lunedì 25 aprile 2011

25 aprile 2011: cosa significa per noi la Resistenza, oggi


ORA E SEMPRE RESISTENZA!

25 aprile 1945 l’Italia viene liberata! Liberata da chi? Due sono le risposte: liberata dall’occupazione
nazi-fascista che l’aveva messa a ferro e fuoco e liberata per merito dei partigiani. Certo c’erano
anche gli alleati ma se avete tempo guardatevi il video-documentario “Bandite” e sentirete che le
partigiane ripetono la stessa cosa: “l’Italia l’abbiamo liberata noi”.

E chi erano queste donne? Direi che per lo meno erano donne con molto coraggio che trasportavano
materiale esplosivo, munizioni, pistole, messaggi da una base partigiana ad un’altra passando di
fronte alle temute milizie naziste e fasciste. Cosa rischiavano? La vita, la tortura, la violenza sessuale.
Rischiavano di finire nei bordelli nazisti.

Ma c’erano anche partigiane che impugnavano le armi e salivano in montagna tra la paura, il freddo,
la fame.

Una di queste partigiane porta un nome che mi ha colpita: Walkiria. Questo e’ il suo nome vero,
quello con cui e’ registrata all’anagrafe.

Walkiria divenne comandante della sua formazione. Nel documentario “Bandite” racconta di
una sua missione quando, con un compagno, fece saltare un ponte. Suscita profonda simpatia e
ammirazione. Racconta del botto che l’esplosione provoco’ e del fracasso che i pietroni scatenarono
quando, dopo un lungo volo verso il cielo, caddero a terra con violenza. A sentirla parlare sembra
che sia una donna senza paure, energica, coraggiosa, forte. Poi, pero’, ammette che la paura e’ stata
una compagna di tutti quei mesi, insieme al freddo e alla fame.

In tutte le partigiane protagoniste di “Bandite” si scorge una normalita’ che da una dimensione
tremendamente umana alla lora scelta di unirsi alla Resistenza. Quasi che fosse normale, ovvio,
scontato dovervi far parte per consegnare a loro stesse e alle generazioni future un avvenire diverso,
piu’ giusto e di liberta’. Un futuro che non fosse MAI PIU’ fatto di guerre.

Rossana Rossanda nella sua biografia dice che avevano tante speranze e credevano di avere il futuro
in mano dopo la Liberazione. C’era entusiasmo, voglia di fare, di costruire una societa’ finalmente
giusta. L’aria che si respirava era fresca e faceva immaginare a un avvenire splendente.

Purtroppo la storia e’ andata in un altro modo ma loro, le partigiane, la loro parte l’hanno fatta
quando si e’ trattato di decidere e di battersi per una societa’ diversa.

Il testimone l’hanno gia’ passato a noi che rappresentiamo le nuove generazioni. Ne saremo
all’altezza?

VIVA L’ITALIA , VIVA LA RESISTENZA E VIVA LA FESTA DELLA LIBERAZIONE!

Carla Gagliardini


LA RESISTENZA DELLA GIUSTIZIA

Il mio pensiero in questo giorno va ai giudici e magistrati che hanno difeso (anche a costo della vita)  e continuano a difendere quel senso dello Stato cosí alto da voler essere abbattutto con tutti i mezzi oggi, da chi ci governa.
A tutti quegli uomini, eroi loro malgrado, che per me rappresentano una vera Resistenza contemporanea. Falciati non da un nemico esterno, bensí dall'interno; nel migliore dei casi nell'abbandono, nell'indifferenza, quando non nell'aperta ostilità e disprezzo da parte di quelle Istituzioni che pure dovrebbero tutelarne l'opera, la libertà, l'indipendenza.
Vittime ogni giorno di un nuovo massacro morale, di un tentativo di seppellimento in odierne Fosse Ardeatine fatte di smantellamento minuzioso della Costituzione e stravolgimento di ogni principio democratico, spazzato via da un uso del potere che equivale ad una scarica di M50.
Non era certo questa l'Italia che sognava di lasciarci in eredità chi, in quell'ancora vicinissimo 25 aprile del 1945, guardò il Paese con occhi finalmente liberi.
Dalle vittime del terrorismo nero o rosso che fosse, a quelle delle mafie, da Occorsio a Palma ad Alessandrini a Bachelet; da Chinnici a Livatino, Falcone, Borsellino...sono solo alcuni. A loro, alle loro famiglie e a tutti i "resistenti" di questa nostra giustizia italiana fatta a brandelli, un grazie oggi.

Monica Bedana

A RESISTERE!

La mia dedica per la giornata del 25 aprile va a tutti gli onesti Italiani che continuano a resistere resistere resistere!
A Resistere alle ingiustizie che vedono o subiscono ogni giorno.
A Resistere al meretricio intellettuale e morale al quale si assiste quotidianamente.
A Resistere alle disagiate condizioni lavorative ed economiche pur mantenedo grande dignita'.
A tutti coloro che nella resistenza al degrado politico ed intellettuale trovano forza e ardore , a loro dedico il 25 aprile 2011.

Gaetano Ciaravella
25 Aprile
In occasione della Festa della Liberazione dell’Italia dal regime nazifascista vi invitiamo ad intervenire nel nostro Blog, proponendo contributi sotto forma di articoli, analisi o semplici pensieri, per aprire una riflessione aperta e condivisa su temi, ideali e pratiche della Resistenza e della Democrazia.

Il confronto costante con l’attualità e la cronaca della politica in Italia rinnovano quotidianamente la necessità dell’impegno per ciascun cittadino italiano libero, che fondi la sua identità sui valori della Costituzione, che in questa data fatidica ha avuto la sua lontana e simbolica origine. L’impegno (che è insieme diritto e dovere) è quello di formulare un giudizio e di consolidare una posizione, che sia il più possibile critica e costruttiva, che crei cioè i presupposti di un’alternativa all’anomalia dell’antipolitica, al dispregio della Democrazia, della Giustizia e dei valori della Costituzione.

I diciottenni di oggi sono quelli nati nel 1993, anno della fondazione di Forza Italia e dell’avvio dell’era di Berlusconi in politica. Questa coincidenza ci pare cruciale perché lascia intendere che molti cittadini, “adulti” oggi, non hanno conosciuto la politica al potere se non nella sua forma spettacolarizzata, personalistica e insidiosa. Una politica che è riuscita a mettere l’uno contro l’altro i poteri fondamentali dello Stato, che ha inasprito lo scontro sociale e che, fornendo costantemente, per mero uso propagandistico, un’inaccettabile, perché falsificata, versione della realtà economico-sociale del Paese, ha polarizzato a livello parossistico e irreversibile il dibattito fra gli schieramenti. Inoltre la pervasività dei mezzi di comunicazione unita alla loro mancanza di indipendenza (e quindi di obiettività) ribadisce come urgente e capillare una battaglia culturale che restituisca ai giovani la capacità di intercettare tale anomalia, e possa offrire, a tutti, gli strumenti indispensabili per smantellarla.

Il grande intellettuale ed educatore Danilo Dolci parlava di “continuazione della Resistenza, senza sparare” e, col titolo di uno dei suoi primi libri, della necessità di Fare presto (e bene) perché si muore. L’insegnamento di Dolci pur riferendosi all’estrema povertà dell’Italia del dopoguerra, mantiene la medesima attualità di allora: il rischio è sempre lo stesso e l’urgenza non è minore. Anche oggi il Paese “muore”, dentro e fuor di metafora, in quanto rischia di cancellare le radici della democrazia, l’inalienabilità dei diritti, le condizioni di uguaglianza e civiltà per i suoi cittadini.

La riflessione, per riuscire nel suo intento di emancipazione, deve per forza avere natura morale e, insieme, ritornare instancabilmente alla Storia e a quei momenti fondamentali su cui la nazione si fonda e cresce. 

L’accento sull’aggettivo morale, non è casuale. I detrattoti della morale, su tutti i fronti, ma soprattutto “della nostra parte”, devono imparare a non confondere morale e moralismo, cadendo nel facile inganno del relativismo o nel comodo cul de sac ideologico per cui, alla volta, la cosiddetta morale si accompagna ad uno sgradevole corteggio: conservatorismo, ortodossia religiosa, ripiegamento intransigente ma statico delle posizioni ideali.

Ce lo ricordava Barbara Spinelli in un esemplare articolo di due mesi fa, intitolato La fattoria degli animali:

«Sono anni che discutiamo di questo in Italia: se la legge abbia ancora un significato, se la morale pubblica sia una bussola o una contingenza. È ora di deciderlo e chiudere la discussione. Il bersaglio di chi si ribella a simili vincoli è la morale (per i poteri ecclesiastici è la laicità), descritta come sovversiva, giacobina. Ma anche qui l' equivoco è palese: nello stesso momento in cui si atteggiano a anticonformisti minoritari, i ribelli si riscoprono giacobini tutori di valori morali non negoziabili». E ancora: «A questo serve lo storpiamento di vocaboli come morale, laicità, giustizia. Serve a uccidere la laicità, soprannominata laicista. A soffocare la giustizia, detta giustizialismo se applicata con rigore. La morale è il freno più infame, e per svalutarla riceve il timbro di moralismo».

E allora, concludiamo noi, intendendo la morale come bussola e non come contingenza, se il presidente del Consiglio afferma che un “golpe morale” è in atto contro di lui, e che a cospirare sono le procure, i giornali, le donne, i comunisti, non possiamo che essere d’accordo, almeno per una volta.

Il ritorno alla Storia, invece, deve avere per noi il significato di un’autentica  autoeducazione (noi verso noi stessi e gli altri intorno a noi), per non dimenticare l’attualità di quell’insegnamento. Nel saggio autobiografico sulla formazione della sua generazione (intitolato Fiori italiani), Luigi Meneghello, letterato e partigiano nato negli anni del fascismo, aveva individuato il collegamento fra la Storia, quella vissuta e combattuta in prima persona, e l’educazione ricevuta:

«Ho pensato per la prima volta a questo libro nell’estate del 1944, sdraiato per terra davanti all’imboccatura di una grotta in Valsugana guardando le coste del Grappa lì di fronte. Ero convinto che nel rastrellamento i miei compagni ci avessero rimesso le penne, e avvertivo con una sorta di pigrizia intelligente che questa veniva ad essere la conclusione dell’educazione che avevamo ricevuto: in generale, ma soprattutto, in senso stretto, a scuola.  Vent’ani dopo, raccontando del nostro rastrellamento del 10 giugno [cfr. I piccoli maestri] e come ne venni fuori, anch’io un po’ spennacchiato ma molto vivo, mi ritrovai di nuovo sulla bocca di quella grotta, con gli stessi pensieri, e interrompendo il racconto mi misi a scriverli su una pagina nuova, cominciando: “Che cos’è un’educazione?”».

Se la dittatura e la repressione attecchirono grazie alla “diseducazione” impartita in epoca fascista, per spiegare ciò che venne dopo, cioè il momento della conversione e la scelta della lotta, Meneghello comincia col dissotterrare (e contestare) quella diseducazione e a «tirar fuori storie di banchi di scuola, di studentelli, di materie di studio. Sono fiori italiani che nel vaso dove stanno, cominciano a morire». Questi fiori è necessario «trapiantarli», dice ancora, perché non appassiscano. Accade lo stesso alla Storia, il cui insegnamento rimane vitale e reale solo se trasmesso agli altri uomini: di una stessa epoca o di un diverso tempo.
 
Francesca Congiu

"Bella ciao", un video di Vito Biolchini ambientato a Cagliari e
segnalatoci da Francesca



FISCHIA (ANCORA) IL VENTO
Canzoni e video scelti da Nicola Melloni

Fischia il vento

Fischia il vento e infuria la bufera,
scarpe rotte e pur bisogna andar
a conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell'avvenir.
A conquistare la rossa primavera
dove sorge il sol dell'avvenir.

Ogni contrada è patria del ribelle,
ogni donna a lui dona un sospir,
nella notte lo guidano le stelle
forte il cuore e il braccio nel colpir.

Se ci coglie la crudele morte,
dura vendetta verrà dal partigian;
ormai sicura è già la dura sorte
del fascista vile traditor.

Cessa il vento, calma è la bufera,
torna a casa il fiero partigian,
sventolando la rossa sua bandiera;
vittoriosi e alfin liberi siam.




E l’originale russo, Katiusha!

Расцветали яблони и груши,
Поплыли туманы над рекой.
Выходила на берег Катюша,
На высокий берег на крутой.

Выходила, песню заводила
Про степного, сизого орла,
Про того, которого любила,
Про того, чьи письма берегла.

Ой ты, песня, песенка девичья,
Ты лети за ясным солнцем вслед.
И бойцу на дальнем пограничье
От Катюши передай привет.

Пусть он вспомнит девушку простую,
Пусть услышит, как она поет,
Пусть он землю бережет родную,
А любовь Катюша сбережет.

(Traduzione dal russo

Meli e peri erano in fiore,
La nebbia scivolava lungo il fiume;
Sulla sponda camminava Katjusha,
Sull'alta, ripida sponda.
Camminava e cantava una canzone
Di un'aquila grigia della steppa,
Di colui che lei amava,
Di colui le cui lettere conservava con cura.
O canzone, canzone di una ragazza,
Vola seguendo il sole luminoso
E al soldato sulla frontiera lontana
Porta i saluti di Katjusha.
Fagli ricordare una semplice giovane ragazza,
Fagli sentirla cantare
Possa lui proteggere la terra natia,
Come Katjusha protegge il loro amore.)


Festa d’Aprile

È già da qualche tempo che i nostri fascisti
si fan vedere poco e sempre più tristi,
hanno capito forse, se non son proprio tonti,
che sta arrivare la resa dei conti.

Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistare la pace, per liberare l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;
evviva i partigiani! È festa d'Aprile.

Nera camicia nera, che noi abbiam lavata,
non sei di marca buona, ti sei ritirata;
si sa, la moda cambia quasi ogni mese,
ora per il fascista s'addice il borghese.

Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistare la pace, per liberare l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;
evviva i partigiani! È festa d'Aprile.

Quando un repubblichino omaggia un germano
alza il braccio destro al saluto romano.
ma se per caso incontra partigiani
per salutare alza entrambe le mani.

Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistare la pace, per liberare l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;

evviva i partigiani! È festa d'Aprile.

In queste settimane, miei cari tedeschi,
maturano le nespole persino sui peschi;
l'amato Duce e il Führer ci davano per morti
ma noi partigiani siam sempre risorti.

Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistare la pace, per liberare l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;
evviva i partigiani! È festa d'Aprile.

Ma è già da qualche tempo che i nostri fascisti
si fan vedere spesso, e non certo tristi;
forse non han capito, e sono proprio tonti,
che sta per arrivare la resa dei conti.

Forza che è giunta l'ora, infuria la battaglia
per conquistare la pace, per liberare l'Italia;
scendiamo giù dai monti a colpi di fucile;
evviva i partigiani! È festa d'Aprile.


Ed infine la canzone dei difensori di Leningrado durante l’assedio nazista

Полюшко-поле,
Полюшко, широко поле!
Едут по полю герои,
Эх, да Красной Армии герои

Девушки, гляньте,
Гляньте на дорогу нашу
Вьется дальняя дорога,
Эх, да развеселая дорога

Девушки, гляньте,
Мы врага принять готовы,
Наши кони быстроноги,
Эх, да наши танки быстроходны

В небе за тучей
Грозные следят пилоты.
Быстро плавают подлодки,
Эх, да зорко смотрит Ворошилов

Пусть же в колхозе
Дружная кипит работа,
Мы - дозорные сегодня,
Эх, да мы сегодня часовые

Полюшко-поле,
Полюшко, зелено поле!
Едут по полю герои,
Эх, да Красной Армии герои!






PARTIGIANI: CI CHIAMAVANO RIBELLI
Un video segnalatoci da Genny Carraro



sabato 23 aprile 2011

Esempi, esempi ed ancora esempi

di Carla Gagliardini

Mi e’ tornata la voglia di raccontare quello che vedo in Inghilterra. Nell’ultimo post che avevo scritto
avevo detto di non averne ma grazie ad un “anonimo” e alle sue critiche verso la mia pochezza mi e’
ritornata. Potere della Critica!

Esempi, questo chiedeva l’amico “anonimo”. Esempi sulla questione casa, esempi sui servizi, ecc.
Partirei dalla questione casa. Non tutti forse sanno che in alcuni paesi esiste una differenza
sostanziale tra due istituti giuridici che regolano l’acquisto della casa. In Inghilterra questi due istituti
si chiamano “freehold” e “leasehold”. Di che si tratta?

Il freehold consiste nell’acquisto pieno della proprieta’ dell’immobile. Quasi esclusivamente questo
avviene quando si comprano le “houses” che corrispondono alle nostre ville. In Inghilterra in termini
di status fa molta differenza vivere in una villa o in un appartamento. Chi vive in un appartamento e’
considerato un poverino. Questa etichetta ti viene appiccicata addosso in tutte le realta’ fuori dalla
capitale. Londra rappresenta un qualcosa di diverso.

Il leasehold, invece, e’ l’acquisto di un diritto ad abitare per un certo periodo all’interno di
quell’immobile. Normalmente il leasehold si riferisce agli appartamenti. Il periodo piu’ lungo
generalmente e’ di 125 anni ma quando si arriva intorno agli 85 anni il prezzo della proprieta’ scende
considerevolmente perche’ in pochi l’acquisterebbero con un lease cosi’ breve. Allora cosa si fa a
quel punto se ci si vuole sbarazzare della proprieta’ ma senza svenderla? Si chiama un avvocato che
per allungare il lease e farlo ritornare ai 125 anni originari, o meno se si preferisce ma non avrebbe
senso, presenta una parcella che va dai £2000 sino a £7000 o oltre. Il costo dipende da quanti anni
aggiuntivi di lease si chiedono.

Una domanda: chi compra un freehold? E chi invece acquista un leasehold? Risposta: il freehold e’
generalmente acquistato dai redditi alti e il leasehold dai redditi medio bassi. I redditi bassi tanto che
acquistino il freehold o il leasehold prima o poi si vedranno pignorare l’immobile perche’ tendono a
non avere la forza economica di sopportare un mutuo nel lungo periodo.

Riflessione: mi pare che una societa’ che dia la possibilita’ ai soli redditi alti di poter divenire
proprietari di un immobile a uso abitativo sia una bella porcheria. E qui tiriamo giu’ una prima
maschera: non tutti godono degli stessi diritti. Perche’ se e’ vero che non tutti avranno la capacita’
economica di comprare una mega villa, magari come quella del figlio della Moratti – la Batcasa –,
e’ altrettanto vero che non si capisca perche’ non si possa avere il diritto ad acquistare la piena
proprieta’ di un appartamento, almeno quando questo rappresenti la prima casa. Questo, infatti, ha un costo accessibile anche ai redditi medio-bassi mentre le ville no. Chi acquista un
leasehold, e quindi un appartamento, non sara’ mai proprietario di quell’immobile ma un inquilino
con un lungo diritto di permanenza che potra’ essere prolungato dietro pagamento di un compenso
a un avvocato. I redditi alti acquistano e si levano il pensiero per sempre dalla testa, i redditi bassi
invece devono convivere con il pensiero, anche in vista di una eredita’ da lasciare ai propri successori
i quali magari non avranno i soldi per prolungare il leasehold.

Certo a voler essere pistini si puo’ contestare che 125 anni sono un periodo piu’ che accettabile
perche’ difficilmente qualcuno di noi arrivera’ a quel traguardo di eta’. A voler essere, pero’,
ancora piu’ pistini si puo’ rispondere con delle domande: ma perche’ solo i piu’ abbienti possono
esercitare appieno il diritto di proprieta’ su un immobile? E perche’ l’eredita’ che un benestante
lascia ai successori e’ un diritto di proprieta’ su un immobile e chi percepisce un reddito medio basso
trasmette solamente il diritto ad essere un inquilino per lungo periodo? E perche’ chi ha un reddito
alto paga l’avvocato una sola volta e chi invece ha il reddito medio basso, e quindi e’ gia’ in partenza
piu’ svantaggiato, si ritrova a dipendere dall’avvocato e dalle sue parcelle a vita?
Questione di status, di etichetta, di classe, di ipocrisia? Per me questa scelta giuridica le racchiude
tutte.

E sul tema casa si potrebbe anche aprire la discussione sulla questione delle case popolari, ma
l’amico “anonimo” spero mi concedera’ di tralasciarla per passare a un altro tema, quello del sistema
assistenziale.

Certo per un italiano che in patria di sistema assistenziale fa fatica a intravederne l’ombra piombare
in Inghilterra e trovarsi il sostegno ai redditi bassi che si traduce in aiuti economici diretti (veri e
propri depositi mensili o settimanali sul proprio conto corrente fatti da un’agenzia di governo), in
aiuti al pagamento dell’affitto e della council tax (una tassa mensile che viene pagata da tutti ma
che risulta essere pesantissima per i redditi medio bassi) sembra una grazia divina, una cosa quasi
incredibile, un sogno.

Domanda: il fatto di provenire da un paese avaro come il nostro in tema di assisstenza pubblica
significa che dove si vada e si incontri un certo sistema rodato e minimamente decente non si debba
muovere critica? Io non la penso cosi’. Io penso che un sistema esistente debba essere migliorato
SEMPRE.

Quello che avviene in questo paese e’ che coloro che perdono il lavoro, o non possono lavorare per
problemi di salute o fisici, o hanno un reddito basso ottengono dal governo un’assistenza
economica. Questo aiuto consente di arrivare a fatica a fine mese. Se poi sei un single le cose ti
vanno ancora peggio perche’ qui si premiano le famiglie con figli (a me e’ sempre sembrato un po’
discriminatorio ma non c’e’ inglese che mi dia ragione. Sara’ che non contribuire alla crescita
demografica sia un peccato?!). Il governo conservatore in carica ha messo in piedi un piano di tagli
del sistema assistenziale che avra’ delle ripercussioni importanti sui redditi bassi e medio bassi.
Esempi? Eccone alcuni: e’ stato bloccato l’aumento del child benefit, un sostegno alle famiglie con
figli, che veniva regolarmente fatto ogni anno ad aprile in ragione dell’aumento del costo della vita;
e’ stato limitato il pagamento del sure start maternity grant (una somma versata alle famiglie al
momento della nascita di un figlio). Prima si pagava per tutti i nuovi nati appartenenti a famiglie dal
reddito basso oggi, invece, solo se il nuovo nato e’ l’unico figlio al di sotto dei 16 anni. Ergo se hai
altri figli piccoli ti scordi il sure start maternity grant che prima avresti preso. E’ stato abolito il
pregnancy grant (sostegno alle donne che arrivino alla 25esima settimana di gravidanza per
affrontare i costi inevitabili connessi alla gravidanza o alla nascita del figlio) E’ stato ridotto dall’80%
al 70% l’aiuto che viene dato alle famiglie dal reddito basso per il pagamento di una childminder
(una persona che durante il giorno badi ai bambini perche’ il genitore lavora). In un paese dove la
mancanza di asili pubblici e’ un problema reale questo taglio colpisce duramente le famiglie non
abbienti. E’ stato ridotto l’aituo a favore dei redditi bassi a sostegno del pagamento del canone di
locazione per gli immobili ad uso abitativo. Sono stati ritoccati i tax credits (sostegni ai redditi bassi
di lavoratori e famiglie con figli) in maniera che l’importo che si versera’ all’avente diritto sara’
inferiore a quello sino ad ora ricevuto. Le tasse universitarie sono state elevate a circa £9000 dalle
circa £3300 precedenti (riforma che entrera’ in vigore nel 2012). L’IVA e’ stata aumentata del 2.5%, e
chi piu’ dei redditi bassi soffrira’ di questo aumento? Tutto questo e’ stato fatto quest’anno, in un
colpo solo e nuovi tagli arriveranno negli anni futuri, stando al programma di governo. Queste sono
solo alcune delle riforme gia’ entrate in vigore e che vanno nella palese direzione di colpire i redditi
bassi. Fortunatamente il governo si e’ fermato in tempo prima di varare una riforma a dir poco
punitiva che doveva colpire i disoccupati di lungo periodo, ossia senza lavoro da un anno. Come in
Italia anche qui ci sono coloro che approfittano del sitema per trarne indebito vantaggio, colpa
anche di controlli blandi fino al rasentare il ridicolo, ma la stragrande maggioranza e’ disoccupata per
la mancanza reale di lavoro che ormai dal 2008 e’ una realta’ drammatica di questo paese. E si
traduce molto spesso in disoccupazione di lungo periodo perche’ il lavoro semplicemente non c’e’.
Molte imprese stanno trasferendo i propri uffici in America Latina, in Medioriente, in Asia perche’ i
costi dei loro impiegati in quelle aree geografiche sono piu’ bassi. Il governo pensava di ridurre il
sostegno a queste persone dopo un anno di disoccupazione, considerandole evidentemente tutte
come parassiti che si avvantaggiano del sistema. Cosi’ facendo avrebbe creato un’area di poverta’
enorme che avrebbe avuto delle ricadute importanti sulla societa’ (sfratti, suicidi, crescita di malattie
mentali, ecc.). Il governo, anche grazie al pressing di organizzazioni come quella per la quale lavoro,
ha riconosciuto la cosa e ritirato la proposta. Vittoria!

Spero di essere riuscita a dare qualche esempio e quindi di poter risalire dalla categoria dei frustrati
dove, cordialmente, l’amico “anonimo” mi aveva trovato un caldo giaciglio. Personalmente lavoro,
mi mantengo e pago le tasse e in cambio ottengo gli stessi servizi che otterrei in italia, dalla sanita’
al mantenimento delle strade, ecc. Non ho mai beneficiato di nient’altro perche’ fortunatamente
non mi ritrovo in una di quelle categorie che meritano assistenza. Pertanto mi riesce difficile capire
perche’ dovrei sentirmi frustrata per queste cose. Semmai mi preoccupo di cio’ che capita anche
nell’orto del vicino e ho ancora la capacita’ di indignarmi di fronte alle brutture di questa come di
altre societa’. Cerco di evitare l’indifferenza che ahime’ e’ un male che indebolisce la societa’.
Grazie caro amico “anonimo” per avermi dato la possibilita’ di dare, almeno spero, un po’ piu’ di
contenuto al mio precedente post.
Carla

venerdì 22 aprile 2011

Cuba, la scommessa di un cambiamento nella continuità

di Nicola Melloni da "Liberazione" del 21/04/2011

Il VI congresso del Partito comunista cubano ha riportato la più grande isola dei Caraibi al centro delle cronache dei nostri giornali. E' stato il Congresso in cui Fidel ha rinunciato formalmente a tutte le sue cariche politiche e quello dell'apertura a riforme economiche in cui alcuni elementi di mercato vengono introdotti.
Si tratta senza dubbio di una retromarcia rispetto alla politica del passato, che viene descritta come l'ammissione dell'incapacità del socialismo di sopravvivere nel mondo globalizzato. Il discorso in realtà è più complesso. Negli ultimi vent'anni quasi tutte le vecchie economie di piano sono state smantellate, da quella sovietica a quella cinese. I risultati delle riforme in quei due paesi sono stati però assai diversi. La Cina ha aperto ai capitali stranieri, ha gradualmente ridotto il controllo sui prezzi, ha adeguato la struttura produttiva alle domande del mercato. Questo però non vuol dire che lo stato abbia perso il suo ruolo economico che anzi, seppur ridimensionato, ne è uscito rafforzato: politica industriale attiva e coerente, intervento pubblico nella determinazione dei tassi d'interesse e di cambio, mantenimento di un vastissimo settore statale nelle grandi industrie che, pur in parte inefficiente, ha mantenuto alti i livelli occupazionali e ha permesso un controllo dello stato a monte su prezzi e prodotti strategici per lo sviluppo economico. La privatizzazione di massa non è avvenuta, l'industria rurale, vero motore della crescita cinese, è caratterizzata da diritti di proprietà collettivi a livello di villaggio. Gli investimenti stranieri sono stati accolte a braccia aperte, è vero, ma senza mai permettere il controllo delle industrie che rimangono sempre a maggioranza cinese. Tali riforme sono state per anni considerate parziali, incomplete e foriere di problemi strutturali - ogni limite posto al mercato è considerato un errore - salvo poi scoprire che la Cina è divenuta la seconda economia mondiale ed è uscita indenne dalla crisi finanziaria asiatica del 97 e da quella occidentale del 2007-08. In Russia, invece, le riforme economiche - liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione - hanno portato alla catastrofe economica, il Pil si è dimezzato nei primi sette anni di transizione e una classe di oligarchi ha assunto il controllo politico ed economico del paese.

Cuba, nei suoi nuovi indirizzi di politica economica deve tenere naturalmente conto di queste esperienze. L'introduzione di alcuni elementi di mercato non è di per sé un abbandono del socialismo, d'altronde già Lenin nel 1924 introdusse la Nep aprendo l'Unione Sovietica a capitali nazionali ed esteri pur mantenendo il controllo sulle leve economiche. Cuba si trova in una situazione in qualche maniera paragonabile alla Cina degli anni 70 e all'Urss di Lenin, con un grave problema di mancanza di capitali da investire, con una economia ancora sottosviluppata e fortemente agricola - il vero fallimento di cinquant'anni di socialismo, solo parzialmente giustificata dal bloqueo. Inoltre la leadership della generazione rivoluzionaria si sta ormai esaurendo per limiti anagrafici e la nuova classe dirigente, come nella Cina post Mao e Deng ha bisogno di crearsi una nuova legittimità basata soprattutto sui risultati economici.

Ammettere gli investimenti esteri è dunque una mossa adeguata per sopperire alla mancanza di capitali e rilanciare la crescita. Naturalmente è una mossa rischiosa, sappiamo benissimo che l'influenza dei capitali internazionali può sovvertire regimi politici e creare vari problemi economici, e lo è ancor di più a Cuba, assediata dagli Stati Uniti e dai gruppi reazionari di Miami che trasformerebbero l'isola in un bordello americano. La lezione cinese, dunque, è particolarmente importante sotto questo aspetto, apertura agli stranieri sì, ma con giudizio. La liberalizzazione di alcune professioni e mestieri può essere altrettanto utile ed anche la creazione di imprese non statali può introdurre elementi innovativi e di efficienza, facendo risparmiare allo stato importanti risorse, utili per mantenere il welfare cubano che è, sotto molti aspetti, di livello pari a quello di paesi assai più ricchi. Cuba non può e non deve rinunciare alle conquiste della revolucion - soprattutto educazione e sanità, oltre naturalmente ad indipendenza politica. Deve però garantire un maggiore sviluppo economico ed ha il dovere di cambiare pur nella continuità, rilanciando l'idea di socialismo in alternativa alle contraddizioni dello sviluppo capitalista.

Il link a questo articolo su "Liberazione" cliccando QUI .

Ma che bella la Gran Bretagna

di Carla Gagliardini

Ma che bella la Gran Bretagna!
Diffidate, vi prego, di chi vorrebbe vendervi la Gran Bretagna, anzi il Regno Unito,
come la terra promessa!
Perche’ dico questo? Bhe’, lo dico per esperienza. Avendo trascorso quasi cinque anni
della mia vita in questo paese credo di aver imparato a conoscerlo un po’.
Al principio tutto sembra semplice perche’ alla posta ti trattano bene, alle casse dei
supermercati puoi mettere tutti i tuoi acquisti lentamente dentro le borse senza che
nessuno ti insulti dicendoti che gli stai facendo perdere un sacco di tempo prezioso.
Anzi le cassiere ti chiedono sempre se vuoi essere aiutato in questa difficile operazione.
Se poi hai un reddito basso ti versano persino dei soldini dentro il tuo conto corrente
alla fine di ogni settimana o mese. Ma che meraviglia! Fino a poco tempo fa, poi, ti
prestavano i soldi per farti la vita o comprarti la casa anche se non davi nessuna
garanzia di solvenza. Va oltre la meraviglia, e’ strabiliante!
Questo mascherato benessere ha fatto dire ad alcuni amici e conoscenti che questo e’ il
vero socialismo e che per questo loro hanno deciso di trasferirsi nell’isola piu’ grigia del
mondo.

Strana cosa il socialismo del 2000 che si traduce in una monarchia di regine e principini
che non fanno nulla per sbarcare il lunario e vengono mantenuti in parte dai contribuenti.
Basta pensare di aver raggiunto il benessere personale e di non dover piu’ lottare con
la burocrazia e la scortesia italiana per aver raggiunto il socialismo? Rimango un po’
perplessa. Con tutto il rispetto per chi fa queste affermazioni io penso che il socialismo
debba tradursi in benessere per tutti e non solo per una certa cerchia di cittadini,
qualora anche rappresentasse la maggioranza. Non sarebbero comunque tutti.
Ogni volta che si sente il curriculum vitae di un parlamentare si scorpre che e’ stato
sfornato da questa o quella universita’ di prestigio. E quelli che provengono dai bassi
fondi quale sedia scaldano in parlamento? Nessuna, il privilegio di scaldare e poggiare il
proprio regio deretano spetta solo alla ricca borghesia e all’aristocrazia in questo paese.
Bel socialismo!

La sensazione e’ che quando si raggiunge un benessere personale si tenda ad estenderlo
artificiosamente a tutti, travisando clamorosamente la realta’. Sembra persino
che il fatto che solo una certa ristretta parte della societa’ sia sempre chiamata a
decidere delle vite dei cittadini non sia importante, rinunciando quindi al diritto ad una
rappresentanza reale del paese che la bruttissima legge elettorale inglese consente.
Come dire: ho potuto comprare la casa anche se non so se posso ripagarla, mi sono
riempito le tasche di carte di credito, anche se sono certo che non le ripaghero’ mai,
agli sportelli degli uffici pubblici mi trattano come un essere umano, anche se poi dietro
mi dicono peste e corna, e quindi vivo in una societa’ che piu’ socialista non si puo’ e chi
se ne frega della rappresentanza o di tutte queste cose ormai superate e fuori moda.
Intanto le cose non si possono cambiare. E via a continuare a vivere nell’inerzia politico-
sociale di sempre. In fondo viviamo in una societa’ socialista moderna e quindi suvvia
facciamo i moderni!
Che poverta’ di pensiero, che superficialita’ di analisi e osservazione, che pochezza di
spirito.

Se avessi il tempo e soprattutto la voglia vi racconterei io la vera Inghilterra che vedo
ogni giorno e che e’ certamente molto diversa da quella che giornali e politici nostrani
ci raccontano. E credo che meriterei per lo meno di essere ascoltata poiche’ il lavoro
che “allieta” le mie giornate di stress, pensieri e responsabilita’ e’ a contatto con quella
parte di societa’ che e’ considerate la zavorra della quale ci si deve occupare per dovere
di stato ma della quale se si potesse ci si sbarazzerebbe con un colpo di cannone.
Ma vi racconterei molto di piu’, di che peso e significato abbia la parola lavoro in
questo paese, dell’ipocresia appiccicata a quasi ogni persona nata in questo paese
o che, vivendoci da troppo tempo, si e’ impossessata degli stranieri. Vi racconterei
delle mille maschere che vengono ogni giorno indossate dai nostri managers, come dai
vostri colleghi o dalle organizzazioni per le quali lavoriamo. Certamente, per dovere
intellettuale, devo dire che non tutti sono persone da evitare, come mi pare ovvio e
accade ogni angolo del mondo.

E se non vi bastasse quel mio primo racconto proseguirei con molto piacere spiegandovi
la situazione “casa” di questo falso paese che ama le etichette tanto quanto gli altri
paesi, anche se non ama che si sappia e sta ben attento dal divulgarlo apertamente.
Perche’ anche qui, in Gran Bretagna, c’e’ da fare la battaglia per la verita’ e la
trasparenza che deve essere diversa da quella italiana perche’ il contesto e’ diverso ma
che sarebbe altrettanto necessaria per migliorare questa societa’ ipocrita.
Carla

mercoledì 20 aprile 2011

La politica del debito


La scelta di Standard&Poor’s di rivedere al ribasso le prospettive sui titoli del debito USA è, dal punto di vista formale, un fatto di grande importanza in quanto le agenzie di rating internazionale certificano che i conti degli Stati Uniti sono in disordine e che, potenzialmente, i titoli di stato dell’economia più grande del mondo potrebbero divenire un investimento rischioso. In realtà, tutto questo lo si sapeva già da tempo. La prima reazione della Casa Bianca è stata di denunciare il giudizio di S&P come scelta politica ed indubbiamente lo è, come tutte le scelte delle agenzie di rating – erano fondamentalmente politiche le motivazioni che negli scorsi anni avevano evitato il declassamento del debito americano pure a fronte di una dinamica dei conti pubblici che in qualsiasi altro paese avrebbe portato ad ondate di panico e speculazione finanziaria.
Il giudizio è politico perchè si inserisce nel dibattito in corso tra Repubblicani e Democratici su come organizzare il sistema pubblico nei prossimi anni. I repubblicani sono partiti all’attacco con il cosiddetto piano Ryan che prevede tagli fiscali per i ricchi e la sostanziale privatizzazione di Medicare, sostituendo la copertura assicurativa pubblica con un sistema di voucher da spendere nel mercato privato. Come ormai sempre più spesso accade, le ricette proposte dai Repubblicani – checchè ne dica Alberto Alesina sul Corriere – non hanno nessuna consistenza economica. L’introduzione di voucher di per sè non diminuisce i costi pubblici, a meno che tali voucher non abbiano un valore inferiore alla copertura finora garantita, costringendo i cittadini (soprattutto gli anziani) ad integrare di tasca propria il valore inferiore. Il punto più dolente riguarda però i tagli fiscali che, secondo Ryan&C. dovrebbero far crescere l’economia e quindi rimettere in sesto i conti pubblici, una riproposizione di una delle più grandi bufale degli ultimi 30 anni, la curva di Laffer. Durante gli anni di Reagan furono abbassate le tasse ai ricchi sostenendo che sarebbe cresciuta l’imposta fiscale, ed invece il debito americano cominciò ad esplodere proprio in quegli anni. La riproposizione degli stessi tagli durante la presidenza di Bush jr ebbe esattamente gli stessi effetti, ed infatti l’ufficio budget del Congresso prevede che il piano Ryan, pur con i tagli sociali che accompagnerebbero le minori tasse, non inciderebbe su deficit e debito.
Di fronte a questo piano Obama ha abbozzato. Prima ha accettato un piano provvisorio per i prossimi mesi per evitare la chiusura degli uffici pubblici che ricalcava il progetto repubblicano. Poi ha avanzato le sue proposte per il piano definitivo, all’insegna della coesione sociale ed apparentemente in chiara opposizione con la destra liberista. Il problema è che il piano definitivo sarà una decisione bipartisan presa da una commissione in cui repubblicani e democratici devono trovare un punto d’incontro. S&P, con il suo outlook negativo, ha dunque mandato un chiaro segnale politico: non crediamo molto alla possibilità di accordo, ma è indispensabile raggiungerlo o le conseguenze saranno catastrofiche.
In realtà le cose sono ben più complesse. Gli interessi pagati sul debito pubblico americano sono ancora molto bassi (il mercato quindi non mette in conto un rischio default, al contrario di quel che succede in Portogallo o Grecia) e quindi questa urgenza sul debito, problema che pure esiste, sembra malposta. I repubblicani usano il problema delle finanze dello stato federale per portare avanti la loro battaglia di classe, tagli ai poveri, soldi ai ricchi, quello che hanno fatto negli ultimi 30 anni e che è la causa ultima del dissesto dei conti pubblici. Obama dovrebbe invece occuparsi dei problemi concreti dell’economia americana, mettere in moto un sistema virtuoso che eviti il ripetersi della crisi. Da una parte bisogna riequilibrare la distribuzione del reddito, dall’altra dare solide basi per la crescita economica che al momento è debole e non porta alla riduzione della disoccupazione. Tagliare gli investimenti pubblici avrebbe un effetto recessivo, mentre diminuire le tasse per i ricchi non garantirebbe maggiori investimenti privati. Obama ha bisogno di riacquistare una visione politica dei problemi, quella visione che gli aveva garantito l’elezione alla Casa Bianca ma che sembra aver smarrito immediatamente dopo. Perdere quest’ultima opportunità sull’altare dei compromessi sancirebbe la sua definitiva sconfitta ed un futuro assai fosco per il capitalismo americano.

Nicola Melloni 
(Liberazione)

lunedì 18 aprile 2011

Il solare sui tetti vale tre centrali nucleari



Il solare sui tetti vale tre centrali nucleari Ma il governo è indifferente

Assosolare attacca frontalmente Romani, tacciato di essere indifferente all'imprenditoria del settore. "Sui tetti delle famiglie c'è un potenziale in grado di soddisfare il 6% del fabbisogno nazionale, ma il ministero non ci sente" http://st.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2011/04/fotovoltaico-pezzo.jpg
04/fotovoltaico-pezzoAssosolare non va per il sottile. 

Venerdì scorso l’Associazione Nazionale dell’Industria Solare Fotovoltaica ha attaccato frontalmente il ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, accusato di essere “indifferente” all’imprenditoria del settore. La bozza del quarto conto energia, quello che deciderà i nuovi incentivi per l’energia del sole, è in discussione ormai da un mese e gli operatori del fotovoltaico cominciano a perdere la pazienza. “Nel giro di un paio di settimane daremo certezze al settore”, aveva dichiarato Romani il 9 marzo. Dalla promessa del ministro sono passati più di trenta giorni e ancora non si sa nulla. “I tempi sono largamente scaduti”, ha dichiarato ieri Greenpeace Italia in una nota. “L’averli disattesi è la prova ultima dell’incompetenza del governo a dirigere un settore che dà lavoro a più di 100 mila persone”.

Il 5 aprile, nel corso dell’assemblea annuale, Assosolare ha definito una posizione unitaria degli operatori del settore: conferma del terzo conto energia per gli investimenti già avviati, riduzione morbida degli incentivi senza tetti annuali per i nuovi impianti, decremento del 5% delle tariffe per impianti superiori a 200 kWp (Chilowatt picco, l’unità di misura con cui si misura l’energia prodotta da sole e vento. Diversa da quella proveniente da fonti carbonfossili e nucleare) nel 2011 e nessun taglio per i piccoli impianti (sotto i 200 kWp). Dal 2012 riduzione dell’8% per impianti di piccola taglia e del 10% per quelli superiori ai 200 kWp. Una posizione che distingue nettamente il piccolo fotovoltaico, quello che viene installato sui tetti, dai grandi parchi solari a terra. Numeri chiari, analisi dettagliate che sono state inviate al ministro Romani, con la richiesta di un incontro conclusivo al Ministero dello Sviluppo Economico, ma non hanno ancora ricevuto una risposta. “La mancata risposta alle reiterate richieste di un incontro ci porta a constatare la volontà del ministro di interrompere ogni relazione e condivisione proprio nel momento della finalizzazione del testo”, ha dichiarato Gianni Chiaretta, presidente di Assosolare. “Se questo silenzio si dovesse tradurre nuovamente in un provvedimento a danno del settore, il ricorso a tutte le azioni di denuncia sarà inevitabile sia a livello nazionale che internazionale”.

Tra gli operatori maggiormente interessati dal nuovo conto energia ci sono le società che puntano sul solare “diffuso” con pannelli installati sui tetti delle abitazioni, che permettono alle famiglie di produrre autonomamente l’energia che consumano e di vendere alla rete i kW prodotti in eccesso. “Riteniamo utile che non si faccia di tutta l’erba un fascio”, ha dichiarato al fattoquotidiano.it Gianluca Lancellotti, amministratore delegato di ENER20, una società con sede a Milano che finanzia e installa pannelli fotovoltaici sulle case. “Dovrebbe essere possibile ridurre le speculazione dei grossi impianti senza per questo limitare lo sviluppo del neonato solare domestico, che ha un potenziale rivoluzionario”.

In effetti i dati elaborati da ENER20 parlano chiaro. Un piccolo pannello da 3 kWp produce mediamente 4.000 kWh all’anno. Se cinque milioni di famiglie italiane (su un totale di 22 milioni) installassero sul tetto di casa un pannello, si potrebbero produrre 20 miliardi di kWh per una potenza installata di 20.000 MW: il 30% circa del fabbisogno energetico complessivo delle famiglie (stimato intorno ai 67 miliardi di kWh) e il 6% del fabbisogno nazionale (pari a 317,6 miliardi di kWh). “Se pensiamo che le grandi centrali a gas hanno una potenza di 800 MW e i reattori nucleari di circa 1.600 MW, possiamo dire che sui tetti delle famiglie italiane c’è il potenziale equivalente di numerose centrali tradizionali o nucleari e di almeno tre reattori nucleari in termini di energia prodotta”, continua Lancellotti. “Nelle nostre case si può veramente compiere la terza rivoluzione industriale, con la trasformazione delle famiglie da centri di consumo a centri di produzione, eliminando le perdite di rete e dando stimolo all’occupazione locale con manodopera specializzata. Ci auguriamo che per questa rivoluzione il governo non voglia attendere oltre”.


venerdì 15 aprile 2011

Gaza: Restiamo Umani (intervista a Vittorio Arrigoni)




“Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola” mi dice Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. “Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato.” Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua “Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste…” il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. “Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l'ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati.”
A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito.
Vittorio Arrigoni, Gaza, 8 gennaio 2009







Ma che mondo e’ questo?
Arrivano le prime e-mails di amici e compagni che sbigottiti fanno circolare la miserabile notizia che Vittorio Arrigoni e’ morto ammazzato, soffocato.
Ormai la notizia e’ gia’ nota, e’ gia’ circolata on-line come per televisione sin da ieri. L’hanno ammazzato.
Arriva allo stomaco un pugno violento, tanto forte da penetrare, oltreppassare lo strato cutaneo e perforare il corpo. Troppo forte e’ la sensazione di miseria che si prova verso questa straziata umanita’ che non sa distinguere tra chi non cerca di imporre le proprie idee e modelli di societa’ ma mette solamente a disposizione i propri sfiorzi e il proprio tempo in nome di un valore: solidarieta’.
Quanti di noi si riconoscono nei valori che Vittorio Arrigoni era stato cosi’ bravo da mettere in pratica? Siamo fortunatamente ancora in tanti, forse non rappresentiamo la maggioranza, ma non siamo poche decine di persone. Siamo molti e molti di piu’. Proprio perche’ crediamo nella sincera solidarieta’ di Vittorio Arrigoni quel pugno arriva ancora piu’ violentemente a perforare il nostro stomaco.
Morire cosi, per aver raccontato le tenebre di Gaza, per aver fatto da scudo protettivo ai pescatori di quelle terre, per aver raccontato le sofferenze inflitte a un popolo che oggi non ha diritto di sognare un futuro per se e per i  propri figli.
Quanti di noi hanno pensato di andare nelle terre martoriate di questo pianeta per mettersi a disposizione delle popolazioni trucidate dai loro governi o da altri stati. Non certamente per inculcare un modello di societa’ o un’idea ma per aiutare e capire. Capire quel popolo al quale si prestava solidarieta’, comprenderlo e crescerne insieme.
Quanti di noi ogni giorno si spendono in attivita’ che hanno al centro il bene e l’interesse commune e non quello individuale e prepotente.
Quanti di noi ogni giorno non sono indifferenti a quello che di crudele e violento avviene nel mondo.
E quanti di noi, invece, sono indifferenti a tutto questo? Odio gli indifferenti, li odio almeno quanto li odiava Gramsci.
Carla








giovedì 14 aprile 2011

Non c'è più tempo

COMMENTO di Alberto Asor Rosa
BERLUSCONI/2

Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.

Quando la giustizia non è uguale per tutti


A sentire le notizie che arrivano dal TG3 sul processo breve non si può che provare un moto di schifo, più che di indignazione.
Per salvare Lui, sempre e solo Lui, il parlamento è imbrigliato, i ministri sono precettati e un’intera comunità a breve si ritroverà ad avere una legge che renderà questo paese ancora più ingiusto. Una legge dannosa perché con le prescrizioni brevi molti colpevoli rimarranno senza una sentenza di colpevolezza e molte vittime rimarranno senza un colpevole che paghi per i danni e le sofferenze arrecate.
Che brivido pensare che vi saranno persone che sapendo di potersi avvantaggiare della prescrizione breve e dei benefici che porterà a coloro che non sono mai stati condannati penseranno bene di commettere le proprie “marachelle” sapendo che in un paese dal nome Italia non saranno mai condannati e quindi rimarranno a vita incensurati, nonostante l’aver commesso dei reati. Magari ci saranno le prove per portarli a processo, ma chissà dopo quanto saranno state raccolte e nel frattempo il tempo passa e la prescrizione si compie. E così tutti liberi, tutti puliti, tutti onesti. E per chi è già stato condannato, per non essere stato tanto furbo dal cavarsela, arriva la punizione della prescrizione più lunga. La legge è uguale per tutti, ma per Lui un po’ meno. Viene da ridere al solo pensarci!
Si proprio da ridere, non da piangere come molti direbbero. E rido perché in fondo questo paese se la cerca sempre una brutta pagina della propria storia da scrivere. Condivido quello che Giorgio Bocca ripete da sempre e cioè che gli italiani sono per la maggioranza degli asserviti e che sempre e solo le minoranze hanno scritto le pagine più alte e più belle della storia italiana, dal risorgimento alla resistenza.
Basti sentire i sostenitori di Berlusconi per capire di che cosa sto parlando. Si da il caso che si bevano ogni sciocchezza e ogni pianificata stupidaggine priva di fondamento che viene pronunciata come fosse una nuova parola d’ordine. Questo la dice lunga sulle brillanti menti che sostengono il governo di questa povera Italia. Almeno riuscissero a trarne vantaggio da tanto servilismo. E invece no, sognano di essere ad Arcore per una notte di “bunga bunga”, oppure di apparire in una “brillante” trasmissione di Mediaset, o magari, per quelli con delle ambizione un po’ più alte si sogna l’ormai ambito posto in parlamento o, meglio ancora, al governo. In fondo c’è chi ce l’ha fatta. I precedenti non mancano. Non devi essere capace, quello semmai è un demerito perché potresti essere visto come una persona dal pensiero libero e indipendente. Basta essere spregiudicati. Eppure questi concittadini non balleranno mai “patani” ad Arcore, non saranno mai la velina o il tronato di turno in una trasmissione Mediaset, e sicuramente non siederanno mai in parlamento o al governo. E allora perché tanta passione nel difendere il leader che mai si contesta? Credo che non lo sappiano nemmeno loro ma nel frattempo sognano…
Non si può dare tutta la colpa a questo governo e al suo padrone ma è tempo di puntare il dito anche contro chi è complice di questa politica vile e spregiudicata e quindi non si può che puntarlo verso quell’elettorato che sostiene questo modo di fare politica.
In fondo anche sotto il fascismo una grande fetta del paese sosteneva quel regime. Ci sono voluti i nostri partigiani e le nostre partigiane per scrivere forse la pagina più bella della nostra storia: la Costituzione Italiana.
Carla

Mano pubblica, Stato e irrazionalità del mercato


Dopo l’intervento di Tremonti a difesa dell’italianità di imprese strategiche – in questo caso Edison e Parmalat – si è riaperto tra giornalisti e commentatori il dibattito sul ruolo dello stato in economia. La discussione è diventata ancora più animata con l’uscita di scena di Geronzi, banchiere di sistema e rappresentazione viva e plastica del rapporto tra potere politico e potere economico.
Alcuni liberali hanno visto nell’uscita di scena del presidente di Generali una rivincita del mercato che finalmente si libera dai maneggi della politica e dalle opacità di scelte industriali legate a criteri non economici. Nel caso di Geronzi, è difficile dar torto a chi sostiene tale tesi, Geronzi era proprio l’emblema dell’opacità, il simbolo dei poteri forti che controllano politica ed economia, stato e mercato. Quello che però troppe volte fanno gli economisiti liberali, a cominciare da Luigi Zingales, sul Sole24ore, è confondere azioni e degenerazioni, come se l’intervento politico fosse sinonimo di corruzione ed inefficienza. Fattosi probabilmente prendere la mano da una qual certa verve polemica, l’economista di Chicago arriva a sostenere che troppi interventi di sistema trasformano l’economia di mercato in socialismo (sic!) interessato solo a scelte clientelari e di “autoriproduzione di una casta ristretta di manager”. Zingales però dovrebbe sapere che l’Italia dell’Iri (ma anche quella dei distretti industriali) non era assolutamente un’economia socialista, nè lo erano Francia, Germania e soprattutto Giappone, dove l’interazione tra stato e mercato ha portato a risultati che difficilmente potrebbero essere descritti come deludenti.
Il problema dell’Italia non è il ruolo dello stato in economia, ma piuttosto il tipo di stato in cui viviamo. Uno stato che ha perso progettualità e la capacità di indirizzare scelte strategiche in campo economico per il bene collettivo piuttosto che per l’interesse di pochi. Che il bene collettivo, poi, non venga fatto neppure dal mercato pare piuttosto evidente rileggendo la storia economica mondiale degli ultimi vent’anni. Nei paesi occidentali tutti, nessuno escluso, il diminuito ruolo statale ha portato a maggiori sperequazioni nella distribuzione del reddito e ad una crescente povertà, mentre la crescita economica è stata di gran lunga inferiore a quella registrata negli anni d’oro del capitalismo keynesiano. Nel resto del mondo le economie in transizione o via di sviluppo che si sono affidate alla razionalità del mercato hanno fatto una brutta fine, mentre quelle in cui lo stato è intervenuto in maniera virtuosa hanno registrato successi impressionanti.
Basti pensare al caso della Cina, in cui certo molte riforme liberali sono state intraprese, ma lo stato non ha mai rinunciato al suo ruolo. Le grandi imprese non sono state privatizzate, anche a costo di scontare qualche inefficienza, sia per ridurre i costi sociali che per mantenere un controllo politico sulla direzione dell’economia cinese. Controllo politico, in questo caso, vuol dire prospettiva sul futuro, capacità di identificare i punti di forza di un paese e non lasciare tutte le decisioni alla logica del profitto, profitto che nelle economie di mercato è legato al guadagno immediato che può essere razionale nel brevissimo periodo ma deleterio nel medio periodo.
Questo Tremonti l’ha capito, rilanciando una versione moderna del colbertisimo e di protezione delle aziende nazionali, legata soprattutto al sistema bancario padano ed al legame con il territorio. Una visione che rimane però di corto respiro. Il governo italiano ha il dovere di ricominciare a fare politica industriale, con o senza partecipazioni pubbliche ed il ruolo dello stato non può essere ridotto a garantire beni pubblici, come invece sosteneva domenica Scalfari su Repubblica. Il che però non vuol dire difendere a tutti i costi l’italianità di alcune imprese o di certe banche come all’epoca dei furbetti del quartierino. Nè compiacersi per la supposta garanzia di italianità della Fiat, quando questa invece lavora per ridurre il paese tutto ad una catena di assemblaggio in competizione con il Sud del mondo e non con le economie più avanzate. Significa, invece rilanciare il sistema paese, attraverso investimenti di qualità, maggiore ricerca, difesa e promozione all’estero di alcuni settori chiave che invece sono abbandonati a se stessi, come recentemente denunciato anche da Confindustria. Significa soprattutto abbandonare gli interessi particolari dei poteri forti e delle oligarchie che bloccano il paese da trent’anni, tenendo in scacco una politica il cui problema è essere imbelle prima ancora che nociva.
Nicola Melloni (Liberazione)

sabato 9 aprile 2011

DE ANDRE’ e EL CHE: ma cosa centrano?


E’ sabato mattina, mi sono svegliata presto. Le persone normali che non devono andare a lavorare probabilmente dormono. Anch’io potrei restare a letto ma da giorni un forte raffreddore mi attanaglia e cosi’, anche stamattina, mi sono svegliata prima del solito e ho iniziato a pensare.
Leggevo le ultime notizie e articoli di questo blog e hanno iniziato a impossessarsi della mia mente le parole cantate da Fabrizio De Andre’ “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. E poi ho visto i video postati sul blog e con immenso piacere mi sono ritrovata il compagno Fidel Castro. Allora il mio cuore ha cominciato a traboccare di un sentimento piacevole, difficile da descrivere. E cosi’ continuando nel girone delle mie emozioni mi sono venute in mente altre parole bellissime, questa volta pronunciate da un rebelde: Ernesto Guevara de la Serna, piu’ noto come El Che. Il Che diceva “Senza perdere la tenerezza” e questa frase ha dato vita anche a un libro.
Con queste due splendide frasi, che hanno sempre ispirato la mia militanza politica, ho provato un sentimento raro. Queste parole riecheggiano spesso nella mia mente ma non le avevo mai collegate tra di loro. Che cosa significano per me? Il concetto e’ semplice ma non lo e’ altrettanto esplicitarlo. Ci provo.
Spesso ho sentito dire che per fare politica ci vuole una buona dose di sangue freddo, direi quasi di cinismo, perche’ gli interessi che sono da considerare sono molteplici. Questo comporta che alle volte certi diritti fondamentali, come quello alla vita o ad avere un ambiente incontaminato, vengano svuotati per superiori esigenze nazionali o internazionali. Normalmente queste esigenze sono affari che i Paesi fanno con altri Paesi o che le multinazionali fanno con i Paesi o, ancora, che privati fanno con i Paesi. Insomma, per dirla banalmente, tutto si riduce a una questione di interesse monetario e quindi di potere.
Ecco come le parole cantate da De Andre’ e quelle pronunciate dal Che entrano, a mio giudizio, in modo dirompente in questo contesto che rappresenta la quotidianita’ della nostra politica occidentale.  Il modello di politica che ne verrebbe fuori, se prendessimo come riferimento quelle parole, sarebbe un modello che metterebbe l’uomo e l’umanita’ al centro della vita, del pensiero e dell’azione politica ricordandoci che non e’ principalmente dalle cose materiali che una societa’ si evolve. Ricordandoci che una societa’ deve essere pensata e costruita nell’interesse dell’intera collettivita’ e non per il vantaggio di pochi potenti. Ricordandoci che la politica, per essere esercitata con la P maiuscola, non deve MAI PERDERE LA TENEREZZA. Questa, infatti, ci consente di rimanere a contatto con la societa’ vera, quella formata da lavoratori e lavoratrici, pensionate e pensionati, studentesse e studenti, ricercatori e ricercatrici che sono il vero motore di una societa’ perche’ senza di loro non esisterebbe la FIAT e nessun altro settore produttivo e di ricerca del paese.
Troppo spesso, credo, non si capisce l’importanza che i lavoratori hanno nella vita di una societa’. Si finisce col considerare anche gli imprenditori come appartenenti a questa categoria. Certamente anche loro svolgono il loro lavoro, ma il termine lavoratori e’ quello storicamente adottato dalla sinistra per rappresentare la vera classe produttiva del paese, ossia quella costituita da migliaia e migliaia di donne e uomini che ogni giorno, per otto ore al giorno producono nel paese (e qui mi viene da citare altre parole di una nota canzone dei lavoratori: “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorare… e proverete la differenza tra lavorare e comandar…”).
L’imprenditore fa altro, come noto, e si limita ad organizzare i mezzi di produzione, come anche il nostro codice civile stabilisce quando da’ una definizione di imprenditore. Ma se non ci fossero i lavoratori che cosa organizzerebbe un imprenditore? Un bel nulla!
E allora credo che la politica per farsi sentire e rispettare dovrebbe partire da tutto questo e forse i cittadini e le cittadine sentiranno che la Politica si sta occupando davvero di loro, dei loro problemi, del loro presente e del futuro. E forse i giovani non saranno piu’ la generazione di disperati condannati dalla pochezza dei nostril dirigenti a un futuro di precarieta’ e senza la possibilita’ di progettare il domani.
Quando chiediamo alla politica di cambiare io credo che le stiamo chiedendo di lanciare una nuova primavera, simbolo della rinascita perche’ in primavera tutto fiorisce, e di riacquistare la tenerezza per cosi’ saper stare vicino ai cittadini e alle cittadine e interpretare le loro esigenze.
Carla

venerdì 8 aprile 2011

Tutti contro tutti, non solo sulla guerra

La vicenda libica e la nuova spaccatura tra i principali stati europei sull'intervento militare non è semplicemente una divergenza diplomatica, ma rappresenta invece con grande precisione lo stato comatoso dell'Unione europea, sempre più irrilevante e sempre più prossima a spaccarsi definitivamente.
I problemi vengono da lontano e non sono assolutamente confinati alla politica estera. Certo, gli assetti istituzionali, la mancanza di un governo europeo, l'unione economica e la divisione politica sono i peccati originali che hanno portato alla lenta ma inesorabile consuzione del progetto europeo. I nodi sono però venuti al pettine con la crisi economica internazionale - affrontata a livello nazionale e non europeo - ignorando volutamente il fatto che le economie europee sono fortemente integrate ed ancor di più lo sono i vari sistemi bancari e di conseguenza, il fallimento di una grande banca così come quello di uno stato scatenerebbe un effetto domino che coinvolgerebbe tutta l'Unione.
Ed infatti, dopo la grande paura del 2007 e 2008, i problemi si sono trasferiti dal settore privato a quello pubblico ed è in quel momento che la Ue è andata in affanno. La Germania ha cominciato progressivamente a disinteressarsi del destino dell'Europa, una svolta epocale per il paese architrave dell'Unione. Lo ha fatto per considerazioni domestiche, preferendo non pagare direttamente per il salvataggio prima della Grecia e poi di Irlanda e ora Portogallo. Ognuno per i fatti suoi, anche se in realtà i debiti pubblici degli stati europei sono largamente posseduti da investitori di altri stati, da cui appunto l'effetto domino. Un fondo comune è stato dunque approntanto, per risolvere le necessità dei paesi più piccoli e più in difficoltà. Ma più la crisi avanza, più si capisce che il piano di salvataggio è al più un palliativo e non una soluzione.
In tale contesto la Francia ha deciso di giocarsi la sua partita autonomamente. Appena ne ha avuto la possibilità, in Libia, si è lanciata in una avventura dal sapore neo-colonialista per riaffermare il suo potere nel bacino meditteraneo, rompendo la classica alleanza con la Germania che durava da un trentennio. Ha deciso di allearsi invece con la Gran Bretagna, la nazione più anti-europeista di tutti. Le reazioni non si sono fatte attendere, con Berlino platealmente irritata per l'intervento militare e con l'Italia che si è svegliata, come al solito, con colpevole ritardo. Di fatto Sarkozy sta cercando di fare le scarpe all'Italia, cacciando Gheddafi e rimpiazzando Eni con Total a Tripoli. Non soltanto. Le recenti vicissitudini industriali, con le imprese francesi scatenate nel fare shopping in Val Padana - e con la conseguente reazione irritata di Tremonti - segnalano che le tensioni tra Parigi e Roma sono ai massimi storici - come ribadito in queste ultime ore dallo scontro sugli immigrati. Ormai, appunto, si è arrivati al tutti contro tutti, Germania isolata, Francia contro Italia, Spagna abbandonata al suo destino, Irlanda, Grecia e Portogallo sottoposte a piani di ristrutturazione del debito umilianti mentre il francese Strauss Kahn, direttore del Fondo Monetario Internazionale, sostiene che i paesi europei più in difficoltà dovrebbero adeguarsi alla forza dell'economia tedesca, senza tenere in conto le specificità, ed anche le criticità, di quelle economie.
Quel che manca è una strategia di più ampio respiro. Sarkozy ama atteggiarsi a piccolo Napoleone ma quelle che conduce sono battaglie di piccolo cabotaggio, buone per la propaganda più che altro. Certo Sarkozy può lanciarsi alla conquista dell'Italia, paese senza una progettualità che vada al di là dei problemi giudiziari di Silvio Berlusconi. E può anche rilanciare la presenza di Parigi nel Meditteraneo e nella cosiddetta Africa francese, come la Costa d'Avorio. Ma non può eludere il fatto che la Francia, senza Europa, non ha futuro. Non lo ha neanche la ben più solida Germania che da un crollo della Ue può uscire rafforzata nel breve periodo ma destinata negli anni a trasformarsi al massimo in una Svizzera più ricca e solida.
Come era facile preventivare, la grande crisi finanziaria porta ad una generale ridistribuzione del potere sia economico che politico e l'Europa arriva a questo appuntamento in ordine sparso o, peggio, dilaniata da conflitti. Ignorando, per motivi di bassa bottega, che solo la sua unità potrebbe salvarla dal declino.

di Nicola Melloni
su Liberazione del 08/04/2011

giovedì 7 aprile 2011