martedì 30 aprile 2013

Quando la moneta non basta


di Nicola Melloni
da Liberazione

In Italia ed in Europa ci si continua a domandare come mai la crisi non finisca, come mai tutta la liquidità messa in circolazione dalla Bce non porti ad una crescita degli investimenti. La risposta più comune è che sia tutta colpa delle banche, un'analisi sottoscritta recentemente anche da Mario Draghi.
La realtà è però diversa. Una visione di questo tipo è in realtà condizionata da una percezione sbagliata del funzionamento del sistema economico, che continua ad essere affidato al mercato. Una percezione che si accompagna perfettamente all’austerity e secondo la quale lo Stato non ha nessun ruolo se non quello di tenere in ordine i conti economici. Di conseguenza, la politica fiscale viene esclusa, almeno nel suo ruolo anti-ciclico, dagli strumenti per uscire dalla crisi e ci si affida semplicemente alla politica monetaria, sostenendo, o meglio, sperando, che un tale afflusso di liquidità a tassi molto bassi possa rilanciare gli investimenti.
Non è successo. L’espansione monetaria si è rivelata la risposta giusta alla domanda sbagliata; un aumento della liquidità del sistema sarebbe utile se la scarsa crescita derivasse dal cosiddetto credit crunch, cioè se ci si trovasse in presenza di offerta di moneta insufficiente. In realtà, invece, si tratta del caso contrario, di scarsità di domanda: sono le imprese ad essere riluttanti ad investire, anzi stanno facendo proprio il contrario, riducendo i propri debiti (deleveraging) per rimettere a posto i propri conti. Detto in parole povere: pochi imprenditori sono disposti ad investire. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Con la disoccupazione alle stelle, con i consumi in calo, quali sono gli stimoli per fare nuovi investimenti?


fonte: Richard Koo, Institute for New Economic Thinking

In un periodo di crisi, con i fondamentali macroeconomici in continuo peggioramento, l’economia reale al meglio stagnante ed il settore privato in ristrutturazione, le forze del mercato non sono in grado da sole di portare l’economia fuori dalla recessione. A maggior ragione se lo Stato, invece di supportarle, crea le condizioni per un peggioramento del ciclo economico. Quello che è successo in questi anni è una politica monetaria espansiva – appunto i famosi quantitative easing – accompagnati da una politica monetaria restrittiva – l’austerity. Per molto tempo si è provato a dare una giustificazione teorica a questo mix di politiche economiche, continuando sostanzialmente a sostenere quella che Paul Krugman ha chiamato confidence fairy, la fatina della fiducia: rassicuriamo i mercati, mettiamo a posto i conti, ed investimenti ed occupazione riprenderanno. Qualsiasi tipo di intervento attivo dello Stato nell’economia reale è stato accuratamente evitato, anzi, stigmatizzato. La politica fiscale, strumento principe di politiche anti-cicliche, è stata accantonata, per continuare a sponsorizzare una visione del mondo mercatista, che continua a vedere con sospetto qualsiasi tipo di intervento pubblico. Ora ci si comincia, piano piano, a rendersi conto dell’assurdità di questa politica, tanto che anche un oltranzista come Olli Rehn ha effettuato una prima, timidissima, marcia indietro, parlando di aprire una nuova fase post-austerity.
La spesa pubblica aumenta l’occupazione, i salari, il denaro in circolazione, i consumi. Cioè tutto quello di cui ha bisogno l’economia reale. Soprattutto quando, proprio grazie all’espansione monetaria, questa spesa può essere finanziata a costi irrisori.
Infatti una buona fetta della liquidità immessa nelle banche e che non è passata al settore privato, è stata utilizzata per comprare titoli di Stato, di conseguenza abbassando il famigerato spread. E’ tutto qui il segreto di pulcinella: mentre Monti e soci si glorificavano di aver rassicurato i mercati e riportato i tassi di interesse sotto controllo (e l’economia intanto, chissà come mai, non ripartiva), in realtà era a Francoforte che si interveniva per dare respiro agli Stati più soffocati dalla crisi. La Bce, prestando denaro alle banche private ad un tasso irrisorio proprio mentre i mercati finanziari erano pieni di titoli ad alto rendimento, ha di fatto indirettamente prestato denari degli Stati, aggirando il divieto di finanziare i debiti pubblici. Mossa giusta, per altro, anche se rimane un costo sociale implicito nel profitto fatto dalle banche che hanno semplicemente agito da intermediari tra la Bce e gli Stati quando sarebbe stato molto più opportuno che fosse la Banca Centrale ad acquistare direttamente i titoli. Purtroppo però l’assurda austerity imposta dalla Trojka ha limitato artificialmente la maggior capacità degli Stati di aumentare la spesa a costo (quasi) zero.
Come abbiamo detto, dunque, i quantitative easing non hanno avuto nessun effetto, né diretto né indiretto sull’andamento dell’economia reale. La liquidità è rimasta nel sistema finanziario, da una parte abbassando il rendimento dei titoli pubblici e, dall’altra, inflazionando i titoli azionistici. Ci ritroviamo così nuovamente in una situazione in cui l’economia finanziaria è totalmente distaccata da quella reale: borsa in pieno rilancio, sia in Usa che in Europa, a fronte di performance economiche che rimangono tra il mediocre ed il disastroso. Con un curioso – ma in fondo, neanche tanto – paradosso. E cioè che le Banche Centrali, così attente e preoccupate dell’inflazione, lascino che il prezzo delle azioni continui a salire senza un concomitante aumento di valore: un fenomeno, appunto, inflattivo, o se vogliamo il crearsi di un’altra bolla finanziaria. Che favorisce i soliti noti – i percettori di reddito da capitale – mentre il lavoro salariato – ove ancora esista – paga le conseguenze della crisi. Che in questa maniera non finirà mai.

L'Emilia rossa diventa grillina

Riportiamo un interessante articolo di Dario Di Vico sulla crisi del modello emiliano, per anni e decenni il fiore all'occhiello del Partito Comunista ed esempio di buon governo, socialità, opportunità e di come la socialdemocrazia scandinava potesse funzionare anche in Italia. Un modello ormai sfiorito, però, come ribadisce anche Di Vico. Gonfi e tronfi per i risultati non da loro ottenuti, ma ereditati da chi aveva costruito prima di loro, gli amministratori emiliani - e quelli bolognesi in particolare - hanno smesso di investire su capitale umano, infrastrutture, sono divenuti sordi al cambiamento e alle esigenze delle persone. Sono stati incapaci di mantenere il passo della modernità, risultando in una crisi politica senza precedenti, dal successo di Guazzaloca ormai quasi 15 anni fa, al fallimento politico del periodo di Cofferati, all'imbarazzante scandalo Del Bono. Nel mezzo, problemi mai risolti, l'affaire Civis, la qualità della vita in costante calo, il proverbiale civismo emiliano in crisi. E con un referendum contro le scuole private a Bologna che rischia di diventare un atto di accusa contro l'incapacità del PD di fare non solo buona politica, ma anche buona amministrazione. Mentre  il M5S avanza.

Il paradosso di Bologna, alto capitale sociale e bassa circolazione delle élite

di Dario Di Vico
da Style
 Il tema è venuto fuori durante la recente presentazione del libro di Franco Mosconi sul modello emiliano. La sede non poteva essere più congeniale: la biblioteca della casa editrice del Mulino. Provo a sintetizzarlo: come è possibile che Bologna e la sua regione, territori ad alto capitale sociale, appaiano all’esterno come “società chiuse”, caratterizzate da una scarsa circolazione delle élite?  Sul primo assunto c’è poco da discutere. Studiosi di numerosi Paesi hanno lodato negli anni la capacità sistemica del modello emiliano, l’aver saputo creare una robusta infrastruttura civile di partecipazione che si è rivelata nel tempo uno dei caratteri distintivi del territorio. E’ chiaro che ciò è stato possibile non solo in virtù del genius loci ma di un connubio strettissimo tra le culture preesistenti e il pensiero della sinistra, da tempo immemore maggioritaria da queste parti. Il pensiero di una sinistra “compiuta” che qui è riuscita ad essere/rimanere ancorata alle radici popolari e quasi mai animata da un sentimento di superiorità antropologica nei confronti dell’avversario o dell’elettore medio. Questa infrastruttura civile è stata determinante per migliorare la qualità dei servizi offerti dall’operatore pubblico, per creare un circuito positivo di consenso con la popolazione, per alimentare un diffuso sentimento di appartenenza. Politica e antropologia sono stati un tutt’uno. L’insieme di questi fattori ci siamo abituati a catalogarlo come “capitale sociale” ma ci siamo anche pigramente acconciati a considerarlo immutabile nel tempo. E invece come accade per le infrastrutture fisiche anche quelle civili risentono dell’uso e nel caso in esame di una progressiva tendenza a fabbricare procedure, riti, macchine politico-amministrative. Se volessimo restare nell’ambito del lessico finanziario usato come metafora potremmo dire che nel tempo il modello emiliano non è stato capace di operare degli aumenti di capitale sociale, si è considerato sufficientemente patrimonializzato all’infinito. Niente di grave, capita anche ai migliori. Guai però a dimenticarsene e ripetere le frasi fatte, bearsi del medagliere e dimenticare le sfide in essere. E la principale delle contese in campo oggi riguarda sicuramente la circolazione delle élite. Le società chiuse operano prevalentemente per cooptazione, includono con il contagocce e lasciano prevalere gli stessi cognomi, spesso doppi cognomi. Sta accadendo qualcosa del genere a Bologna e in Emilia? Penso proprio di sì, anche se si fatica a tematizzarlo, c’è una convenzione politico-culturale che porta a sottolineare lo stock di patrimonio sociale ma non i flussi. E invece se una società vuole rinnovarsi deve badare innanzitutto ad assicurare mobilità “nuova” al suo interno e un’adeguata e costante liberalizzazione delle élite. La reazione degli elettori che hanno premiato ad abundantiam i grillini è anche (in parte) una reazione alla mancata movimentazione sociale. Non è un caso, del resto, che l’Emilia sia considerata la culla del Movimento 5 Stelle.

lunedì 29 aprile 2013

Letta e il risanamento

Si può dire poco dopo un discorso programmatico fatto di tante idee e pochi fatti concreti. Sappiamo che si ferma l'IMU per Giugno e poi si rimodula, come chiesto dal Pdl. Cosa questo voglia dire non lo sa nessuno, forse neanche Letta, ma se tornassimo ad una idea per cui le case dei ricchi non pagano imposte saremmo veramente nella repubblica delle banane.
Si continua ad insistere sul risanamento, l'unica stella polare del centrosinistra dai tempi di Prodi con la differenza che ora siamo in crisi e l'unica cosa importante dovrebbe essere sviluppo e occupazione. Bizzarro e assurdo, comunque, il concetto espresso. Per anni abbiamo scaricato i debiti sulle generazioni future, quella attuale non lo farà. Cioè, i giovani attuali pagano per i debiti vecchi e per risanare quelli futuri. Bella idea di come deprimere una economia.
Si rendesse conto, Letta, che i veri debiti che scaricheremo sulle generazioni future saranno quelli di un paese a bassa crescita, ad alta disoccupazione, con meno diritti e meno opportunità.

L'Italia resta a terra

Interessante dare una occhiata al ranking degli aeroporti mondiali, una proxy dello stato delle infrastrutture di un paese - ed in questo caso della sua modernità, della sua capacità di sfruttare in pieno le opportunità della globalizzazione. Il ranking viene stilato in base alle domande poste agli utenti e che riguardano ogni aspetto - trasporto pubblico da e per l'aeroporto, taxi, sicurezza, shopping, zone di relax, informazioni, prezzi, etc...
La graduatoria è chiaramente dominata dall'Asia, Singapore, e Seul in testa ed Hong Kong e Pechino nei primi 5, ed in generale 10 dei primi 20. C'è un outlier come il Sud Africa che ha però dimostrato di aver sfruttato al meglio la possibilità data dai Mondiali di calcio (cosa che certo non possiamo dire dalle nostre parti). Gli Stati Uniti si rivelano un paese in crisi, con infrastrutture povere e malfunzionanti - basti pensare anche allo stato delle ferrovie - e con una industria aeronautica ormai a corto di ossigeno. E poi c'è l'Italia. O meglio, non c'è l'Italia. Nei primi 100 aeroporti non ce ne è nessuno del nostro paese. C'è Istanbul, ci sono i Pigs al gran completo con Madrid, Barcellona ma anche Dublino, Atene e Lisbona. Ci sono Malta, e anche i piccoli scali di Birmingham, Manchester. Ma nessuno scalo italiano.
Difficile sorprendersi per chiunque abbia viaggiato nel Belpaese. Fiumicino è una sorta di suk, famoso nel mondo per i tentativi di truffa a danno dei turisti stranieri. Malpensa, costruito ex novo, ha collegamenti con Milano imbarazzanti. A Bologna sono 15 anni che rifanno l'aeroporto ogni due anni, non riuscendo mai a renderlo efficiente. E taciamo di Ciampino per amor di patria. Per 20 anni si sono costruiti aeroporti minuscoli per soddisfare le manie di grandezza di qualche ras locale (solo sulla via Emilia ci sono Rimini, Forli, Bologna e Parma, 4 aeroporti in 150 km....senza pensare al resto del Nord) ma senza un minimo piano generale dei trasporti. Il tutto lasciato all'improvvisazione.
Tutti, a parole, sono concordi che il turismo dovrebbe essere una grande risorsa per l'Italia. Ma a parte improbabili video con Rutelli e i cani della Brambilla, nulla è stato fatto. Si è salvata, per modo di dire, l'Alitalia, per poi lasciare andare in rovina gli aeroporti. Uno dei tanti aspetti del miracolo italiano della Seconda Repubblica.

domenica 28 aprile 2013

L'uso politico delle pistole







Spari puntuali per ricompattare il sistema politico, come ogni volta che ci si trova davanti ad una crisi. un tema ricorrente della storia d'Italia. Certamente questa volta sarà solo l'opera di un pazzo isolato - per altro un refrain sentito millanta volte - ma l'occasione è troppo ghiotta per non approfittarne. La solita emergenza democratica stringerà le file dei malpancisti PD che con un pò di bicarbonato voteranno la fiducia al governo Napolitano-Berlusconi (Letta l'hanno messo lì a prendere ordini, tanto per ben due volte si è riferito al Presidente come se fosse il Primo Ministro...).
Ed intanto si scatena subito la caccia al cattivo maestro, al mandante morale. Ovviamente Grillo, soprattutto, e quelli che aizzano le piazze. Perché in Italia, denunciare le oscenità del sistema politico, l'inciucio sistematico, lo svuotamento della democrazia è un atto da eversori. Il PD ed i suoi predecessori hanno fatto di questa dottrina la stella polare della loro linea politica: mai urlare, mai protestare, siamo un partito serio, siamo un grande paese, non spaventiamo i mercati, non ricorriamo a facili populismi. Siamo responsabili noi! Nei confronti di chi, non si sa.
I loro nuovi alleati, i Gasparri, i La Russa, gli Alemanno hanno subito colto l'occasione per prendersela con i protestari. Insomma, davanti alla crisi, sia economica che politica, bisogna stare zitti, che se no c'è sempre un matto con la pistola. Ecco questi signori hanno mai pensato che l'esasperazione della gente, al netto del gesto di un folle, è dovuta al loro comportamento politicamente (e, spesso, non solo) criminale.
Invece di occuparsi della propria poltrona, o degli interessi del loro padrone, invece di fare accordi alla chetichella dopo averli solennemente esclusi, invece di perpetuare politiche assurde che continuano a chiedere sacrifici inutili alla gente, cominciassero a pensare al bene del paese. Silenzierebbero l'opposizione e renderebbero più tranquillo il clima politico. Hanno ragione a dire che chi semina vento raccoglie tempesta. Ma sono proprio loro i colpevoli.

L'austerity al servizio dei ricchi


Che l'austerity non funzionasse l'abbiamo ripetuto all'infinito. Che fosse, in realtà, un disegno politico, pure, come confermato da Paul Krugman nell'articolo che segue. Le fondamenta teoriche della stretta fiscale sono sempre state di cartapesta, se non proprio inesistenti, costruite adattando i dati a proprio piacimento. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, sono lampanti. Cinque anni buttati al vento, miliardi bruciati, vite spezzate, una generazione perduta. Eppure per tutto questo tempo, contro qualsiasi evidenza, contro qualsiasi più che ovvia obiezione, abbiamo continuato, tafazzianamente, a darci martellate sui cogl.... E perché? Perché così voleva, e così ancora vuole l'1% più ricco della popolazione, che durante l'austerity si è ingrassato a dismisura mentre il resto della popolazione tirava la cinghia. Dimostrando, in effetti, due cose: che gli economisti (non tutti, per fortuna) e i media sono in realtà al soldo dei potenti. E che le nostre finte democrazie non sono nient'altro che oligarchie usate per difendere i privilegi di classe dei soliti noti. 

The 1 Percent’s Solution

di Paul Krugman
da New York Times


Economic debates rarely end with a T.K.O. But the great policy debate of recent years between Keynesians, who advocate sustaining and, indeed, increasing government spending in a depression, and austerians, who demand immediate spending cuts, comes close — at least in the world of ideas. At this point, the austerian position has imploded; not only have its predictions about the real world failed completely, but the academic research invoked to support that position has turned out to be riddled with errors, omissions and dubious statistics.
Yet two big questions remain. First, how did austerity doctrine become so influential in the first place? Second, will policy change at all now that crucial austerian claims have become fodder for late-night comics?
On the first question: the dominance of austerians in influential circles should disturb anyone who likes to believe that policy is based on, or even strongly influenced by, actual evidence. After all, the two main studies providing the alleged intellectual justification for austerity — Alberto Alesina and Silvia Ardagna on “expansionary austerity” and Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff on the dangerous debt “threshold” at 90 percent of G.D.P. — faced withering criticism almost as soon as they came out.
And the studies did not hold up under scrutiny. By late 2010, the International Monetary Fund had reworked Alesina-Ardagna with better data and reversed their findings, while many economists raised fundamental questions about Reinhart-Rogoff long before we knew about the famous Excel error. Meanwhile, real-world events — stagnation in Ireland, the original poster child for austerity, falling interest rates in the United States, which was supposed to be facing an imminent fiscal crisis — quickly made nonsense of austerian predictions.
Yet austerity maintained and even strengthened its grip on elite opinion. Why?
Part of the answer surely lies in the widespread desire to see economics as a morality play, to make it a tale of excess and its consequences. We lived beyond our means, the story goes, and now we’re paying the inevitable price. Economists can explain ad nauseam that this is wrong, that the reason we have mass unemployment isn’t that we spent too much in the past but that we’re spending too little now, and that this problem can and should be solved. No matter; many people have a visceral sense that we sinned and must seek redemption through suffering — and neither economic argument nor the observation that the people now suffering aren’t at all the same people who sinned during the bubble years makes much of a dent.
But it’s not just a matter of emotion versus logic. You can’t understand the influence of austerity doctrine without talking about class and inequality.
What, after all, do people want from economic policy? The answer, it turns out, is that it depends on which people you ask — a point documented in a recent research paper by the political scientists Benjamin Page, Larry Bartels and Jason Seawright. The paper compares the policy preferences of ordinary Americans with those of the very wealthy, and the results are eye-opening.
Thus, the average American is somewhat worried about budget deficits, which is no surprise given the constant barrage of deficit scare stories in the news media, but the wealthy, by a large majority, regard deficits as the most important problem we face. And how should the budget deficit be brought down? The wealthy favor cutting federal spending on health care and Social Security — that is, “entitlements” — while the public at large actually wants to see spending on those programs rise.
You get the idea: The austerity agenda looks a lot like a simple expression of upper-class preferences, wrapped in a facade of academic rigor. What the top 1 percent wants becomes what economic science says we must do.
Does a continuing depression actually serve the interests of the wealthy? That’s doubtful, since a booming economy is generally good for almost everyone. What is true, however, is that the years since we turned to austerity have been dismal for workers but not at all bad for the wealthy, who have benefited from surging profits and stock prices even as long-term unemployment festers. The 1 percent may not actually want a weak economy, but they’re doing well enough to indulge their prejudices.
And this makes one wonder how much difference the intellectual collapse of the austerian position will actually make. To the extent that we have policy of the 1 percent, by the 1 percent, for the 1 percent, won’t we just see new justifications for the same old policies?
I hope not; I’d like to believe that ideas and evidence matter, at least a bit. Otherwise, what am I doing with my life? But I guess we’ll see just how much cynicism is justified.        

Il PD ostacolo al cambiamento

di FM

Vivo la designazione di questo governo con totale indifferenza. Gli ultimi fatti politici salienti si sono consumati nell'arco di tempo fra la candidatura Marini, l'affondamento della candidatura Prodi, e la Canossa davanti a Napolitano. Il resto era scritto, ed i dettagli sono appunto dettagli. Ad un risultato elettorale che (con incoerenze, difficoltà e quel che si vuole) chiedeva massimo rinnovamento, il sistema politico ha risposto con la massima conservazione. Hanno evitato di simboleggiarlo con un governo Amato-Violante-Berlusca-Brunetta. Ma con tutto il rispetto (che è maggiore di quello della media di chi scrive e legge questo blog), la Bonino o Josefa Idem non spostano di una virgola il fatto che la sostanza politica del governo è la stessa del governo precedente – PD-PDL con Napolitano garante. Le politiche seguiranno.

Il fatto per me nuovo, che nessuna Idem mi farà dimenticare, è che il PD poteva scegliere di fare una cosa radicalmente diversa convergendo su Rodotà e sostenendo un governo per fare i suoi "otto punti", ed ha invece scelto la conservazione assoluta (di ciò cui si era sempre fermamente opposto, a parole). Anche per i ciechi e i sordi (come me) è ormai chiaro che il PD non è e non potrà mai essere un partito riformista, e che è un ostacolo a qualsiasi prospettiva di rinnovamento. Un partito che va per quanto possibile disarticolato per far nascere qualcosa di nuovo. Non capisco come i vari Fassina non siano ancora usciti. La scissione (o anche il dignitoso abbandono, da soli) mi paiono le uniche opzioni per gente che ha tenuto le loro (mie) posizioni fino ad oggi. Non è escluso che per andare al governo in futuro la sinistra debba poi negoziare con il PD di Letta, Gentiloni, ecc. – ma senza più l'equivoco della comune militanza.

Di fronte a questo fatto politico, anche la mostruosa prova di incompetenza fornita dal personale politico del PD nel periodo post-elettorale perde importanza. Però non ricordo nulla di così spettacolare da quando seguo la politica – ottimo in particolare il no a Rodotà "perché candidato divisivo", con un PD che secondi dopo si è disintegrato nella cannibalizzazione reciproca delle correnti e che si appresta ad una scissione… Da spaccarsi dalle risate, non fosse che così ci hanno rimesso nelle mani della stessa oligarchia di prima per un bel po' di tempo.

sabato 27 aprile 2013

Un governo col manuale Cencelli

Dalla Seconda Repubblica alla Prima, senza passare per la Terza. Così possiamo riassumere il governo Letta che si accinge a prendere la fiducia in Parlamento. Un contentino per tutti, anche per la forma. Un paio di stelline per i cacciatori di lucciole. Ma sì, abbiamo un governo molto rosa, con un pò delle giovani virgulte del PDL, Lorenzin (con un ministero di gran peso come la Salute, auguri!) e la super bi-partisan Nunzia De Girolamo, compagna del lettiano Boccia. E per la prima volta un ministro di origine africana, una olimpionica di origine tedesca (forse era meglio metterla agli esteri che almeno lei con Schauble e compagnia si sarebbe fatta sentire), e pure la Bonino, che tutti amano anche se non si è ancora capito bene il perché, tra cambi di casacca, sconfitte clamorose e posizioni ultra reazionarie in politica economica ed internazionale (di cui per altro andrà a occuparsi).
Così foto assicurate, bei titoli sui giornali, un pò di operazione simpatia.
Dietro si muovono i pesi massimi ex democristiani, sparsi un pò in tutti i partiti: i ciellini se la cavano alla grande con due bei ministeri dal portafoglio pieno, Mauro alla difesa, Lupi alle infrastrutture. E poi Franceschini, Alfano, senza dimenticare naturalmente lo stesso Letta. Non potevano mancare i montiani, che in forza del loro tracollo elettorale si portano a casa la onnipresente Cancellieri, oltre allo stesso Mauro e a Moavero, ed i tecnici, visti gli egregi risultati del passato governo, da Triglia a Giovannini.
Ma soprattutto ministeri a pioggia per tutte le correnti del PD, per tenere tutti buoni in vista della fiducia.  I turchi vengono normalizzati subito in cambio di un posticino per Orlando, i renziani portano a casa Del Rio, senza dimenticare Zanonato, quello del muro di Padova, uno dei leghisti piddini che potrà così supplire meravigliosamente alla mancanza del Carroccio.
E adesso, forza Italia......

venerdì 26 aprile 2013

Il PD alla deriva

Proponiamo due articoli interessanti che esaminano l'evoluzione del PD e i risultati di una politica senza anima, ma basata ormai solo sul potere.
Nel primo pezzo, Massimo Villone parla della degenerazione del PD, ormai diviso in potentati locali, con sempre meno legami con la base e con sempre più personalismi.
Nel secondo articolo proposto, Donatella Della Porta traccia un interessante parallelo tra il PD ed altri partiti di sinistra che, ingabbiati in coalizioni con la destra e ormai concentrati solo al palazzo e non più alle istanze popolari, si condannarono ad un rapido declino: il PSI negli anni 60 (che vide il proprio sostengo dimezzarsi) ed il PASOK negli ultimi anni. Una lezione che non sembra il PD abbia imparato.

La Caporetto dei democratici
di Massimo Villone
da Il Manifesto
                
Non pochi a sinistra pensano che la crisi stia avendo lo sbocco peggiore. Quel che esce dalla debolezza del Pd e dalla sorda indisponibilità del M5s può solo destare amarezza in chi per un momento aveva intravisto uno scenario non privo di promesse. 
Il centrodestra vince nel dopo-partita quel che il popolo sovrano aveva negato nelle urne.
La crisi del Pd. Un tempo sarebbe stato impensabile per un partito bruciare il segretario e poi vedere in pista il vice.  Oggi, si procede come se fosse un normale avvicendamento. In realtà, lo ha spiegato Bersani stesso, nell'ultima direzione Pd, parlando di personalizzazione estrema, anarchismo, feudalesimo.Tutto vero. Ma non lo sapevamo già? 
Il copione di queste settimane si scrive da almeno un ventennio. Dal ciclone dei primi anni novanta non si è mai inteso uscire ripulendo, ammodernando e rafforzando i partiti come strumenti indispensabili di una democrazia davvero partecipata. Sono state invece cercate vie alternative, che in particolare conducessero alla legittimazione popolare degli esecutivi. Non sfugge a nessuno come elezioni formalmente o sostanzialmente dirette e premi di maggioranza abbiano tolto significato alla rappresentanza politica e abbiano svilito la funzione delle assemblee rappresentative, un tempo naturale palestra per i partiti e per la formazione del ceto politico. È un paradosso che da tante parti si lamenti l'esito elettorale in Senato, e assai poco si noti che la governabilità alla Camera viene assicurata da una legge elettorale in forte odore di incostituzionalità. Una legge che ha tradotto un pugno di voti di vantaggio per la coalizione vincente in un vasto margine di seggi, espungendo al tempo stesso dall'assemblea forze pur sempre significative. Come se bastassero i numeri per governare un paese. Chi e cosa rappresenta davvero un'assemblea così costruita?
Qui vediamo un cedimento culturale della sinistra. Ha avuto per lungo tempo nel suo dna la centralità delle assemblee e della rappresentanza politica. Alla fine, non ha saputo difendersi. In questo paese, la destra ha vinto, prima che nei voti, imponendo una cultura politica che buona parte della sinistra ha finito con l'accettare. Con una variante che ne aggrava gli effetti negativi. L'investimento sulle autonomie fatto nel corso degli anni novanta nella illusione di rilegittimare il sistema politico ha - anche per alcuni macroscopici errori fatti nella riforma del titolo V della Costituzione - indebolito lo Stato, che appare oggi forte solo per lo schermo dato dalla crisi della finanza pubblica. Con una perversa sinergia tra localismo e personalizzazione, sono nate repubblichette regionali i cui primi attori sono sindaci e governatori. Le vittime di questa evoluzione sono stati i partiti nazionali e i loro gruppi dirigenti. Non possiamo meravigliarci se oggi siamo circondati da cacicchi.
Ma tutto questo Bersani non lo sapeva? Certamente sì. La sua stessa elezione a segretario è avvenuta con il sostegno di una galassia di potentati locali. Identica vicenda per gli altri componenti del gruppo dirigente. Ciascuno ha il suo seguito in periferia, e il partito è infine una sommatoria dei seguaci di questo o di quello. Era poi evidente che scegliere le primarie per gruppi dirigenti e ceto politico avrebbe inevitabilmente scatenato il conflitto interno tra fazioni e accresciuto il localismo e la frammentazione. Più ancora, la primaria aperta nega qualsiasi concetto di partito organizzato. Perché dovrebbe un iscritto impegnarsi quotidianamente se non sa quanto il suo voto varrà nei momenti decisivi della vita del partito? Nulla è stato fatto per prevenire o evitare il disastro, e niente accade per caso.
Ora, il centrodestra già alza la posta per lucrare sulla vittoria. Se si forma il governo, è probabile un remake di vecchi film, anzitutto sulle «necessarie» riforme. Come se i venti anni trascorsi e l'ultimo turno elettorale non mostrassero che l'ingegneria istituzionale non garantisce buon governo e buona politica, in specie se volta ad avere un uomo solo al comando e un obbediente parco buoi nell'assemblea che vorrebbe dirsi rappresentativa. Risentiremo invece il mantra del rafforzamento di governo e premier, della legge elettorale che garantisca la governabilità, del senato regionale. Mentre avremmo bisogno di ricostruire partiti veri, di combattere la frammentazione localistica, di svelenire il sistema politico togliendo la droga del maggioritario.
Questo paese chiede con forza eguaglianza, diritti, solidarietà. Per questo, ha certo bisogno di un governo forte. Ma non di un governo reso forte con i deboli, e debole con i forti.                                                                      

Il governo bunga-bunga e la protesta dentro il Pd


di Donatella Della Porta
da Sbilanciamoci.info

Che succede a un partito di centro-sinistra quando fa compromessi indecenti con la destra? L’abbandono della base e il declino elettorale sono le lezioni delle esperienze di Psi e Pasok
Mentre i vertici di Pd e Pdl cercano accordi di governo, attivisti del Pd in tutto il paese occupano sedi del loro partito, si autoconvocano, bruciano le loro tessere in pubblico o le restituiscono in privato. Se certamente l’oscenità di un governo del bunga-bunga a guida pidina è (o sarebbe?) circostanza storicamente unica, non è invece la prima volta che si formano, dentro e attorno a partiti di centro-sinistra, movimenti di opposizione a quelli che vengono considerati da chi protesta come compromessi indecenti, perché snaturanti rispetto a una identità sentita come collettiva.
Gli effetti di questi movimenti sono stati diversi, a seconda della loro forza nella base del partito così come della presenza di potenziali alleati ai vertici. Se talvolta quei partiti si sono infatti rinnovati, aprendosi alle domande dal basso, in altri casi c’è stata invece una chiusura, con almeno due effetti disgreganti: abbandono da parte degli attivisti delusi e declino in termini elettorali.
La perdita degli attivisti – spesso considerati con fastidio dai vertici – ha in genere conseguenze nefaste per l’organizzazione, abbassando le barriere rispetto alle motivazioni opportunistiche di chi entra in politica per migliorare la propria condizione economica, e allontanando invece quelli che vedono nella politica un bene comune. Il caso che meglio illustra l’implosione del partito senza più attivisti è quello del Psi. La decisione di partecipare, nel 1963, al primo governo di centro-sinistra porterà, l’anno successivo, all’uscita dell’ala, minoritaria ai vertici, ma fortemente attiva, che fonderà il Partito Socialista di Unità Proletaria. Al declino elettorale (dal 20% del dopoguerra, il Psi si dimezzerà in termini elettorali), seguirà una profonda degenerazione del partito stesso, frammentato in protettorati di politici rampanti, in un contesto di corruzione sempre più diffusa, che minerà l’identità di sinistra del partito, fino alla sua scomparsa a seguito degli scandali emersi nel 1992. Come nel caso del Psi italiano, anche in quello del greco Pasok, il Partito socialista panellenico, lo spostamento a destra, fino al sostegno a un governo di grande coalizione, si è intrecciato a un crollo elettorale di dimensioni drammatiche. Un partito che aveva il 47% dei voti negli anni novanta raggiungerà appena il 12% nelle elezioni del 2012, passando da primo a terzo partito nel paese, mentre a competere con la destra resta la Coalizione della sinistra radicale, Syriza, che riuscirà ad occupare lo spazio abbandonato a sinistra dal Pasok.
Psiup e Syriza sono interessanti illustrazioni delle potenzialità in termini di politica elettorale che l’implosione dei partiti di centro-sinistra può aprire alla sinistra. Il Psiup ha rappresentato un onesto tentativo di difendere un’identità socialista di sinistra, con aperture ai movimenti che si svilupparono alla fine degli anni sessanta. Non a caso, il partito guadagnerà sostegno elettorale da quelle proteste, raggiungendo quasi il 5% alle elezioni politiche del 1968. La struttura organizzativa del partito rimarrà comunque ancorata a un centralismo democratico che ne limiterà la capacità di attrazione per gli attivisti dei movimenti, che nel frattempo sperimentano forme organizzative più decentrate e partecipate. Dopo l’insuccesso elettorale del 1972, il partito si dividerà infatti tra adesioni al Pci e allontanamenti dalla politica partitica verso quella dei movimenti.
Molto diversa sembra invece l’evoluzione di Syriza che, nata nella tradizione della sinistra radicale, si trasformerà profondamente dal punto di vista organizzativo, riprendendo dal movimento degli indignados istanze di orizzontalità, pluralità e inclusione dal basso. Il 27% degli elettori greci voterà Syriza nelle seconde elezioni del 2012 (erano stati solo il 4,6% nel 2009), premiando non solo una coerente opposizione alle politiche di austerity, ma anche una trasformazione nelle forme e nei modi del far politica del partito, che lo porterà ad aprirsi ben al di là della tradizionale base dei partiti della sinistra radicale. Se è difficile dire in che misura il modello organizzativo proposto da Syriza sia applicabile al caso italiano, certamente le opportunità che il prevedibile declino elettorale del centro-sinistra, compromesso col Caimano, aprono a un’opposizione di sinistra non potranno essere colte senza una profonda trasformazione nella concezione stessa della politica. 

Il matrimonio di convenienza tra PD e PDL

di Nicola Melloni
da Liberazione

Guardando l’Italia di fine aprile 2013 sembra davvero di rivedere gli ultimi giorni di Weimar. Una classe politica ormai imbalsamata, incapace di decidere, rinchiusa nel Palazzo, mentre fuori soffia la bufera della crisi.
Un anno e mezzo fa il crollo della destra berlusconiana apriva praterie davanti ad un centro-sinistra impreparato, economicamente, culturalmente e politicamente a prendere l’iniziativa. In Italia la crisi economica era ormai anche crisi organica, di sistema, con la politica tutta incapace di rappresentare le diverse forze sociali, di governare il cambiamento, di organizzare la società. All’orizzonte allora si stagliava un governo di tecnocrati capitanati dall’ex eurocommissario Mario Monti che metteva sotto tutela il Parlamento e la Repubblica tutta, in nome dell’Europa e dei mercati. Non era Monti però il deus ex machina di questa operazione, ma Giorgio Napolitano che aveva imposto alle forze politiche un tale compromesso. Tant’è che per tutta la durata di quel governo il Presidente della Repubblica si incaricò di fare da tutor ad un Premier impacciato e ad un gruppo di ministri mediocre e assolutamente incapace. Facendosi garante di un equilibrio politico conservatore se non reazionario, di difesa dello status quo, di arroccamento su vecchi modelli consociativi, ignorando in maniera plateale le richieste di cambiamento. Esplicativa in questo senso la famosa battuta sul boom dei 5 stelle, ribadita nuovamente nella scelta dei saggi che escludevano il Movimento di Grillo per puntare tutto sulle forze sconfitte e decrepite della politica tradizionale.
D’altronde Napolitano ha usato tutto il potere a sua disposizione, e forse anche di più, per impedire la nascita di un governo di cambiamento, ribadendo anche quando fu dato l’incarico a Bersani che la strada maestra era quella della Grande Coalizione. Una scelta che, dopo l’illusorio tentativo di formare il governo, è stata poi fatta propria dal PD che prima ha tentato la carta Marini e poi è tornato appunto su Napolitano. Ma non è il “compromesso storico” tra due forze in ascesa, rappresentanti di grandi interessi sociali ed economici, ma un matrimonio di convenienza tra due forze politiche in ritirata, incapaci di interpretare il cambiamento, proprio come la SPD e la destra tedesca a inizio anni Trenta.
La scelta di Letta si adatta perfettamente a tale schema ed è in sostanziale continuità con quella di Monti. Un Primo Ministro che risponde direttamente al Quirinale e non al Parlamento, un uomo gradito a grandi imprese, banche, quella parte del Paese che ha portato l’Italia nella crisi attuale, che ha lucrato nella lunga stagione della Seconda Repubblica e che rifiuta il cambiamento. Di fronte ad una crisi epocale, con il vecchio sistema ormai morto e con il nuovo incapace di nascere, la soluzione Napolitano-Letta è un tentativo reazionario di salvare le vecchie classi dirigenti, di garantire i potentati economici, di reimpostare su basi regressive il contratto sociale – democrazia svuotata, diritti annacquati, indebolimento del lavoro. Per tornare a Gramsci, una rivoluzione passiva di stampo conservatore.
Quello che però non è chiaro è la reale solidità di queste forze, incapaci di proporre un qualsiasi disegno strategico, aggrappate più che altro al proprio interesse personale, emarginate dai grandi processi mondiali di ristrutturazione del potere e dell’economia. L’immagine della scorsa settimana di un palazzo assediato raffigura molto bene lo stato attuale della politica italiana. Il malcontento, la rabbia, la disperazione rischiano di esplodere da un momento all’altro e possono prendere qualsiasi forma. L’implosione del PD apre nuove possibilità di riorganizzazione per la sinistra ma allo stesso tempo la solo rimandata esplosione del blocco sociale berlusconiano potrebbe dare vita a formazioni politiche ancor più reazionarie con Grillo che al momento rischia di catalizzare la protesta. Come a Weimar, una politica legale ma ormai illegittima si rinchiude in se stessa mentre fuori il mondo cambia.

L'Angelo Sterminatore - Luis Bunuel, 1962

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La cineteca politica di RI
di Giulia Pirrone

Gli invitati ad una cena che si tiene in una lussuosa villa passano una bella serata, a tal punto da trattenersi fino alle 4 del mattino prima che qualcuno si accorga che si stia facendo tardi. Ma tra regole di bon-ton e dubbi timidamente espressi nessuno si decide ad andar via. Passa la notte e si e' tutti ancora dentro la villa, si comincia ad interrogarsi sulla ragione per cui non si sia andati via. Tra i se ed i ma, chissà, boh, come, quando e perché, nessuno sembra saper nulla, ne' sembra possedere gli strumenti per prendere una decisione. E così passano giorni e notti mentre la ripetitività genera nevrosi e morte. Alla fine poi l'incantesimo verra' spezzato…anche se solo per poco.

Non preoccupatevi, non e' un vostro incubo sulle vicende della dirigenza del PD o più in generale su quelle politiche dell' Italia. E' soltanto un film.

Ancora una volta siamo andati a ripescare nel passato per raccontare gli eventi presenti, a dimostrazione che la nostra società non ha sviluppato una grande comprensione di se stessa nel frattempo.
Questa volta siamo finiti in Messico dove nel 1962 Luis Bunuel realizzo' L'Angelo Sterminatore, finalmente fuori dall'Europa e libero dalla censura franchista.

Anche se ricco come la maggior parte dei film di Bunuel di elementi surrealisti portati alla realtà' dal mondo dei sogni, il film ha una trama piuttosto lineare nella sua circolarita'. Gli eventi ricorrono quasi all'infinito, in una dannazione che le  vittime stesse scelgono di imporsi con la loro incapacità di individuare le proprie intenzioni.
Quando non si comprende la realtà e non si accetta il divenire e l'evoluzione delle cose si vive prigionieri di un eterno presente. Certo, così ci si addentra in un tema molto delicato sia per l'individuo che per la società' intera,  quello dell'immutabilità, che pur non essendo della natura umana, sembra essere la massima ambizione della nostra classe politica.
E d'altronde mai avrei immaginato di trovare consolatorio il principio per cui tutte le vicende umane hanno un termine. Ma magari questo lascia aperta la speranza che anche da noi un giorno qualcosa cambierà.

L'Angelo Sterminatore del titolo e' un demone apocalittico che condurrà l'esercito dell'Abisso per tormentare i vivi per cinque mesi.









giovedì 25 aprile 2013

Tre indovinelli per il 25 Aprile

di Pietro Roversi 

Felicità di vivere in un paese senza filosofia
                                                                                                           (Dino Campana)

I. Il recente ribasso
del tasso d'interesse,
il livello minimale
dell'imposta sul reddito
e il cambio attuale
sono la sua convenienza.
Compensano per l'assenza
del campanello alla porta,
della casella della posta,
dell'imposta alla finestra,
del parafango alla catena,
della pasta a pranzo,
del pane per merenda
e della minestra per cena.
La luce fino a tardi d'estate la sera eclissa
classismo e consumismo. Ci si fida.
Un po' si pianifica e un po' si improvvisa.
Le stesse strofe strane
che uno pensa mentre guida
colla metà destra del cervello,
la sinistra le ravvisa nel ritornello.
Il rubinetto dell'acqua calda e quello
dell'acqua fredda sono allora un asso
nella manica e non un cimento, se uno poi viaggia
ed esplora un territorio dell'ex-impero.
Vento e pioggia in spiaggia,
terreno verde e ameno,
estero, poco clero,
e conformismo di pensiero anche meno.

II. La luce fino a tardi d'inverno la sera
sfuoca un poco sfiducia e qualunquismo.
La frutta, la verdura, il cibo lento,
tutta roba buona di terra fertile,
tutta una struttura sociale
di tipi magari materiali
e provinciali, ma anche aperti,
e dediti senza eccessi
al vino solo occasionalmente.
La botte piena, la moglie in vacanza
a Ferragosto, sulla rena coi bambini.
I bagnini di schiena e le vele. La speranza
di una coscienza civile per le generazioni
che verranno (il pluralismo
delle idee dovr aspettare
quello delle religioni
e senza illusioni, ci vorranno ere intere,
tempi pressoché eterni.)
L'occhio qui vuole sempre la sua parte.
Il che è ottimo per le professioni
legate al benessere, all'arte. O per chi è figo.
E a chi l'aspetto non lo alletta,
si metta pure in castigo, per punizione
o per penitenza in ginocchio, o si tiri in disparte.

III. Una lettera, tre lettere,
un'enciclopedia da portalettere,
un periscopio-caleidoscopio,
una cornucopia, una copia
di tutte le cose di cui sopra,
e molte, molte di più. Sotto, sopra
su, giù. Uno specchio
che ancora non sa esser vecchio.
È globale, ma non banale, conviene che ti ci arrovelli.
È sempre l'ultimo il più fatale degli indovinelli.

25 aprile 2013

Oggi ricordiamo la festa della Resistenza con qualche articolo scritto dai nostri blogger

Il Paese dei Somari
di Monica Bedana

Giorni, questi, che condensano un ventennio; ce lo ripropongono in un’unica amara pillola spacciata nemmeno sottobanco come panacea di tutti i mali.
Ripenso ad un 25 aprile completamente spoglio di tutta la retorica che dovremo sopportare oggi. Agli antipodi, non solo geografici. Un 25 aprile in Nuova Zelanda, Anzac Day, un giorno che lì non si mette in dubbio, non si reinterpreta né si strumentalizza. E’ semplice consapevolezza che non si logora ed è come i diritti: uguale per tutti.
“Il fascismo privilegiava i somari in divisa. La democrazia privilegia quelli in tuta. In Italia i regimi politici passano. I somari restano. Trionfanti”.
Non l’ho scelto a caso Indro Montanelli, oggi. Il mio augurio di buon 25 aprile quest’anno va in particolare a chi fa informazione. Buon lavoro.


Italia. Nazione del gambero
di Simone Rossi
Una repubblica, la prima, nata dalla Guerra di Liberazione, sulle montagne e nelle città. Libera, democratica, popolare.
Poi venne l'era dello sdoganamento dei fascisti e della stigmatizzazione dei comunisti, la seconda repubblica. Imperniata sull'alternanza tra il riformismo che non riforma e la versione da operetta del fascismo.
Infine, la terza repubblica. All'alba del settantesimo anniversario degli scioperi nelle fabbriche del Triangolo Industriale. Una repubblica che ha paura del popolo, oligarchica, che segna il matrimonio tra i riformisti ed i fascisti di cui sopra. Con la benedizione di un presidente-re.
 Riprendiamo il sogno e la speranza dei partigiani (rossi, bianchi, azzurri, di tutti i colori) e diamo loro attuazione, italiani ed italiane.
Buona Festa della Liberazione

La Nuova Resistenza
di Nicola Melloni
No, non c'è il fascismo in Italia oggi. Ma di Resistenza c'è bisogno. La crisi sta distruggendo l'Europa ed il suo concetto di democrazia partecipata. Un nuovo popolo di diseredati, poveri, disoccupati, precari viene espulso dalla vita pubblica, mentre le elezioni diventano una farsa, con le politiche economiche decise non dall'elettorato ma dai mercati. La politica ufficiale è ormai chiusa nel Palazzo, la gente in strada, in piazza. Bisogna resistere all'esaurimento della democrazia, bisogna resistere alle oligarchie. Bisogna resistere ai colpi di Palazzo, come hanno provato a fare migliaia di cittadini in questi giorni, bombardando di messaggi, email, tweet i politici, occupando le scelte del PD. Sono resistenti. Siamo resistenti.

Resistiamo, insieme
di Simone Giovetti

Viviamo giorni difficili, confusi, disseminati di trappole, strade senza uscite. Resistere contro chi?
Ci sentiamo in trincea ma quando alziamo la testa per sparare i nemici hanno cambiato divisa ed esitiamo a sparare.
Dormiamo
E il giorno dopo, da svegli, scorgiamo in lontananza i nostri generali fare colazione con quelli che ieri comandavano le truppe nemiche.
Siamo stanchi, più i giorni passano più è difficile trovare un senso al combattimento.
Fino a ché, un giorno, sul far della sera, timidamente, ci arriva all’orecchio la voce di qualcuno, che poco lontano, chiede aiuto. E allora appoggiamo il fucile e ci avviciniamo, per sentire meglio. Lo ascoltiamo e sentiamo che ha paura. Non solo per la sua vita ma anche perché i colpi che gli ordinano di sparare non sa più chi colpiscono. Ci viene voglia di rassicurarlo e gli raccontiamo quello che viviamo anche noi, la notte soprattutto, quando la rabbia assume le sue forme più violente.
Gli proponiamo di scappare, di uscire da quella trincea oramai marcia Gli proponiamo di resistere, e, nascosti da qualche parte, di organizzarci e trovare altri che come noi, confusi, non sanno più cos’è il bene e cos’è il male.
E, pochi all’inizio, diventiamo tanti. Stiamo stretti ci accontentiamo veramente di poco ma ogni nostra azione ha un senso. Riscopriamo in un soffio che la vita in mezzo agli altri ha ancora un senso.

mercoledì 24 aprile 2013

il nuovo che avanza e il futuro del PD

la sensazione pressante che dietro a tutto cio' ci sia un telequiz


Il Male


di Irene Zampieron

In questi giorni, quel che più si manifesta è un sentimento di surrealtà. benché il surreale non sempre sia, anzi, così vicino al patetico, all'assurdo.
In primis su me stessa noto un comportamento surreale: attaccata al sito di Repubblica seguo con quel che potrebbe apparire interesse, ma in realtà non lo è, i disgraziati avvicendamenti in seno al Parlamento e al mai tanto disprezzato PD. Da non elettrice del partito democratico e neanche simpatizzante non fosse un poco sì ovviamente, per il fatto che dovrebbe essere vicino alla mia sensibilità di sinistra, chissà in quale modo, seguo e basita mi sento delusa, incredula, preda di un sentimento d'irrealtà. Non si capiscono tante cose, da Bersani che nemmeno per un mese è riuscito a mantenere una linea coerente e in qualche modo finalmente un poco coraggiosa; e io ci avevo  creduto alla proposta degli 8 punti al prendere una linea un po' più decisa, definita, quasi radicale - attenzione a suo modo. Poi l'inspiegabile della sua pochezza di fronte alla scelta del presidente della Repubblica e dell'infamia di quelli che dovrebbero essere i suoi compagni, no no, i suoi amici, no no, i suoi coopartitici...non so, la politica fatta di poltrone e della gara al potere che nel partitone determina, sembra ora, proprio tutto.
Adesso si parla, chi tra l'altro ne parla, quale macchina infernale della comunicazione che monta e smonta casi, di Renzi capo del governo, che neanche in un fumetto di Topolino si arriva a tanto.
Il Male, esisteva un finto giornale che così si chiamava (e mia mamma cita ogni tanto) che dava notizie false e assurde, oggi parrebbe davvero poca cosa, privo d'immaginazione.
Strategie di potere di un partito qualunque, non fosse la rappresentanza progressista che l'Italia si è potuta, mannaggia a lei, permettere, mette tutti noi e l'Italia in una situazione assurda, grave, triste. In pratica nuovamente in mano a un governo tecnico, ma che per di più in un qualche modo contorto è pure eletto, che seguirà i dettami dell'establishment europeo. E si annuncia con sorpresa, dài infine una buona nuova, che lo spread scende, o sale, insomma che i mercati nostri padroni sono contenti, con il mantenimento del bizzarro status quo italiano. Che buona notizia.

Forse nello sfacelo, almeno un po' di chiarezza per il futuro: con la mancata elezione, e addirittura con la mancata presa in considerazione da parte del più non fu PD, dell'emerito e integerrimo Rodotà a capo dello Stato, si dichiara senza ombra di dubbio che tale partito non è e probabilmente non è mai stato di sinistra.
A buona memoria dei posteri, a mala sopravvivenza nostra.

L'imbroglio dell'austerity


L'austerity non funziona, e lo sapevamo già. Ma ora, come scritto qualche giorno fa, sappiamo che anche le (debolissime) fondamenta teoriche dei tagli erano, in realtà, un gigantesco falso - non si sa quanto voluto. Tutti i lavori che cercavano di dare una spiegazione convincente sul perchè in tempi di crisi si sarebbe dovuto tagliare sono viziati da errori, omissioni, selezione ad hoc dei dati. Una pagina quasi oscena per gli economisti. In fondo sarebbe bastato studiare un po' di storia economica e vedere come si era evoluta la crisi del '29. O forse solo leggere Keynes. E nessuno si sarebbe bevuto la fanfaluca dei tagli che stimolano la crescita. Speriamo che ora se ne accorgano anche i governi!
Nei due articoli che proponiamo di sotto, Matthew Oà Brien di The Atlantic guarda alle possibile conseguenze della scoperta dell'imbroglio dell'austerity mentre Martin Wolf fornisce una prospettiva storica e spiega come non è sempre il debito a rallentare la crescita, quanto piuttosto la crescita lenta a provocare alti livelli di debito.

Who Is Defending Austerity Now?

di Matthew O'Brien
da The Atlantic

Austerians have had their worst week since the last time GDP numbers came out for a country that's tried austerity.

But this time is, well, different. It's not "just" that southern Europe is stuck in a depression and Britain is stuck in a no-growth trap. It's that the very intellectual foundations of austerity are unraveling. In other words, economists are finding out that austerity doesn't work in practice or in theory.

What a difference an Excel coding error makes.

Austerity has been a policy in search of a justification ever since it began in 2010. Back then, policymakers decided it was time for policy to go back to "normal" even though the economy hadn't, because deficits just felt too big. The only thing they needed was a theory telling them why what they were doing made sense. Of course, this wasn't easy when unemployment was still high, and interest rates couldn't go any lower. Alberto Alesina and Silvia Ardagna took the first stab at it, arguing that reducing deficits would increase confidence and growth in the short-run. But this had the defect of being demonstrably untrue (in addition to being based off a naïve reading of the data). Countries that tried to aggressively cut their deficits amidst their slumps didn't recover; they fell into even deeper slumps.

Enter Carmen Reinhart and Ken Rogoff. They gave austerity a new raison d'être by shifting the debate from the short-to-the-long-run. Reinhart and Rogoff acknowledged austerity would hurt today, but said it would help tomorrow -- if it keeps governments from racking up debt of 90 percent of GDP, at which point growth supposedly slows dramatically. Now, this result was never more than just a correlation -- slow growth more likely causes high debt than the reverse -- but that didn't stop policymakers from imputing totemic significance to it. That is, it became a "fact" that everybody who mattered knew was true.

Except it wasn't. Reinhart and Rogoff goofed. They accidentally excluded some data in one case, and used some wrong data in another; the former because of an Excel snafu. If you correct for these very basic errors, their correlation gets even weaker, and the growth tipping point at 90 percent of GDP disappears. In other words, there's no there there anymore. 

Austerity is back to being a policy without a justification. Not only that, but, as Paul Krugman points out, Reinhart and Rogoff's spreadsheet misadventure has been a kind of the-austerians-have-no-clothes moment. It's been enough that even some rather unusual suspects have turned against cutting deficits now. For one, Stanford professor John Taylor claims L'affaire Excel is why the G20, the birthplace of the global austerity movement in 2010, was more muted on fiscal targets recently.

The discovery of errors in the Reinhart-Rogoff paper on the growth-debt nexus is already impacting policy. A participant in last Friday's G20 meetings told me that the error was a factor in the decision to omit specific deficit or debt-to-GDP targets in the G20 communique.

For another, Bill Gross, the manager of the world's largest bond fund, and who, as Joseph Cotterill of FT Alphaville points out, used to be quite the fan of British austerity, made a big about-face in an interview with the Financial Times on Monday:

The UK and almost all of Europe have erred in terms of believing that austerity, fiscal austerity in the short term, is the way to produce real growth. It is not. You've got to spend money. Bond investors want growth much like equity investors, and to the extent that too much austerity leads to recession or stagnation then credit spreads widen out -- even if a country can print its own currency and write its own checks. In the long term it is important to be fiscal and austere. It is important to have a relatively average or low rate of debt to GDP. The question in terms of the long term and the short term is how quickly to do it.

Growth vigilantes are the new bond vigilantes. Gross thinks the boom, not the slump, is the time for austerity -- which sounds an awful lot like you-know-who.

The austerity fever has even broken in Europe. At least a bit. Now, eurocrats can't say that austerity has been anything other than the best of all economic policies, but they can loosen the fiscal noose. And that's what they might be doing, by giving countries more time and latitude to hit their deficit targets. Here's how European Commission president José Manuel Barroso framed the issue on Monday:

While [austerity] is fundamentally right, I think it has reached its limits in many aspects. A policy to be successful not only has to be properly designed. It has to have the minimum of political and social support.

That's not much, but it's still much better than the growth-through-austerity plan Eurogroup president Jeroen Dijsselbloem was peddling on ... Saturday.

Now, Reinhart and Rogoff's Excel imbroglio hasn't exactly set off a new Keynesian moment. Governments aren't going to suddenly take advantage of zero interest rates to start spending more to put people back to work. Stimulus is still a four-letter word. Indeed, the euro zone, Britain, and, to a lesser extent, the United States, are still focussed on reducing deficits above all else. But there's a greater recognition that trying to cut deficits isn't enough to cut debt burdens. You need growth too. In other words, people are remembering that there's a denominator in the debt-to-GDP ratio.

But austerity doesn't just have a math problem. It has an image problem too. Just a week ago, Reinhart and Rogoff's work was the one commandment of austerity: Thou shall not run up debt in excess of 90 percent of GDP. Wisdom didn't get more conventional. What did this matter? Well, as Keynes famously observed, it's better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally. In other words, elites were happy to pursue obviously failed policies as long as they were the right failed policies.

But now austerity doesn't look so conventional. It looks like the punchline of a bad joke about Excel destroying the global economy. Maybe, just maybe, that will be enough to free us from some defunct economics.

fonte: http://www.theatlantic.com/business/archive/2013/04/who-is-defending-austerity-now/275200/

Austerity loses an article of faith

di Martin Wolf
da Financial Times

In 1816, the net public debt of the UK reached 240 per cent of gross domestic product. This was the fiscal legacy of 125 years of war against France. What economic disaster followed this crushing burden of debt? The industrial revolution.
Yet Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff of Harvard university argued, in a famous paper, that growth slows sharply when the ratio of public debt to GDP exceeds 90 per cent. The UK’s experience in the 19th century is such a powerful exception, because it marked the beginning of the consistent rises in living standards that characterises the world we live in. The growth of that era is the parent of subsequent sustained growth everywhere.
As Mark Blyth of Brown University notes in a splendid new book, great economists of the 18th century, such as David Hume and Adam Smith warned against excessive public debt. Embroiled in frequent wars, the British state ignored them. Yet the warnings must have appeared all too credible. Between 1815 and 1855, for example, debt interest accounted for close to half of all UK public spending.
Nevertheless, the UK grew out of its debt. By the early 1860s, debt had already fallen below 90 per cent of GDP. According to the late Angus Maddison, the economic historian, the compound growth rate of the economy from 1820 to the early 1860s was 2 per cent a year. The rise in GDP per head was 1.2 per cent. By subsequent standards, this may not sound very much. Yet this occurred despite the colossal debt burden in a country with a very limited tax-raising capacity. Moreover, that debt was not accumulated for productive purposes. It was used to fund the most destructive of activities: war. Quite simply, there is no iron law that growth must collapse after debt exceeds 90 per cent of GDP.
The recent critique by Thomas Herndon, Michael Ash and Robert Pollin of the University of Massachusetts at Amherst makes three specific charges against the conclusions of profs Reinhart and Rogoff: a simple coding error; data omissions; and strange aggregation procedures. After correction, they argue, average annual growth since 1945 in advanced countries with debt above 90 per cent of GDP is 2.2 per cent. This contrasts with 4.2 per cent when debt is below 30 per cent, 3.1 per cent when debt stands between 30 per cent and 60 per cent, and 3.2 per cent if debt is between 60 per cent and 90 per cent. In their response, profs Reinhart and Rogoff accept the coding errors, but reject the critique of aggregation. I agree with the critics for reasons given by Gavyn Davies. The argument that data covering a long period of high debt should count for more than data covering a short one is persuasive.
Nevertheless, their work and that of others supports the proposition that slower growth is associated with higher debt. But an association is definitely not a cause. Slow growth could cause high debt, a hypothesis supported by Arindrajit Dube, also at Amherst. Consider Japan: is its high debt a cause of its slow growth or a consequence? My answer would be: the latter. Again, did high debt cause today’s low UK growth? No. Before the crisis, UK net public debt was close to its lowest ratio to GDP in the past 300 years. The UK’s rising debt is a result of slow growth or, more precisely, of the cause of that low growth – a huge financial crisis.
Indeed, in their masterpiece, This Time is Different, profs Reinhart and Rogoff explained how soaring private debt can lead to financial crises that generate deep recessions, weak recoveries and rising public debt. This work is seminal. Its conclusion is clearly that rising public debt is the consequence of the low growth, itself explained by the crisis. This is not to rule out two-way causality. But the impulse goes from private financial excesses to crisis, slow growth and high public debt, not the other way round. Just ask the Irish or Spanish about their experience.
It follows that, in assessing the consequences of debt for growth, one must ask why the debt rose in the first place. Were wars being financed? Was there fiscal profligacy in boom times, which is almost certain to lower growth? Was the spending on high-quality public assets, conducive to growth. Finally, did the rise in public debt follow a private sector financial bust?
Different causes of high debt will have distinct results. Again, the reasons why deficits are high and debt rising will affect the costs of austerity. Usually, one can ignore the macroeconomic consequences of fiscal austerity: either private spending will be robust or monetary policy will be effective. But, after a financial crisis, a huge excess of desired private savings is likely to emerge, even when interest rates are very close to zero.
In that situation, immediate fiscal austerity will be counterproductive. It will drive the economy into a deep recession, while achieving only a limited reduction in deficits and debt. Moreover, as the International Monetary Fund’s Global Financial Stability Report also notes, extreme monetary stimulus, in these circumstances, creates substantial dangers of its own. Yet nobody who believes in maintaining fiscal support for the economy in these specific (and rare) circumstances thinks that “fiscal stimulus is always right”, as Anders Aslund of the Peterson Institute for International Economics, suggests. Far from it. Stimulus is merely not always wrong, as “austerians” seem to believe.
This is why I was – and remain – concerned about the intellectual influence in favour of austerity exercised by profs Reinhart and Rogoff, whom I greatly respect. The issue here is not even the direction of causality, but rather the costs of trying to avoid high public debt in the aftermath of a financial crisis. In its latest World Economic Outlook, the IMF notes that direct fiscal support for recovery has been exceptionally weak. Not surprisingly, the recovery itself has also been feeble. One of the reasons for this weak support for crisis-hit economies has been concern about the high level of public debt. Profs Reinhart and Rogoff’s paper justified that concern. True, countries in the eurozone that cannot borrow must tighten. But their partners could either support continued spending or offset their actions with their own policies. Others with room for manoeuvre, such as the US and even the UK, could – and should – have taken a different course. Because they did not, recovery has been even weaker and so the long-run costs of the recession far greater than was necessary. This was a huge blunder. It is still not too late to reconsider.

fonte:http://www.ft.com/cms/s/0/60b7a4ec-ab58-11e2-8c63-00144feabdc0.html#axzz2RJyTiwFK