli che vogliono investire in Italia la certezza che consente di gestire».
«La manovra di Sacconi ha risolto tantissimi problemi» ed «è di una chiarezza bestiale: se la maggioranza dei lavoratori è d'accordo con una proposta questa va avanti, così riusciamo a gestire qualcosa».
L'ad della Fiat non fa prigionieri, considerando che la manovra è stata pesantemente criticata non solo dall'opposizione, ma anche dalla Confindustria di cui il presidente della Fiat John Elkann è vicepresidente. Marchionne se ne sbatte di tutto e di tutti e la controprova è quanto sta accadendo dall'altra parte dell'Atlantico nella trattativa fra il sindacato dei metalmeccanici Uaw con la sua Chrysler, oltre che con General Motors e Ford. A Detroit, il contratto nazionale scade oggi, non è derogabile per legge perché l'amministrazione Obama non è il governo Berlusconi e va rinnovato entro la mezzanotte di mercoledì (ore 6 di giovedì in Italia). «Non è concluso e non ho un contratto ancora. Non siamo vicini», ha confermato ieri Marchionne, evidenziando lo scontro in atto, in particolare nella Chrysler da lui controllata. Perché il sindacato chiede un aumento di 2 dollari l'ora per gli operai assunti dopo la bancarotta del 2009 che, a parità di lavoro, oggi guadagnano la metà dei loro colleghi con più anzianità di servizio. Questa e altre concessioni (come la rinuncia allo sciopero fino al 2014) erano state firmate da Uaw perché Marchionne potesse provare a salvare la Chrysler. Ora che le cose vanno meglio, il sindacato vorrebbe un segnale da parte dell'azienda, ma il muro è più alto proprio nella Chrysler, dove i neoassunti sono molti.
Il plauso di Marchionne alla manovra e al suo ministro Sacconi hanno spinto il segretario della Fiom, Maurizio Landini, a chiedere al Presidente della repubblica di non firmare questo atto. «L'art. 8 della Finanziaria è un attentato ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori perché consente ai contratti aziendali o territoriali di derogare ai Ccnl e alle leggi», accusa Landini, «è un tentativo eversivo di sconvolgimento del diritto del lavoro e della nostra Costituzione. Presenta anche diversi aspetti di incostituzionalità e per questo è necessario che venga stralciato e non sia convertito in legge». Poi l'appello al Quirinale: «Ci rivolgiamo al Presidente della repubblica affinché, in quanto garante della nostra Carta Costituzionale, non firmi una legge in contrasto con i principi costituzionali».
«L'articolo 8 della manovra è dichiaratamente incostituzionale e rappresenta un palese attacco ai diritti dei lavoratori. È grave, quindi, che Marchionne lo esalti in questa maniera. Quando parla della 'chiarezza bestiale dell'operazione fatta dal governò, l'amministratore delegato della Fiat evidentemente non sa che tutti gli accordi interconfederali dal 2008 ad oggi e tutti i contratti nazionali firmati dal ministro Sacconi, da cui derivano quelli di Mirafiori e Pomigliano, non sono stati votati dai lavoratori», rilancia il responsabile lavoro e welfare dell'Idv, Maurizio Zipponi.
Accusa il senatore Pd, Achille Passoni: «Ha ragione Marchionne: l'articolo 8 è di una chiarezza bestiale - commenta il senatore componente della Commissione lavoro - . Così come ha ragione a ringraziare il governo per la 'marchetta' ricevuta con quella norma. Purtroppo per i lavoratori, che si vedono messi in discussione e forse cancellati diritti giuridicamente acquisiti e tutele sancite in contratti collettivi, e per la stragrande maggioranza delle imprese che vogliono competere in un quadro di regole certe e valide per tutte e non in una situazione di possibile dumping industriale, la realtà non è quella descritta dall'ad di Fiat».
Il link all'articolo originale è disponibile cliccando QUI
«La manovra di Sacconi ha risolto tantissimi problemi» ed «è di una chiarezza bestiale: se la maggioranza dei lavoratori è d'accordo con una proposta questa va avanti, così riusciamo a gestire qualcosa».
L'ad della Fiat non fa prigionieri, considerando che la manovra è stata pesantemente criticata non solo dall'opposizione, ma anche dalla Confindustria di cui il presidente della Fiat John Elkann è vicepresidente. Marchionne se ne sbatte di tutto e di tutti e la controprova è quanto sta accadendo dall'altra parte dell'Atlantico nella trattativa fra il sindacato dei metalmeccanici Uaw con la sua Chrysler, oltre che con General Motors e Ford. A Detroit, il contratto nazionale scade oggi, non è derogabile per legge perché l'amministrazione Obama non è il governo Berlusconi e va rinnovato entro la mezzanotte di mercoledì (ore 6 di giovedì in Italia). «Non è concluso e non ho un contratto ancora. Non siamo vicini», ha confermato ieri Marchionne, evidenziando lo scontro in atto, in particolare nella Chrysler da lui controllata. Perché il sindacato chiede un aumento di 2 dollari l'ora per gli operai assunti dopo la bancarotta del 2009 che, a parità di lavoro, oggi guadagnano la metà dei loro colleghi con più anzianità di servizio. Questa e altre concessioni (come la rinuncia allo sciopero fino al 2014) erano state firmate da Uaw perché Marchionne potesse provare a salvare la Chrysler. Ora che le cose vanno meglio, il sindacato vorrebbe un segnale da parte dell'azienda, ma il muro è più alto proprio nella Chrysler, dove i neoassunti sono molti.
Il plauso di Marchionne alla manovra e al suo ministro Sacconi hanno spinto il segretario della Fiom, Maurizio Landini, a chiedere al Presidente della repubblica di non firmare questo atto. «L'art. 8 della Finanziaria è un attentato ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori perché consente ai contratti aziendali o territoriali di derogare ai Ccnl e alle leggi», accusa Landini, «è un tentativo eversivo di sconvolgimento del diritto del lavoro e della nostra Costituzione. Presenta anche diversi aspetti di incostituzionalità e per questo è necessario che venga stralciato e non sia convertito in legge». Poi l'appello al Quirinale: «Ci rivolgiamo al Presidente della repubblica affinché, in quanto garante della nostra Carta Costituzionale, non firmi una legge in contrasto con i principi costituzionali».
«L'articolo 8 della manovra è dichiaratamente incostituzionale e rappresenta un palese attacco ai diritti dei lavoratori. È grave, quindi, che Marchionne lo esalti in questa maniera. Quando parla della 'chiarezza bestiale dell'operazione fatta dal governò, l'amministratore delegato della Fiat evidentemente non sa che tutti gli accordi interconfederali dal 2008 ad oggi e tutti i contratti nazionali firmati dal ministro Sacconi, da cui derivano quelli di Mirafiori e Pomigliano, non sono stati votati dai lavoratori», rilancia il responsabile lavoro e welfare dell'Idv, Maurizio Zipponi.
Accusa il senatore Pd, Achille Passoni: «Ha ragione Marchionne: l'articolo 8 è di una chiarezza bestiale - commenta il senatore componente della Commissione lavoro - . Così come ha ragione a ringraziare il governo per la 'marchetta' ricevuta con quella norma. Purtroppo per i lavoratori, che si vedono messi in discussione e forse cancellati diritti giuridicamente acquisiti e tutele sancite in contratti collettivi, e per la stragrande maggioranza delle imprese che vogliono competere in un quadro di regole certe e valide per tutte e non in una situazione di possibile dumping industriale, la realtà non è quella descritta dall'ad di Fiat».
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Napoleoni: "Dal crollo dell'economia nasce una rivolta che cambierà il mondo
Da "Il fatto quotidiano" del 14/09/2011
L'economista torna in libreria con "Il Contagio", un saggio che prende le mosse dagli effetti della crisi mondiale per spiegare la rivolta sociale che ha acceso le piazze arabe ed europee. Un movimento che vola grazie alla forza di Internet e dei social network Dagli indignados di Madrid e Barcellona alle “primavere” di piazza Tahrir al Cairo e della kasbah di Tunisi fino al movimento che in Italia ha portato alla vittoria dei Sì ai referendum di giugno. C’è un filo rosso che collega l’ondata di proteste che ha coinvolto le giovani generazioni delle due sponde del Mediterraneo: un rinnovato impegno civile e la critica radicale alle leadership, democratiche e non, al potere in quei paesi. Ne è convinta Loretta Napoleoni, saggista, docente ed esperta di economia, che in questi giorni torna in libreria con “Il Contagio. Perché la crisi economica rivoluzionerà le nostre economie”.
Secondo la scrittrice, la miccia che ha acceso le recenti sollevazioni popolari è proprio la crisi. “Le rivolte che hanno interessato i paesi nordafricani sono prima di tutto economiche – sostiene Napoleoni – I cittadini hanno rovesciato quei regimi che da una parte vivevano solo di repressione e dall’altra erano incapaci di dare le risposte adeguate all’impoverimento della popolazione”. Casa, lavoro e libertà al posto di disoccupazione, precariato e corruzione: secondo la saggista, i giovani dei paesi che si affacciano sul mare nostrum non sono più disposti a essere le vittime delle misure di austerità messe in campo per fronteggiare la situazione economica. E le violente proteste che hanno accompagnato i piani di risanamento della Grecia imposti dalle istituzioni internazionali sono la dimostrazione più lampante.
Da nord a sud la parola d’ordine è “riprendiamoci la democrazia”. Che nei paesi come Egitto e Tunisia significa in primo luogo rovesciare governi non democratici, mentre in Europa vuole dire farla finita con una classe politica giudicata corrotta e inadeguata di fronte alla crisi dell’euro. Una presa di coscienza globale come il crollo dell’economia, trainata soprattutto dalla diffusione massiccia di Internet e del web 2.0. Sì perché è grazie a Facebook, Youtube e soprattutto Twitter che i giovani in lotta contro le oligarchie al potere sono riusciti a comunicare fra loro e verso l’esterno le loro rivendicazioni. “Ecco il senso del ‘contagio’ – spiega l’economista – La Rete ha avviato ed è stata catalizzatrice di una rivoluzione culturale senza precedenti che ben presto è diventata rivolta sociale”. E’ stata la diffusione capillare di Internet il principale strumento di “empowerment” della società civile mondiale. “Ciò che ha sconvolto il mondo nell’ultima decade non è il terrorismo né lo scontro fra civiltà. E’ la Rete”, spiega la docente che aggiunge come il processo in corso sia destinato a crescere: “Se oggi il caso della caduta del tycoon Murdoch è emblematico, fra 10 anni un personaggio come Berlusconi non potrà mai prendere piede”.
Il punto però è quale sarà la situazione fra 10 anni. Un problema che riguarda più che altro la sponda nord del Mediterraneo e in particolare l’Italia. “Il pericolo è che quello che è accaduto nei paesi arabi si verifichi anche da noi”, avverte Napoleoni che fa notare come il welfare di cui godono le giovani generazioni sia in gran parte rappresentato dalla famiglia e non dallo Stato. “Ma cosa succederà quando gli stipendi e le pensioni di noi genitori non saranno più in grado di sostenere i nostri figli?”, si chiede la scrittrice. La risposta è che allora non ci sarà più molta differenza fra gli italiani e le popolazioni del sud del Mondo.
Ma se sullo sfondo del crack dell’economia si è innestata una rivolta “contagiosa”, la stessa forza dirompente può arrivare anche a produrre nuovi modelli economici e innovativi stili di vita. Un fenomeno che in parte è già realtà. E’ quella che Napoleoni chiama Pop economy, uno choc destinato a ridisegnare i comportamenti dei cittadini del nord del mondo. Le parole che descrivono questo nuovo approccio sono spesso mutuate dal linguaggio di Internet: co-housing (condivisione con altri condomini di alcuni elementi della vita familiare: dalla lavanderia alla cura dei bambini), bike e car sharing, i Gas, gruppi di acquisto collettivo direttamente dagli allevatori e coltivatori della zona in cui si vive. Un’economia partecipata e a basso impatto che potrebbe diventare lo stile di vita di una generazione che è stata relegata al di fuori dei modelli economici classici. Al posto del mantra della crescita a tutti i costi, del consumo sfrenato e dell’incubo del default, secondo Napoleoni, si sta facendo largo un approccio diverso che trova nei concetti di libertà, partecipazione e condivisione le proprie parole d’ordine. Tutti principi che prendono forma, ancora una volta, grazie a Internet e in particolare al web 2.0.
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Secondo la scrittrice, la miccia che ha acceso le recenti sollevazioni popolari è proprio la crisi. “Le rivolte che hanno interessato i paesi nordafricani sono prima di tutto economiche – sostiene Napoleoni – I cittadini hanno rovesciato quei regimi che da una parte vivevano solo di repressione e dall’altra erano incapaci di dare le risposte adeguate all’impoverimento della popolazione”. Casa, lavoro e libertà al posto di disoccupazione, precariato e corruzione: secondo la saggista, i giovani dei paesi che si affacciano sul mare nostrum non sono più disposti a essere le vittime delle misure di austerità messe in campo per fronteggiare la situazione economica. E le violente proteste che hanno accompagnato i piani di risanamento della Grecia imposti dalle istituzioni internazionali sono la dimostrazione più lampante.
Da nord a sud la parola d’ordine è “riprendiamoci la democrazia”. Che nei paesi come Egitto e Tunisia significa in primo luogo rovesciare governi non democratici, mentre in Europa vuole dire farla finita con una classe politica giudicata corrotta e inadeguata di fronte alla crisi dell’euro. Una presa di coscienza globale come il crollo dell’economia, trainata soprattutto dalla diffusione massiccia di Internet e del web 2.0. Sì perché è grazie a Facebook, Youtube e soprattutto Twitter che i giovani in lotta contro le oligarchie al potere sono riusciti a comunicare fra loro e verso l’esterno le loro rivendicazioni. “Ecco il senso del ‘contagio’ – spiega l’economista – La Rete ha avviato ed è stata catalizzatrice di una rivoluzione culturale senza precedenti che ben presto è diventata rivolta sociale”. E’ stata la diffusione capillare di Internet il principale strumento di “empowerment” della società civile mondiale. “Ciò che ha sconvolto il mondo nell’ultima decade non è il terrorismo né lo scontro fra civiltà. E’ la Rete”, spiega la docente che aggiunge come il processo in corso sia destinato a crescere: “Se oggi il caso della caduta del tycoon Murdoch è emblematico, fra 10 anni un personaggio come Berlusconi non potrà mai prendere piede”.
Il punto però è quale sarà la situazione fra 10 anni. Un problema che riguarda più che altro la sponda nord del Mediterraneo e in particolare l’Italia. “Il pericolo è che quello che è accaduto nei paesi arabi si verifichi anche da noi”, avverte Napoleoni che fa notare come il welfare di cui godono le giovani generazioni sia in gran parte rappresentato dalla famiglia e non dallo Stato. “Ma cosa succederà quando gli stipendi e le pensioni di noi genitori non saranno più in grado di sostenere i nostri figli?”, si chiede la scrittrice. La risposta è che allora non ci sarà più molta differenza fra gli italiani e le popolazioni del sud del Mondo.
Ma se sullo sfondo del crack dell’economia si è innestata una rivolta “contagiosa”, la stessa forza dirompente può arrivare anche a produrre nuovi modelli economici e innovativi stili di vita. Un fenomeno che in parte è già realtà. E’ quella che Napoleoni chiama Pop economy, uno choc destinato a ridisegnare i comportamenti dei cittadini del nord del mondo. Le parole che descrivono questo nuovo approccio sono spesso mutuate dal linguaggio di Internet: co-housing (condivisione con altri condomini di alcuni elementi della vita familiare: dalla lavanderia alla cura dei bambini), bike e car sharing, i Gas, gruppi di acquisto collettivo direttamente dagli allevatori e coltivatori della zona in cui si vive. Un’economia partecipata e a basso impatto che potrebbe diventare lo stile di vita di una generazione che è stata relegata al di fuori dei modelli economici classici. Al posto del mantra della crescita a tutti i costi, del consumo sfrenato e dell’incubo del default, secondo Napoleoni, si sta facendo largo un approccio diverso che trova nei concetti di libertà, partecipazione e condivisione le proprie parole d’ordine. Tutti principi che prendono forma, ancora una volta, grazie a Internet e in particolare al web 2.0.
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