di Nicola Melloni
da Liberazione
L’analisi dei flussi elettorali è impietosa per il centro-sinistra.
Secondo tutti gli istituti di ricerca, dalla Polis di Diamati all’Ipsos,
la coalizione di Bersani-Vendola è solo terza nel voto tra gli operai,
superata sia dal Movimento 5 Stelle (primo), che dal Pdl (secondo). Un
risultato, in realtà, che non sorprende più di tanto.
Già negli scorsi anni si era parlato e discusso a lungo del voto operaio
pro-Lega. Ora la situazione è completamente degenerata, con solo un
quinto delle tute blu che hanno scelto il Pd e la sua propaggine di
sinistra, Sel – che pure candidava operai e sindacalisti. Non è una
situazione nuova nella storia e non è un problema solamente italiano –
basti pensare ai voti operai che prende Le Pen in Francia, fortissimo in
quelle che una volta erano roccaforti del Pcf – ma configura un
problema molto serio, sia per la sinistra nel suo complesso, sia per la
democrazia in generale.
Una sinistra senza classe operaia è, per sua natura, una non sinistra.
Non occorre essere marxisti per riconoscere che gli interessi del
lavoro, degli sfruttati sono da sempre il pane quotidiano di tutti i
partiti che si riconoscono nelle diverse famiglie del laburismo, dalla
socialdemocrazia alla sinistra comunista. Per dirla con Bersani, la
difesa del lavoro dovrebbe essere la ragione sociale della ditta – che
altrimenti ha davvero poca ragione d’essere. A maggior ragione in un
periodo di crisi, con la disoccupazione in preoccupante aumento e la
povertà, che pareva una volta sconfitta e che fa sentire i suoi morsi
anche tra la classe media.
Invece per anni il Pd ed i suoi predecessori hanno tentato – invano, per
altro – di accreditarsi verso mercati e alta borghesia, tutto a
discapito della difesa del lavoro. Ed ecco allora precariato e carico
fiscale, accompagnato in ultimo dall’Imu impagabile per la maggior parte
dei percettori di reddito da lavoro dipendente. Insomma, una
bastonatura continua, durata vent’anni, col risultato di trovarci ora
con una classe operaia senza sinistra che la possa rappresentare. E che
dunque cerca altre protezioni, dalla Lega a Grillo che, a torto o a
ragione, vede più vicini e meno compromessi con il potere. Da una parte
il M5S proponeva un salario sociale, dall’altra Berlusconi che
prometteva meno tasse e più reddito, in mezzo la Lega che si affida da
sempre ad una propaganda para razzista che invece di concentrarsi sulle
sperequazioni di classe punta il dito contro gli stranieri – un’arma
purtroppo sempre efficace davanti allo spettro della disoccupazione.
Insomma, gli altri partiti hanno parlato ai bisogni materiali dei
lavoratori, mentre il Pd ha continuato la sua lunga parabola di
moderatismo politico ed economico. E’ pur vero che Bersani, a parole, ha
provato a riportare il lavoro al centro del programma dei democratici,
ma è difficile essere credibili quando alle parole non seguono i fatti.
Era, in fondo, lo stesso Pd che aveva votato la riforma Fornero, si era
opposto al referendum ed aveva cercato per mesi l’accordo con Monti e i
poteri forti. Né le cose paiono essere cambiate veramente ora: Bersani e
i suoi si pentono del troppo moderatismo e fanno un parziale mea culpa
sulla campagna elettorale, ma il lavoro ed i diritti sociali sono
drammaticamente assenti dagli 8 punti di Bersani. Mentre Fassina critica
l’Europa liberista, ma rilancia l’idea di un coordinamento delle
politiche fiscali che non farebbe altro che confermare l’assurda austerity di questi anni.
Passati sembrano ormai i tempi in cui si diceva che l’interesse della
classe operaia era l’interesse generale. Una nozione che, se ci pensiamo
bene, non ha nulla di ideologico. Dire che gli interessi dei lavoratori
sono gli interessi di tutto il Paese è, in fondo, una semplice
banalità. Non esiste prosperità, non esiste ricchezza, non esiste
crescita economica e tanto meno democrazia quando la ricchezza è divisa
così iniquamente, quando non c’è futuro e speranza di una vita migliore,
quando non ci sono diritti. Tutto questo, un principio davvero basilare
per ogni persona di sinistra, è stato perso e per il Pd e soci
l’interesse generale è diventato quello dei mercati, quello delle banche
– favorite, aiutate, vezzeggiate mentre si continuava a tartassare il
lavoro. Se non si ripartirà dal lavoro, dalla crisi, dagli interessi
materiali di giovani, disoccupati, sfruttati ed emarginati non solo si
perderà inesorabilmente, non solo si abbandonerà l’idea di una società
migliore, che dovrebbe essere l’unica vera ragione della sinistra, ma si
spingeranno gli elettori verso pulsioni populiste che rischiano di
mandare a gambe all’aria la nostra democrazia.
giovedì 21 marzo 2013
Educazione e povertà nell'Italia del nuovo Millennio
di Francesca Congiu
Il caso del referendum bolognese per abolire il finanziamento alle paritarie, in calendario per il 26 maggio, colloca il problema della scuola pubblica tra le incertezze programmatiche del PD. Una strategia, quella del PD bolognese, che si proietta inevitabilmente a livello nazionale e chiama ad un pronunciamento drastico e finalmente controcorrente rispetto alle logiche di ispirazione classista che hanno portato alla distruzione dei fondamenti costituzionali del sistema scolastico. (Tali politiche vengono da lontano, ma l’approvazione alla Camera del disegno ex-Aprea, con la maggioranza PD PDL-UDC è stata un’ulteriore spinta verso la privatizzazione del sistema, che minaccia così di perdere la sua ispirazione pluralista idealmente avversa ad ogni ingerenza confessionale e ogni forma di discriminazione).
Altro inquietante segnale dell’allontanamento della scuola pubblica dal solco costituzionale è la notizia dell’avvio dei test di selezione per garantire o impedire agli studenti medi l’accesso ai licei.
La giustificazione dei presidi che hanno adottato questo provvedimento nelle loro scuole oscilla fra una supposta idea di “meritocrazia” (classi omogenee e maggiore motivazione) e una più pragmatica idea di recupero degli spazi scolastici per far fronte al boom delle iscrizioni.
I rischi connessi ad iniziative di questo tipo riguardano ancora una volta la perdita della dimensione democratica e pluralista della scuola. Infatti, l'uso della parola "meritocrazia" per definire le competenze dei ragazzi che escono dalle medie o addirittura dei bambini che provengono dalle elementari, suona profondamente ingiusto. Ingiusto come "fare parti uguali fra diseguali", direbbe Don Milani. Perché - e scuserete il "populismo" d'accatto - un "4" o un “6” del figlio del pastore o dell'operaio non è un "4" o un “6”del figlio del professore o dell’imprenditore. Gli indicatori della valutazione registrano i deficit e servono a fotografare la situazione dell’apprendimento, ma la politica (anche quella scolastica) se vuole essere democratica non può fermarsi a questo livello e fare mera selezione sulla base dei dati. Se ne dovrebbe servire per tentare di attenuare o ridimensionare le forbici formative. I dati invece sono più semplicemente usati come pretesti: "Che i tagli alla scuola e all'educazione non fossero necessità economica ma politica, non una misura di risparmio ma di controllo della mobilità sociale, non principio di razionalità ma ideologia, è ormai un fatto" (così nel commento del Manifesto).
I numeri della situazione scolastica italiana bene si leggono nel Rapporto Bes 2013 e, precisamente, nel Capitolo 2 su Istruzione e Formazione, dove ad esempio alla voce "rapporto fra livello culturale dei genitori e l'istruzione dei figli" i numeri dicono che “la scuola non riesce a riequilibrare lo svantaggio familiare di partenza”; dati questi che vanno accostati ai carotaggi sulle disarmonie geografiche che rivelano una “questione meridionale” della scuola, che trasferisce quasi naturalmente i deficit dalla formazione superiore a quella universitaria, concentrandoli soprattutto nelle regioni del sud. E questo per rimanere dentro il territorio nazionale, perché il confronto a livello europeo e in area OCSE è mortificante con livelli di literacy per noi imbarazzanti. Dopo il fallimento delle strategie di Lisbona in materia di istruzione e formazione (2010) l’Italia si prepara forse a disattendere il piano “Education and training 2020”, piano basato su tre priorità fondamentali: una crescita intelligente (fondare un’economia basata su conoscenza e innovazione), sostenibile e soprattutto inclusiva, tesa cioè a valorizzare la coesione economica, sociale e territoriale e ad omologare (democratizzare) a livello europeo le competenze (attraverso il dispositivo di traduzione denominato EQF- European Qualification Framework).
Come possiamo in Italia essere competitivi a livello europeo dove si chiede alla scuola di “lottare contro la povertà” (e queste parole vengono realmente usate nelle varie disposizioni), se il nostro sistema al suo interno, per la costante disattenzione ai contesti e alle provenienze, promuove e giustifica il privilegio, la disuguaglianza, la marginalizzazione territoriale e sociale? Quali le risposte dei partiti che si definiscono realmente democratici?
Cipro, tra Russia ed Europa
Riportiamo qualche altro commento dalla stampa internazionale sulla crisi di Cipro. Il Parlamento di Nicosia ha rifiutato il bail out europeo e Bruxelles e Berlino ora chiedono un altro piano. Il convitato di pietra, in questo caso, è la Russia che ha interessi importati nell'isola mediterranea, dove gli oligarchi ammassano le loro fortune per poi farle rientrare in patria a tassazione agevolata.
Il problema, però, non è solo di Cipro. L'Islanda, tanto per dire, era in una situazione molto simile, con un sistema bancario gonfiato dalla valuta estera - nel caso di Cipro le passività del sistema finanziario sono 8 volte il PIL, ed in Islanda erano 10 volte il valore dell'economia. Ma anche stati più grandi, come l'Irlanda (4 volte superiore) e la Gran Bretagna (4.5) si trovano in situazioni simili. Tutti e quattro i paesi sono incorsi in gravi crisi bancarie, con gli ultimi due per il momento salvati dai propri cittadini a costi elevati, mentre l'Islanda ha fatto pagare il costo della crisi ai creditori. Il piano UE era di dividere le perdite su entrambi i fronti (prelievo sui depositi di tutte le dimensioni e senza discriminazione esteri-domestici, cosa per altro proibita dall'Europa) ma il Parlamento cipriota, appunto, ha detto no. Trovare i soldi nella sola economia cipriota, troppo piccola, pare improbabile, a meno che non si trovi un accordo con i russi sul gas del Mediterraneo. La soluzione più equa e convincente pare in ogni caso far pagare il conto ai creditori più ricchi, cioè una tassa solo sui depositi maggiori. E chiedere nel caso alla Russia di compensare per le perdite dei propri cittadini - come in effetti avrebbe dovuto fare la Grecia, tanto per dire, invece di accettare il piano d'austerity.
Non è una soluzione facile, ne và dello status di Cipro e del suo intero sistema bancario - come spiega bene nell'articolo qui sotto Jeremy Warner - ma di mezzo ci sono anche gli interessi strategici della Germania e i suoi rapporti con la Russia (non è una sorpresa che sian stati proprio Merkel e Schauble ad insistere per un bail out salva russi, pur senza spese addizionali per i tedeschi). In generale, però, come fa notare Paul Krugman nell'articolo successivo, quello di Cipro è un problema del capitalismo finanziario tutto, dove i movimenti di capitale destabilizzano il sistema e creano paradisi off-shore per chiunque ne abbia la possibilità. Anche rimettere in ordine Cipro non servirebbe. In fondo, i capitali russi fuoriusciti da Nicosia potrebbero pur sempre trovare ottimo alloggio a Londra. Ed il discorso non finisce qui. Come avevamo spiegato tempo fa, e come spiegato anche nell'ultimo articolo presentato, di Martin Wolf, in discussione è il rapporto tra banche e governo. E' giusto che i governi garantiscano i depositi, sballando dunque il sistema di incentivi della banche stesse, che possono dunque continuare a comportarsi irresponsabilmente? Il problema è globale e necessita una risposta globale.
Cyprus should do what Iceland did, and just confiscate the Russian money
Jeremy Warner
da Telegraph
It's a funny thing about small islands on the fringes of Europe – or in the case of the UK, not so small – but they do seem particularly prone to banking crises, as the latest shenanigans in Cyprus has once again proved. "Maybe it is something in the surrounding waters, but banks in such places evidently should come with a “caveat insula investor” (Let the island investor beware) sign in the window!" muses Jacob Funk Kirkegaard in this penetrating piece for Washington's Peterson Institute.
Whatever. One thing they do have in common is that they all allowed their banking sectors to grow to sizes where they were essentially too big to save – or almost too big to save in the case of the UK. Pre-crisis, Iceland's banking liabilities amounted to around 10 times its annual GDP, with Ireland it was four times, and with Cyprus it is eight times. Britain was at least 4.5 times.
Britain has gone its own route in dealing with the fall-out from a banking sector which massively outgrew the economy. But for smaller islands where the same phenomenon has occurred, two very different approaches have emerged. The choice, as Mr Kirkegaard puts it, is between an "Icelandic bail-in" and an "Irish bailout".
In Iceland, the government allowed the banks to go bust but protected domestic retail and wholesale depositors. The losses were instead born by other creditors, including bondholders and foreign depositors in the UK and the Netherlands. Iceland subsequently agreed partially to pay the British and Dutch deposits back over time.
In Ireland, by contrast, they saved the banks with a blanket guarantee of all creditors. This proved unmanageable and eventually forced the Irish government into insolvency alongside the banks. Irish taxpayers are still paying for the consequences of that guarantee. Banking losses have fallen on them rather than creditors – hence extreme levels of austerity in the form of tax rises and government spending cuts.
The size of Cyprus's banking sector at an astonishing 800 per cent of GDP makes it much closer to Iceland than to Ireland. Cyprus could not have gone the Irish route even if it had wanted to. Its banking sector is too big to save. At "just" 400 per cent of GDP at the time the balloon went up, the Irish nation was in a better position to bankroll the losses. With Cyprus, as with Iceland, it's just not possible.
As proposed, bondholders are to be protected in the Cypriot bailout, consistent with the approach applied elsewhere in the eurozone. But even if they weren't, they are not big enough as a capital class to cover the losses. This has made applying a hair cut to depositors inevitable.
European rules, moreover, prevent the Cypriot government attempting to replicate Iceland (which is not in the EU) by protecting domestic retail depositors from a wider creditor haircut. Expropriation that discriminates between Cypriot depositors and other EU deposits is not allowed.
The obvious solution would therefore be to default on the Russian deposits, accounting for about a third of the total, or at least all deposits above the insured rate of €100,000. Unfortunately, this would be the end of Cyprus's banking industry, and the supposed economic benefits it brings to the island. A defaulting bank is a dead bank.
This none the less is essentially the choice facing the Cypriot authorities. To haircut insured deposits is political suicide, and as we have seen, profoundly destabilising for the eurozone as a whole. If it can happen in Cyprus, then it can happen elsewhere.
So why not just make the Russians bleed. If, as widely suspected, it's largely mobster money, would anyone care apart from the Russians themselves? And if the Russian government really does care, should it not be bailing out its own citizens, rather in the way the British and Dutch governments were forced to in the case of Icesave.
Admittedly, it would make Cypriot banks, and by extension the European Union, pariahs in Russian eyes. Germany in particular has made good diplomatic and trade relations with Russia a priority in recent years. These would be jeopardised. Cypriot's banking model would also be over, not to mention the backhanders liberally heaped on the higher echelons of Cypriot society. That particular gravy train would not be calling again.
But shocking to the traditional rules of banking though this solution might be, it is surely better than expropriating insured deposits, and/or, loading up taxpayers with decades of austerity. As Iceland demonstrates, small countries can and do get away with this sort of thing.
As for where the Russians then turn as a home for their dodgy money, well, there's always London…
The Яussians Are Coming! The Яussians Are Coming!
di Paul Krugman
da NYT
How big a deal is the Russian factor in Cyprus’s crisis? Pretty big, it seems. Over at FT Alphaville, Izabella Kaminska reports on estimates of 19 billion euros in Russian nationals’ deposits in Cyprus banks, which is more than the country’s GDP. Without being an expert here, I wonder whether this is an understatement; given what we think we know about the nature of much of this Russian money, is all of it really being declared as Russian?
Let me make a broader point: we’ve now seen three island nations around Europe become huge international banking hubs relative to their GDPs, then get into crisis because their domestic economies don’t have the resources to bail out those metastasized banking systems if something goes wrong. This strongly suggests, to me at least, that we have a fundamental problem with the whole architecture (to use the preferred fancy word) of international finance.
As long as you haven’t bought into the Barney-Frank-did-it school of thought, you realize that the global crisis of 2008 was in a fundamental sense made possible by the erosion of effective bank regulation. As Gary Gorton (pdf) has documented, we had a 70-year “quiet period” after the Great Depression in which advanced countries had very few major financial flare-ups; Gorton argues, and most of us agree, that the key to this quietness was a constrained, regulated financial system that also limited the opportunities for excessive non-bank leverage.
But this regulation in turn depended, to an important extent, on limited international capital flows; otherwise regulations made in Washington or elsewhere would have been bypassed via havens like, well, Cyprus. And once capital controls began to be lifted in the 1970s we entered an era of ever-bigger financial crises, starting in Latin America, then moving to Asia, and finally striking the whole world.
So what are we going to do about this? Cyprus, as a euro-zone country, should really be part of a euro-wide safety net buttressed by appropriate regulation; it’s insane to imagine that the euro can be run indefinitely with merely national deposit insurance. But euro-area deposit insurance doesn’t seem to be in the cards — and anyway, there are plenty of other potential Cypruses out there.
All of which raises the question, is the era of free capital movement just a bubble, fated to end one of these years, maybe soon?
da NYT
How big a deal is the Russian factor in Cyprus’s crisis? Pretty big, it seems. Over at FT Alphaville, Izabella Kaminska reports on estimates of 19 billion euros in Russian nationals’ deposits in Cyprus banks, which is more than the country’s GDP. Without being an expert here, I wonder whether this is an understatement; given what we think we know about the nature of much of this Russian money, is all of it really being declared as Russian?
Let me make a broader point: we’ve now seen three island nations around Europe become huge international banking hubs relative to their GDPs, then get into crisis because their domestic economies don’t have the resources to bail out those metastasized banking systems if something goes wrong. This strongly suggests, to me at least, that we have a fundamental problem with the whole architecture (to use the preferred fancy word) of international finance.
As long as you haven’t bought into the Barney-Frank-did-it school of thought, you realize that the global crisis of 2008 was in a fundamental sense made possible by the erosion of effective bank regulation. As Gary Gorton (pdf) has documented, we had a 70-year “quiet period” after the Great Depression in which advanced countries had very few major financial flare-ups; Gorton argues, and most of us agree, that the key to this quietness was a constrained, regulated financial system that also limited the opportunities for excessive non-bank leverage.
But this regulation in turn depended, to an important extent, on limited international capital flows; otherwise regulations made in Washington or elsewhere would have been bypassed via havens like, well, Cyprus. And once capital controls began to be lifted in the 1970s we entered an era of ever-bigger financial crises, starting in Latin America, then moving to Asia, and finally striking the whole world.
So what are we going to do about this? Cyprus, as a euro-zone country, should really be part of a euro-wide safety net buttressed by appropriate regulation; it’s insane to imagine that the euro can be run indefinitely with merely national deposit insurance. But euro-area deposit insurance doesn’t seem to be in the cards — and anyway, there are plenty of other potential Cypruses out there.
All of which raises the question, is the era of free capital movement just a bubble, fated to end one of these years, maybe soon?
Big trouble from little Cyprus
di Martin Wolf
da FT
A camel,
it is said, is a horse designed by a committee. This is unfair to
camels, which are well-adapted to their harsh environment. The same,
alas, cannot be said of eurozone rescue programmes. The proposed Cyprus intervention,
rejected on Tuesday by the Nicosia parliament, will not help the
eurozone make a smooth exit from its wave of crises. Indeed, the
imbroglio should serve as a lesson in how not to deal with financial and
sovereign debt problems.
Let
us start with why some bank restructuring was inevitable. The
government of Cyprus is both highly indebted and responsible for a
banking sector that is surely too big to save. According to the IMF,
gross government debt reached 87 per cent of gross domestic product last
year and would reach 106 per cent of GDP by 2017, without the bailout.
The sovereign credit rating is also far below investment grade: Standard
& Poor’s rates Cyprus CCC+. That is not surprising: the banking
sector still has assets over seven times GDP. (See charts.)
The banks stand on the edge of collapse. But it is theEuropean Central Bank that has pulled the plug by
threatening not to accept Cypriot government debt as collateral against
liquidity support. Banks have to be recapitalised. Taxpayers cannot do
this, on their own. Without taxing depositors, the proposed rescue
package would have had to be €17.2bn, instead of €10bn, or close to 70
per cent of GDP. This would have brought sovereign debt to some 160 per
cent of GDP: an unsustainable burden. Indeed even the actual bailout
package looks unsustainable, since it would appear to bring gross debt
to 130 per cent of GDP. Under the programme, public debt is to fall to
100 per cent of GDP by 2020. Achieving that will demand substantial
fiscal tightening and lending to Cyprus on easy terms. A restructuring
of public debt is still likely. As Hamlet advises: If it be not now, yet
it will come.
Is
there no alternative to the bail-ins? Yes: direct bank recapitalisation
by the eurozone, for which the sum required is a small matter. If the
banking union had been up and running, that would have happened. It is
not, presumably because core countries do not want to bail out
mismanaged banking systems, such as theoffshore hideaway for Russian capital that is Cypriot banking. The banking union will not arrive before the cleaning up of past mistakes and establishment of new arrangements.
Turn then to whether what was done was right. The answer is: yes, though only up to a point.
Many insist that any tax on deposits is
theft. This is nonsense. Banks are not vaults. They are thinly
capitalised asset managers that make a promise – to return depositors’
money on demand and at par – that cannot always be kept without the
assistance of a solvent state. Anybody who lends to banks has to
understand that. It is inconceivable that banking – a risk-taking
financial business – can operate without exposure to loss of at least
some classes of lenders. Otherwise, bank debt is government debt. No
private business can be allowed to gamble with taxpayers’ money in this
way. That is evident.
The
question, then, is not over the principle that lenders can face losses.
It is about which of them should do so and to what extent. Apparently
on the insistence of Nicos Anastasiades, the president of Cyprus, losses
are to be imposed on deposits of less than €100,000, the upper limit
for deposit insurance in the eurozone. The idea is to tax these smaller
deposits at 6.75 per cent and the bigger ones at 9.9 per cent. That may
now change – and for good reason. But forgoing the former would mean
raising the rate for deposits above €100,000 to 15 per cent, to raise
the required sum of €5.8bn. A good thing, I would argue. But the Russian government does not agree . Nor does that of Cyprus.
A
big question is why ordinary Cypriot taxpayers should rescue banks at
all? With no bailout and full protection of deposits under €100,000, the
tax on the remainder (after allowing for €1.4bn from wiping out the
junior creditors) would rise much further. Unjust? No. The only argument
against this is that the government, as agent for taxpayers, created a
dangerous financial system. So taxpayers must bear part of the cost.
Yet
bail-ins create dangers. The actual package under discussion is a
balancing act between those frightened of creating further panic and
others determined to address “moral hazard”. The result may be the worst
of both worlds. The fact that depositors are on the hook may trigger
flight elsewhere. At the same time, taxpayers still bear a big part of
the costs of failures.
This leads me to some big worries.
The
first concern is the deal itself. The decision to impose losses on
insured deposits is indeed a big error. (Yes, it is a default, not a
tax.) But the decision to bail in some deposits was not an error.
However unpopular it may be, a resolution regime that makes this a
reality is necessary, in Cyprus and elsewhere. Another concern is the
blanket coverage of the tax, which does not vary from bank to bank. This
robs even big depositors of the incentive to monitor bank solvency.
The widest concern comes from the Banker’s New Clothes, the book by Anat Admati of Stanford and Martin Hellwig of the Max Planck Institute, which I reviewed earlier this week. Banks have so little loss-absorbing capacity that they stand permanently on the edge of disaster.
The
case of Cyprus is an extreme example: beyond a small amount of equity
stood only some €2.7bn in unsecured bonds (€2.5bn junior and €200m
senior) protecting €68bn in deposits. Rightly or not, the other,
including interbank loans were deemed untouchable. (See chart.) This
structure gives the authorities not just in Cyprus, but virtually
everywhere, a terrible dilemma: either rescue all institutions, thereby
validating the riskiest business models and, at worst, putting the
solvency of governments in danger; or refuse to rescue them and so risk
causing a depression at home and panic abroad, particularly within the
tightly integrated eurozone.
The
eurozone must either make the industry far more robust, by hugely
increasing equity capital, or consolidate fiscal capacity and tighten
regulation, to ensure adequate eurozone-wide oversight and fiscal
support. What is frightening is not that tiny Cyprus got into trouble,
but that it is a source of wider danger. Banking is dangerous
everywhere. But it still threatens the eurozone’s survival. This has to
change – and very soon.
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