domenica 31 marzo 2013

Il governo della non fiducia e la risurrezione di Monti

Tartufesco è il termine più educato che mi viene in mente per descrivere il comportamento del Presidente della Repubblica. Invece di dimettersi per aprire una nuova fase rimane ostinatamente attaccato alla poltrona non tanto per sete di potere, quanto piuttosto per voler decidere personalmente in che direzione deve andare il paese. Costringendo le forze politiche - soprattutto il PD che ha di nuovo, assurdamente, abbassato la testa di fronte alle pretese del Colle - a seguire l'agenda di Napolitano. Le sue dimissioni avrebbero in parte sbloccato lo stallo attuale, a prescindere dal nome che sarebbe potuto venir fuori per la successione. Il nuovo Presidente, senza una maggioranza, avrebbe potuto sciogliere le Camere, Napolitano non può e dunque costringe il Parlamento a funzionare senza una maggioranza politica, cioè senza un vero governo.
Ed allora, il colpo di teatro, ma potremmo tranquillamente chiamarlo colpo di mano e forse pure colpo di stato. Monti rimane operativo perché, nelle parole del Colle, non sfiduciato! Ma di cosa stiamo parlando? Quel governo era figlio di un altro Parlamento e pensare che possa governare - addirittura prendere decisioni economiche importanti - senza un nuovo voto di fiducia equivale, senza giri di parole, ad aver messo in naftalina le elezioni e dunque ad abbandonare la democrazia rappresentativa e parlamentare. Un escamotage osceno per tenere in piedi quella sorta di grande coalizione che Napolitano continua a perseguire nonostante gli elettori gli abbiano detto no. E con in più un gruppetto di "nomi" per le riforme, molti dei quali quasi impronunciabili (Mauro, Quagliariello, Violante, etc..) figli di un sistema marcio e che, su quelle fondamenta erose vorrebbero costruire una nuova architettura politico-istituzionale.
E così continua la triste storia del Paese. Monti, crocifisso dagli elettori, ucciso (leggi, sfiduciato!) politicamente dal Pdl a Dicembre, che non ha avuto la sfiducia del vecchio Parlamento solo perchè si è dimesso prima, torna ora in vita, a Pasqua, senza la fiducia delle nuove Camere, cioè degli elettori, grazie al divino intervento di Napolitano. Cose mistiche, ma che con la democrazia non hanno nulla a che fare.

sabato 30 marzo 2013

Le banche dopo Cipro


di Nicola Melloni
da Liberazione

Il giorno dopo tutti, o quasi, sembrano contenti. Cipro è rimasto nell’Euro; l’ennesimo colpo della crisi è stato, almeno per ora, scongiurato; Ue e Parlamento cipriota hanno trovato, in extremis, un accordo; e il contagio non è avvenuto. Non solo, per una volta la soluzione trovata ha avuto ampio appoggio anche da settori normalmente molto critici dell’operato della Trojka. Da un punto di vista della filosofia del piano di salvataggio, almeno per la parte che riguarda le banche, in effetti, sarebbe ingiusto non trovare alcuni punti positivi. Per una volta non si scaricano le colpe del sistema finanziario sulla fiscalità generale – tradotto, saranno le banche, i loro soci, investitori e creditori ad appianare le perdite. E’ bene chiarirci subito: i titolari di depositi altro non sono che creditori delle banche, hanno affidato i loro soldi ad un ente e, di conseguenza, godono di tutti i benefici e gli svantaggi annessi ad un prestito – compreso in effetti il rischio di perdere i soldi prestati secondo le normali procedure sulla bancarotta. Allo stesso tempo, però, i piccoli risparmiatori sono stati salvati e la garanzia sui depositi sotto i 100 mila euro è stata – tra molti affanni – confermata, salvaguardando dunque un pò di giustizia sociale e riaffermando il principio della progressività del prelievo anche in casi di ristrutturazione delle finanze private. Dunque, almeno in parte, si è cercato di combinare due principi: le banche devono essere in grado di amministrare il rischio di impresa e non possono più ripararsi dietro lo stato per essere salvate, e allo stesso tempo si cerca di fornire quel minimo di garanzie di stabilità, tanto sociale quanto finanziaria.
All’atto pratico, però, le cose non sono altrettanto semplici. Come è stato evidente nello svolgersi della crisi cipriota, questi principi non sono stati dettati da una strategia politica, quanto piuttosto imposti dagli eventi. In primo luogo l’economia di Cipro era davvero troppo piccola per poter pensare di coinvolgere la fiscalità generale – detto in altre parole non sarebbe bastata nemmeno un austerity alla greca per raccogliere i fondi sufficienti a salvare il sistema finanziario. Ed in secondo luogo la tutela dei più poveri è avvenuta solo dopo che Cipro aveva sostanzialmente deciso di lasciare l’Euro – cioè solo davanti al passo finale della crisi. Tutto bene quel che finisce bene, allora? Non proprio. Il nuovo modello di salvataggio – per dirla con il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem – richiede un piano ben più articolato di quello predisposto dalla Ue. Le ricadute sull’economia reale di questi tipi di bail in possono essere tragiche: se da un lato è vero che i consumatori vengono tutelati, è pur vero, dall’altra parte, che le riserve di liquidità delle piccole e medie imprese rischiano di essere mandate in fumo, decretando in molti casi il fallimento delle aziende con conseguenze gravissime per occupazione e crescita (a Cipro si prospetta una recessione nella misura del 10% per anno per almeno due anni: un cataclisma). A livello europeo, i depositi non assicurati rappresentano una parte sostanziale della finanza delle banche, circa il 30% del totale, una cifra che rischia di destabilizzare il sistema bancario e l’intera Eurozona – basti pensare quali potrebbero essere le conseguenze sull’attività economica di movimenti di capitale riguardanti anche soltanto una frazione di quei depositi. Gli investimenti nei paesi della periferia rischierebbero di scomparire dato il rischio inerente di mantenere denaro nelle banche dei Piigs – via il denaro, via i prestiti, via gli investimenti. Cioè, crisi economica ed elevati tassi di interesse. Introdurre un sistema di sanzione delle banche senza una vera unione bancaria vuol dire, in realtà, destabilizzare ulteriormente le finanze dei paesi più deboli.
A Cipro, per cercare di salvare il salvabile, sono stati introdotti controlli sui movimenti di capitale. Anche in questo caso, si tratta, a livello teorico, di uno sviluppo interessante – indubbiamente è venuta finalmente l’ora di ridiscutere la libertà di movimento dei capitali. Ma se questo è vero a livello internazionale, l’introduzione di restrizione ai movimenti di capitali dentro la Ue equivarrebbe ad un de profundis per l’Europa. Fino ad ora la Ue è stata un’area economica unica – ed infatti alla libertà di movimento dei capitali è corrisposta pure, caso unico, la libertà di movimento dei cittadini. Inevitabilmente, con controlli sui capitali, verrebbero introdotte limitazioni anche sulla mobilità del lavoro per evitare rischi di emigrazione di massa – non proprio un caso da escludere se guardiamo a quello che è successo negli ultimi anni non solo nei piccoli paesi baltici, ma anche in Portogallo. Sarebbe, in breve, la fine dell’esperimento europeo. Che ha bisogno, invece, di più unità politica per salvarsi. Fino a quel momento, nessun tentativo di soluzione della crisi sarà coerente e, anzi, conterrà in se stesso i presupposti del fallimento.

Il futuro economico e politico dell'Europa

Il dramma cipriota ha riportato al centro del dibattito politico la crisi europea. Dopo i drammi del 2011 e 2012 legati allo spread, si era pensato - o meglio, fatto pensare - che la crisi fosse sostanzialmente finita o quantomeno meno acuta e pericolosa. E' vero, i tassi di interesse sono scesi e questo è senza dubbio un ottimo segnale per i governi che non rischiano, almeno nel breve periodo, una crisi di liquidità e non sono costretti a pagare interessi eccessivi sul loro debito. Ma la crisi è ben altro. Nel passato, in paesi in via di sviluppo, dopo la crisi si è assistito ad un nuovo impeto nella crescita, la svalutazione rilanciò i settori industriali, alcune delle criticità di fondo furono sistemate. E' il caso della Corea dopo il 1997, ad esempio, ma anche della Malesia ed in parte di Russia, Brasile, Argentina e Turchia. Non è però il caso dell'Europa oggi. A causa delle politiche di austerity l'economia continua ad avvitarsi. L'industria rimane al palo, i consumi calano ed il mercato interno ne soffre. L'euro continua a rimanere forte bloccando le esportazioni. E dunque si cerca di rilanciare la competitività attraverso una svalutazione domestica, riducendo i salari e l'occupazione. Dunque l'Europa sta anche peggio del Giappone che pure con un decennio di crescita stagnante ha mantenuto la disoccupazione sotto controllo dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La domanda è quanto potrà resistere l'Europa con una situazione sociale che si fa sempre più incandescente. Con disoccupazione e povertà in continua crescita, per quanto ancora i popoli d'Europa appoggeranno una Unione che sembra scavare la sua stessa fossa?

Europe’s Lost-and-Found Decade


di Barry Eichengreen
da Project Syindicate

Sentiment in European financial markets has turned. For the moment, the possibility of a Greek exit from the eurozone is off the table. If interest-rate spreads on Spanish and Italian government bonds are any guide, bondholders are no longer betting on a eurozone breakup. European stocks even rose in the week following last month’s inconclusive Italian elections.Investors evidently believe that Europe’s leaders will do just enough to hold their monetary union together. But, at the same time, it is unlikely that Europe’s economy will follow the pattern of emerging-market crises and rise, phoenix-like, from the ashes. Rather, the most likely scenario appears to be a Japanese-style lost decade of slow or no growth.
The first obstacle to a “phoenix miracle” is that governments remain in austerity mode. Yes, there are whispers that the pace of fiscal consolidation could be slowed; indeed, France has already been given more time to hit its deficit target. But this looks a lot like Japan, where the fiscal tap was tentatively opened and closed. Japanese consumers knew that increases in public spending were temporary, so they did not change their spending habits, rendering the policy ineffectual.
The European Central Bank, for its part, is reluctant to do anything to jump-start growth. Like the Bank of Japan in the 1990’s, it interprets its mandate narrowly. It remains a noncombatant in the global currency wars. But, with the BOJ joining the US Federal Reserve and the Bank of England in easing monetary policy, there will be upward pressure on the euro. And a strong euro is the last thing that a weak Europe needs.
Tepid US and global growth forecasts are reinforcing these fears. The few countries that have succeeded in growing, despite austerity, have done so by exporting. But, with global growth below trend in 2013, emulating them will be difficult. Likewise, the early-1990’s recession in the US depressed Japan’s exports and helped to initiate its lost decade.
Finally, Europe’s property-market and banking problems heighten the danger of a Japanese scenario. Japan’s banks invested heavily in commercial real estate and were dragged down when the property-market boom of the 1980’s went bust. Spanish banks are similarly exposed to the property sector and have not yet acknowledged their losses, while Europe, much like Japan 20 years ago, has done too little to strengthen its financial system.
Thus, in Europe now, as in Japan then, the pieces are in place for a lost decade: weak banks make for weak government finances, which in turn make for weak growth and even weaker banks, with the absence of monetary and fiscal support leaving no escape from this vicious spiral.
But there is one important difference. Even at its worst, unemployment in Japan rarely exceeded 4%, owing to a combination of early retirement, social programs, work-sharing, and political pressure on large employers. In the eurozone, by contrast, unemployment is running at a socially catastrophic 12% and is continuing to rise. In Spain and Greece, unemployment is approaching 30%, while youth unemployment is nearing a staggering 60%.
This makes the risk of social upheaval in Europe today much greater than it was in Japan two decades ago. We cannot predict when or where, but sooner or later there will be an explosion of protest, whether violent or taking the form of organized support for political parties espousing radically different policies. Either way, Plan A, in which governments do just enough to avert collapse but fail to jump-start growth, will no longer be viable.
The only question is whether disaffected voters will opt for a harmless comedian like Beppe Grillo or a more dangerous proto-fascist candidate to be named later. In the first case, the result will be economic chaos. There will be a falling out between the new populist government and German Chancellor Angela Merkel (and the ECB), creating high uncertainty about what comes next.
In the second case, the new government’s war of words and policies will be waged not just with the German government in Berlin and the ECB in Frankfurt, but also against minority and immigrant groups at home. The economic threat could be the least of Europe’s worries.
European leaders need to address these dangers. If they double down on status quo policies, their reign will eventually give way to an extended period of populist-inspired economic chaos and minority scapegoating. Alternatively, leaders can listen to their critics and adopt a balanced, two-handed approach that applies both supply-side reforms and supportive demand-side measures to the challenge of ending Europe’s malaise.
For better or worse, the fact that the most severe political and social turbulence is yet to come at least means that Europe will be unable to afford the dithering and half-measures that produced Japan’s lost decade. “If something cannot go on forever,” as the economist Herbert Stein famously put it, “it will stop.”


venerdì 29 marzo 2013

La guerra ai poveri di Dave e George.
di Simone Rossi  

Nel suo toccante discorso di insediamento Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, ha invitato i suoi onorevoli colleghi, tra le altre cose, a combattere la povertà e non i poveri. Un invito alquanto rivoluzionario perché pronunciato in tempi ed in un continente dove i governanti promuovono politiche economiche sociali che producono ingiustizia e colpiscono i poveri, spesso stigmatizzandoli.

Tra i campioni della guerra ai poveri primeggiano i Conservatori britannici, portatori degli interessi delle ėlite che detengono le leve del potere. Non è da meno l'attuale Primo Ministro David Cameron, che dal 2005, anno in cui divenne segretario del partito, al 2010, anno della nomina a capo dell'Esecutivo, effettuò una campagna di immagine volta a presentare il suo partito come progressista, compassionevole e attento ai bisogni del cittadino medio; salvo smentire tutto una volta al governo. Nel corso di quasi tre anni il Gabinetto britannico ha stravolto quello che rimaneva del sistema sociale impostato nel dopoguerra, permettendo l'incremento delle tasse universitarie fino a £9'000 annue (poco meno di€11'000), comprimendo il costo del lavoro nel settore pubblico, privando centinaia di migliaia di cittadini della pensione di invalidità attraverso un sistema kafkiano di revisione dei requisiti, introducendo surrettiziamente la privatizzazione di sanità ed istruzione, tagliando i fondi a servizi come il patrocinio gratuito per chi non può permettersi un avvocato. Il colpo di grazia sta per essere assestato con l'inizio del novo anno fiscale, e mese di aprile, quando la riforma del sistema di protezione ed assistenza sociale entrerà in pieno vigore. Il nuovo modello incorporerà vari sussidi e porrà limitazioni, tanto qualitative quanto quantitative agli stessi. Uno dei tetti contro cui si è scatenata una forte opposizione è comunemente chiamata "Bedroom Tax", ossia ma tassa sui vani liberi; non si tratta di una vera e propria tassa, ma di uno sconto effettuato sul contributo pubblico al pagamento dell'affitto per gli individui o i nuclei famigliari che occupano abitazioni con un numero di stanze superiore a quelle che il Governo ritiene essere sufficienti. La scelta imposta a queste famiglie, stimate essere varie decine di migliaia, sarà tra il sopravvivere con un sussidio di importo inferiore a quello corrisposto attualmente ed il traslocare in abitazioni minori. Ambedue le opzioni si presentano ardue a fronte di un mercato immobiliare in cui gli affitti sono in crescita e considerato che dal primo Governo Thatcher (1979-83) in poi molte unita residenziali pubbliche sono state cedute senza che ne fossero costruite di nuove. L'introduzione della "Bedroom Tax", unitamente ai tetti già posti ai sussidi per la casa, comporterà lo smembramento di intere comunità popolari e spingerà le fasce più povere della popolazione verso quartieri o paesi marginali in ciò che su questo blog già abbiamo definito un'operazione di pulizia sociale dei centri urbani e delle aree di pregio.
A dispetto della retorica conservatrice sulla "Big Society", una società in cui i cittadini si uniscono armoniosamente per assumersi responsabilità sino ad ora appannaggio dello Stato, e sul fatto che tutti i cittadini sono "sulla stessa barca" nello sforzo di uscire dalla crisi, a pagare le conseguenze di queste cosiddette politiche per la casa e della riforma dello stato sociale saranno ancora una volta e di più le classi basse e medio-basse, quelle che soffrono di più gli effetti della crisi e del neoliberismo e che andranno ad ingrossare ulteriormente le fila dei poveri, ad oggi stimati in circa quattro milioni ed in costante crescita nonostante l'Esecutivo in carica, composto in larga misura da milionari e benestanti, non li veda, pur combattendoli.

giovedì 28 marzo 2013

Caso Aldrovandi: le scuse non bastano

Anche la ministra Cancellieri, in corsa per molte cariche istituzionali, ha condannato oggi l'oscena manifestazione di un gruppuscolo di poliziotti, andati a esprimere la propria solidarietà ai colleghi picchiatori proprio sotto le finestre della madre del povero Federico Aldrovandi, ucciso di botte dalla polizia.
Meglio che niente, le parole di condanna fanno capire che non tutto l'apparato statale sta dietro l'eversione di alcune mele marce. Ma la condanna, caro ministro, non può bastare. Non può bastare dopo che un ragazzo è morto. Non può bastare dopo che gli assassini, i loro colleghi ed i loro superiori hanno tentato di nascondere la verità, di inquinare le prove. Un comportamento che umilia tutta la polizia. Ora alcuni agenti pretendono di stare dalla parte dei delinquenti invece che della parte della legge. 
Cosa ci fanno in divisa, allora? Perchè non ci sono sanzioni per questi mascalzoni - che offendono la memoria di un morto e straziano il cuore di una madre coraggiosa ma che, soprattutto, si comportano da eversori? Cosa devono fare questi agenti per meritare una punizione? La polizia difende i suoi agenti oltre ogni ragionevole dubbio, li mantiene in servizio mentre sono sotto processo, non avvia procedure punitive interne, non si costituisce parte civile. Ammette, anzi, incoraggia, un'omertà che sa tanto di mafia - proprio un bel biglietto da visita per la polizia. Un corpo dello stato per cui la difesa del collega, dell'amico, viene prima del rispetto della legge. E davanti a questo non ci sono punizioni esemplari, ma solo parole di condanna. Non basta.
Se gli agenti che hanno vilmente offeso la memoria di Federico e la sensibilità di una madre come Patrizia Moretti saranno lasciati in servizio per le strade di Ferrara, come potranno i cittadini ferraresi sentirsi tranquilli? Con che coraggio si rivolgeranno alla polizia col rischio di trovarsi di fronte agenti che non sono solo privi di umanità, ma sembrano assai poco interessati al rispetto della legge. In una città di turismo, come potranno i cittadini italiani e stranieri visitarne le bellezze serenamente, sapendo che personaggi coperti da divisa girano impuniti per le strade?
Gli agenti in questione devono essere puniti, un segnale forte va mandato ad una polizia che davanti ai tanti eroici atti di coraggio di alcun suoi membri, ed alla continua abnegazione della maggioranza dei suoi iscritti, si trova con non poche mele marce, a Genova, a Roma, a Ferrara e certo non solo. Una certa cultura del machismo, della manganellata facile, della protezione dietro le divise non numerate va sradicata subito. E questi agenti - se non li si potrà licenziare - devono almeno stare in ufficio, e non in strada. Per la sicurezza dei cittadini.

mercoledì 27 marzo 2013

Il diritto di sprangare


Questo è quello che richiede (una parte) della polizia democratica di questo paese. E lo richiede con arroganza, ignoranza, prepotenza e con la protervia dei picchiatori. Oggi a Ferrara diversi agenti di polizia appartenenti al sindacato COISP hanno organizzato una manifestazione di sostegno e solidarietà ai loro colleghi condannati per aver ucciso di botte il povero Federico Aldrovandi. E già questo dovrebbe indignare le coscienze di qualsiasi cittadino democratico. La polizia, una parte della polizia sfila in difesa dei delinquenti - che sono ancora più delinquenti proprio per essersi macchiati di un tale efferato delitto in divisa. Ma non basta. Questa ignobile manifestazione è stata organizzata proprio sotto l'ufficio di Patrizia Moretti, la madre di Federico. Un atto vile, squallido, fatto per ferire chi già ha sofferto troppo, ed ingiustamente.
Questi poliziotti difendono il diritto non di servire la legge, ma di essere superiori alla legge, come tante volte è successo in Italia negli ultimi anni. Come se una divisa portasse con sé un bonus di legnate da distribuire a piacimento.
Ecco, ora ci aspetteremmo che la parte sana della polizia prendesse immediatamente le distanze da questo ignobile gesto. Sarebbe bello che ci fossero provvedimenti per chi, in divisa, manifesta in favore dei delinquenti, rivendicando il diritto di compiere atti illeciti. Sarebbe opportuno che nessuno di questi manifestanti possa mai fare servizio in strada - come cittadino mi sentirei assai poco sicuro se dovesse incappare in figuri del genere. I vertici della polizia dovrebbero immediatamente porgere le scuse, di nuovo, a Patrizia Moretti. E Bersani, dovrebbe aggiungere un altro punto al suo programma di riforme - manca la riforma della polizia. L'aspettiamo da Genova. Non è mai troppo tardi.

p.s. quello nella foto e' Federico Aldrovandi morto, ucciso dalle botte.

Tecnicamente, un disastro

Siamo quasi arrivati all'ingloriosa fine del governo tecnico, uno dei peggiori della storia repubblicana. E finiamo pure col botto, le dimissioni di Terzi, gli stracci che volano tra Esteri e Difesa, pure Napolitano descritto come "irritato". Per un anno e mezzo si sono cantate, a reti (quasi) unificate, le gesta di un manipolo di eroi che avevano salvato l'Italia dal baratro. Alla prova dei fatti si sono rivelati invece un gruppo di professori arroganti e pure incompetenti che hanno fallito su tutta la linea.
Quali erano gli obiettivi iniziali? Vediamoli in ordine:

  1. mettere a posto i conti nel mezzo della crisi finanziaria
  2. impostare riforme strutturali per rilanciare la crescita e modernizzare il paese
  3. ridare dignità al paese all'estero dopo anni di gaffe berlusconiane
  4. possibilmente risolvere la crisi politica
Beh, se guardiamo le cose con un pò di oggettività, non possiamo che bocciare su tutta la linea i professori. I conti sono tutt'altro che a posto. Vero, lo spread è disceso - dopo esser salito a dismisura nei primi mesi del governo - ma il merito è quasi tutto delle misure messe in campo dalla BCE. Nel frattempo il PIL è crollato, siamo in recessione, la disoccupazione è aumentata e, sorpresa sorpresa, il debito è aumentato. So much per la competenza di economista di Monti, primo ministro e a lungo con l'interim al Tesoro. 
Le riforme sono state affidate in principal luogo a Madame Fornero, che ci era stata presentata come la massima esperta italiana di pensioni. Ed infatti, dopo aver studiato una vita, ha varato una riforma che ha sconquassato l'Italia, creando milioni di esodati e mettendo a rischio i conti dello Stato. Quando poi si è passati al lavoro, non ci si poteva aspettare tanto di meglio se nella materia di sua competenza era già stata così disastrosa. Ed infatti oggi è la stessa Fornero ad ammettere: abbiamo lavorato tanto, ma zero risultati. Aggiunge, per giustificare l'aumento della disoccupazione ed il fallimento della nuova disciplina dei contratti: la mia riforma del lavoro era fatta per i momenti di crescita. Oh Signora, ma bastava leggere i giornali per sapere che eravamo in recessione! Da un professore ci si aspetta almeno che sappia di cosa parla, e invece...
Quanto al prestigio internazionale, per mesi ci siamo illusi di aver qualche carta da giocare in Europa mentre la Germania ci ignorava completamente, neanche fossimo ancora con Berlusconi. La BCE ci ha scritto una lettera che si è poi rivelata essere il programma del governo Monti mentre l'austerity non veniva allentata neanche di una virgola. Il clamoroso insuccesso è stato certificato dal patetico addio di Monti al vertice europeo di Cipro, dove è andato a lamentarsi dell'insensatezza dell'Europa. Un po' tardi, caro Monti. La vicenda indiana ha poi sfondato ampiamente i limiti del ridicolo. Prima viene violata la parola data e si tengono i marò in Italia, cercando di alzare la voce a livello internazionale pur facendo la solita figura dei voltagabbana. Poi, di fronte all'assordante silenzio della diplomazia UE che si rifiutava di sostenere l'Italia, e con l'India che alzava la voce e di fatto sequestrava il nostro ambasciatore, il governo ha umilmente abbassato la testa e rimandato i marò in India. Da cui la tristissima scenetta al Senato, Terzi che si dimette - un po' in ritardo - e De Paola che gli dice circa di essere un novello Schettino che abbandona la nave che affonda. Una figuraccia internazionale di proporzioni inaudite, altro che le corna di Silvio...
Non è un caso che alle elezioni gli italiani abbiano di atto ignorato Monti e i suoi. Il che, anche se la colpa non è certo tutta del governo, ci lascia in una situazione politica peggiore di quella di un anno e mezzo fa, senza un governo, senza una maggioranza, senza una nuova legge elettorale, con un paese spaccato - per altro, manco a farlo apposta, nel mezzo di un altra crisi europea. E pensare che si poteva votare un anno e mezzo fa....peggio di sicuro non poteva andare!

martedì 26 marzo 2013

L'Europa davanti alla crisi di Cipro


di Nicola Melloni
da Lettere Internazionali, Il Mulino

I problemi di Cipro, come capitato spesso ultimamente in Europa, sono largamente dovuti al suo sistema bancario. In questi anni l’isola è diventata una sorta di paradiso off-shore con il livello di tassazione più basso d’Europa, attirando un interrotto flusso di capitali che ha gonfiato fuori proporzione il sistema bancario, le cui passività sono calcolate tra 7 e 8 volte il Pil del Paese. Cipro è soprattutto diventata la sede preferita per i capitali degli oligarchi russi che usano l’isola per evadere le tasse e poi rimpatriare i capitali a tassi agevolati. Basti pensare che la Banca centrale russa lista Cipro come la fonte principale di Fdi in Russia.
Tale situazione ha chiaramente aperto un problema economico e uno politico riguardo al salvataggio di Cipro. Da una parte, i tagli fiscali – la classica maniera in cui l'Unione europea ha finora cercato di rimettere in sesto i conti dei Paesi in crisi – non sono percorribili, in quanto il sistema bancario, come detto, è troppo grande per le povere finanze di Nicosia. Giusto per capire, il contributo chiesto dalla Ue a Cipro per il bail out è di 5,8 miliardi di euro, equivalenti a circa un terzo del Pil complessivo del Paese (17,9 miliardi). Allo stesso tempo, per quanto riguarda l’Europa, lo sforzo per salvare le banche cipriote sarebbe invece minimo, ma sia la Germania sia i Paesi del Nord hanno chiarito da subito che non intendono utilizzare i soldi dei loro contribuenti per salvare le finanze degli oligarchi russi.
La prima soluzione trovata è stata però infelice sotto tutti i punti di vista. La Ue ha chiesto a Cipro di trovare la sua parte di contributi mettendo una tassa del 9,75% sui depositi sopra i 100 mila euro e del 6,5% su quelli fino a 100 mila, nonostante questi siano coperti all’interno della Unione da una garanzia totale.
La seconda parte della richiesta, cioè colpire anche i piccoli risparmiatori, ha scatenato una ondata di proteste. Da una parte andare a prendere i soldi da chi ne ha pochi per salvare, a tutti gli effetti, chi ne ha tanti – cioè, in primis, gli oligarchi russi – è una misura che trasuda ingiustizia e mai avrebbe potuto trovare l’appoggio del Parlamento cipriota. In secondo luogo, coinvolgere i piccoli risparmiatori rischia di avere effetti esplosivi su tutta l’Eurozona. Il messaggio che viene mandato da Cipro ai titolari di depositi in Grecia, Spagna, Portogallo e anche Italia (soprattutto se si ha un conto, ad esempio, a Mps) è che in caso di aggravarsi della crisi i soldi per il bail out potrebbero essere presi direttamente dai conti correnti. Il rischio, ovviamente, è che questo scateni una fuga di capitali verso Paesi “sicuri” e un conseguente bank run, a maggior ragione data la mancanza di una garanzia europea sui depositi bancari – cioè di una vera unione bancaria cui tuttora la Germania continua a opporsi. Allo stesso tempo, una mossa di questo genere non fa altro che alimentare i sentimenti anti-europei e screditare le istituzioni comunitarie, basti pensare al significativo titolo del "Daily Mail" su the great EU bank robbery.
La soluzione trovata in extremis è stata dunque quella, un po’ all’islandese, di tassare solo i depositi sopra i 100 mila euro (ancora non si sa di quanto, si parla di un prelievo fino al 40%). Una soluzione più equa ma che crea altri problemi di non facile risoluzione. In primis, Cipro vedrà il suo sistema bancario distrutto e il suo ruolo di off shore cancellato – un risultato anche positivo se all’interno della Ue non vi fossero altri paradisi fiscali con sistemi bancari ipertrofici, tipo il Lussemburgo, ma anche la City di Londra. In secondo luogo, molte piccole e medie imprese – il centro nevralgico dell’economia cipriota – rischiano di fallire dopo che il prelievo sui depositi intaccherà sostanzialmente la loro liquidità. I rapporti tra Cipro e Russia e, più in generale, tra Unione europea e Russia rischiano inoltre di peggiorare notevolmente. Infine, il prelievo forzoso sui conti correnti, anche se solo sui più alti, è un precedente problematico, e le parole del presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem (“Cipro sarà il nuovo modello di bail out da qui in avanti”) hanno confermato questa paura, che rischia di incentivare una fuga di capitali e destabilizzare ulteriormente le banche del Sud Europa.
Indubbiamente la crisi di Cipro dovrebbe portare aì una riflessione approfondita sull’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario, a cominciare dalla mobilità dei capitali, che più che portare capitali freschi sembra creare bolle e traumatizzare tanto l’economia reale quanto il sistema bancario. E anche la garanzia statale sui depositi stabilizza solo parzialmente il settore finanziario e, al contempo, crea un sistema di incentivi malato che per salvare i cittadini de-responsabilizza le banche. Cipro, insomma, sembra essere solo la punta di un iceberg che mette a rischio la sopravvivenza dell’Europa tutta.

fonte: http://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:2108

I mercati crescono, l'economia no


Proponiamo oggi un interessante articolo da Project Syndicate che analizza l'andamento dei mercati negli ultimi mesi. I listini sono in continua crescita e ciò ha spinto molti commentatori a sostenere che, in effetti, l'austerity sta funzionando a dovere. Tra questi non poteva mancare Alberto Alesina, il principale sostenitore della tesi dei tagli che portano crescita. In realtà, come sostenuto da Bradford DeLong, usare i risultati dei listini come proxy del successo economico è assolutamente fuorviante. In realtà la quantità impressionante di liquidità versata sui mercati viene tutta canalizzata dalle borse, pompando verso l'altro il prezzo delle azioni - in realtà formando una nuova bolla, dato che queste valutazioni di borsa non corrispondono davvero all'andamento dell'economia reale. Insomma, la maggior parte del denaro prodotto, dei profitti, si ferma al top della scala sociale, peggiorando ulteriormente l'ineguaglianza. Ci troviamo così in una situazione di crescita stagnante, di concentrazione della ricchezza e di incremento della povertà. Se questo è quello che sperava di ottenere Alesina, sarà certo contento....

The Great Disconnect

di Kemal Dervis
da Project Syndicate


Since the second half of 2012, financial markets have recovered strongly worldwide. Indeed, in the United States, the Dow Jones industrial average reached an all-time high in early March, having risen by close to 9% since September. In Europe, European Central Bank President Mario Draghi’s “guns of August” turned out to be remarkably effective. Draghi reversed the euro’s slide into oblivion by promising potentially unlimited purchases of member governments’ bonds. Between September 1 and February 22, the FTSEurofirst index rose by almost 7%. In Asia, too, financial markets are up since September, most dramatically in Japan.
Even the Italian elections in late February seem not to have upset markets too much (at least so far). Although interest-rate spreads for Italian and Spanish ten-year bonds relative to German bonds briefly jumped 30-50 basis points after the results were announced, they then eased to 300-350 basis points, compared to 500-600 basis points before the ECB’s decision to establish its “outright monetary transactions” program.
But this financial market buoyancy is at odds with political events and real economic indicators. In the US, economic performance improved only marginally in 2012, with annual GDP rising by 2.3%, up from 1.8% in 2011. Unemployment remained high, at 7.8% at the end of 2012, and there has been almost no real wage growth over the last few years. Median household income in the US is still below its 2007 level – indeed, close to its level two decades ago – and roughly 90% of all US income gains in the post-crisis period have accrued to the top 1% of households.
Indicators for the eurozone are even worse. The economy contracted in 2012, and wages declined, despite increases in Germany and some northern countries. Reliable statistics are not yet available, but poverty in Europe’s south is increasing for the first time in decades.
On the political front, the US faces a near-complete legislative stalemate, with no sign of a compromise that could lead to the optimal policy mix: short-term support to boost effective demand and long-term structural reforms and fiscal consolidation. In Europe, Greece has been able – so far – to maintain a parliamentary majority in support of the coalition government, but there, and elsewhere, hyper-populist parties are gaining ground.
The Italian election results could be a bellwether for Europe. Beppe Grillo’s populist Five Star Movement emerged with 25% of the popular vote – the highest support for any single party. Former Prime Minister Silvio Berlusconi, confounding those who had forecast his political demise, re-emerged at the head of a populist-rightist coalition that ended up only 0.3 percentage points away from winning.
In short, we are witnessing a rapid decoupling between financial markets and inclusive social and economic well-being. In the US and many other places, corporate profits as a share of national income are at a decades-long high, in part owing to labor-saving technology in a multitude of sectors. Moreover, large corporations are able to take full advantage of globalization (for example, by arbitraging tax regimes to minimize their payments).
As a result, the income of the global elite is growing both rapidly and independently of what is happening in terms of overall output and employment growth. Demand for luxury goods is booming, alongside weak demand for goods and services consumed by lower-income groups.
All of this is happening in the midst of extremely expansionary monetary policies and near-zero interest rates, except in the countries facing immediate crisis. Structural concentration of incomes at the top is combining with easy money and a chase for yield, driving equity prices upward.
And yet, despite widespread concern and anxiety about poverty, unemployment, inequality, and extreme concentration of incomes and wealth, no alternative growth model has emerged. The opposition to the dominant mainstream in Europe is split between what is still too often an “old” left that has trouble adjusting to twenty-first-century realities, and populist, anti-foreigner, and sometimes outright fascist parties on the right.
In the US, the far right shares many of the characteristics of its populist European counterparts. But it is a tribute to the American two-party system’s capacity for political integration that extremist forces remain marginalized, despite the rhetoric of the Tea Party. President Barack Obama, in particular, has been able to attract support as a liberal-left idealist and as a centrist-realist at the same time, which enabled him to win re-election in the face of a weak economy and an even weaker labor market.
Nonetheless, without deep socio-economic reforms, America’s GDP growth is likely to be slow at best, while its political system seems paralyzed. Nowhere is there a credible plan to limit the concentration of wealth and power, broaden economic gains through strong real-income growth for the poor, and maintain macroeconomic stability.
The absence of such a plan in the US (and in Europe) has contributed to the decoupling of financial markets from inclusive economic progress, because it suggests that current trends are politically sustainable. But, while this disconnect could continue for some time if no alternative program emerges, the huge gap between financial markets’ performance and most people’s well-being is unlikely to persist in the longer term. When asset prices overshoot reality, eventually they have nowhere to go but down.

I figli dell'austerity


Il refrain che sentiamo continuamente sulla riduzione del debito è che le politiche di austerity non solo hanno senso economicamente (non lo hanno, lo sappiamo...) ma che sono pure un obbligo morale. Non possiamo lasciare il debito accumulato da noi sulle spalle dei nostri figli. Insomma, dobbiamo farlo per le prossime generazioni. Peccato che sia vero soprattutto il contrario. I nostri figli - quelli che già ci sono - pagano sulla propria pelle non il debito ma l'austerity stessa. Tagli alla scuola, trasformazione in senso ancora più classista del sistema educativo, i poveri con meno servizi, i ricchi che non hanno problemi a godere dei servizi privati a pagamento. Altro che merito, il successo diventa sempre più condizionato dal censo, riducendo ulteriormente la mobilità sociale. Questi i punti salienti fatti da Simon Johnson nell'articolo che riportiamo qui sotto. Si riferisce all'America, ma potrebbe essere lo stesso in Europa, in Italia. E potremmo aggiungere un altro punto. Non solo i nostri figli, ma anche i nostri nipoti pagheranno per questa austerity moralizzatrice. Si ritroveranno non solo con una scuola per signori e una per poveri, ma avranno meno diritti, potranno essere licenziati più facilmente, non potranno andare in pensione. Ecco, forse il nostro obbligo morale è quello di offrire loro più opportunità. Il debito lo potranno pagare tranquillamente, in una società più giusta e che produce meglio, e di più, e soprattutto con meno poveri. 

Austerity’s Children


di Simon Johnson
da Project Syndicate


When economists discuss “fiscal adjustment,” they typically frame it as an abstract and complex goal. But the issue is actually simple: Who will bear the brunt of measures to reduce the budget deficit? Either taxes have to go up for some people, or spending must fall – or both. “Fiscal adjustment” is jargon; what austerity is always about is the distribution of income.
Much of Europe is already aware of this, of course. Now it’s America’s turn. And current indications there suggest that the people most directly in line for a fiscal squeeze are those who are least able to defend themselves – relatively poor children. For example, the current budget sequester (that is, across-the-board spending cuts) is already hurting programs like Head Start, which supports pre-school education.
The American comedian Jimmy Kimmel recently poked fun at his compatriots’ lack of fiscal knowledge by asking pedestrians on Hollywood Boulevard what they thought of  “Obama’s decision to pardon the sequester and send it to Portugal.” The segment is hilarious, but also sad, because the impact on some people’s lives is very real. Around 70,000 children are likely to lose access to Head Start on our current fiscal course.
And much larger cuts are in store for early-childhood nutrition programs and health care. Perhaps most shocking are the dramatic cuts to the Medicaid health-insurance program that the House of Representatives’ Republican majority have embraced in their latest budget proposal. Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, proposes to balance the budget over the next 10 years largely by slashing the program. About half of all people covered by Medicaid are children.
Is it fair to force low-income children to bear the burden of fiscal adjustment? According to data available on the economist Emmanuel Saez’s invaluable Web site, from 1993 to 2011, average real income for the bottom 99% of the population (by income) rose by 5.8%, while the top 1% experienced real income growth of 57.5%. The top 1% captured 62% of all income growth over this period, partly owing to a sharp rise in returns to higher education in recent decades. (On average, those with only a high school education or less have few good income prospects.)
This implies that, if anything, the tax system should become more progressive, with the proceeds invested in public goods that are not sufficiently provided by the private sector – things like early childhood education and preventive health care to minimize educational disruption resulting from common ailments like childhood asthma.
Think of it this way: In recent decades, some families chose locations and occupations that seemed to offer a reasonable means of support – and good prospects for their children. Many of these decisions turned out badly, largely because information technology (computers and how they are used) eliminated many middle-class jobs. Increasing globalization of trade also did not help in this regard. In addition, as Till von Wachter of Columbia University has documented, prolonged periods of unemployment for parents have a severe and lasting negative impact on their children.
Children whose families cannot provide a decent start in life deserve help. But America has not provided it – a point recently made by Jeb Bush, a leading contender for the Republican presidential nomination in 2016. “In our country today,” Bush said in a speech to fellow conservatives, “if you’re born poor, if your parents didn’t go to college, if you don’t know your father, if English isn’t spoken at home, then the odds are stacked against you.”
Nor is America likely to provide such help in the future, given the coming budget cuts’ disproportionate impact on children at the lower end of the income distribution.
America can easily afford to do better, of course. Its large budget deficits reflect the impact of tax breaks that favor the wealthy and upper middle class; an unfunded expansion of Medicare coverage to include prescription medicines; two foreign wars; and, most important, a banking system that was allowed to get out of control, inflicting massive disruption on the real economy (and thus on tax revenue).
Today’s children did not play a role in any of these policy mistakes. The preschoolers who are about to lose access to Head Start weren’t even born when they were made.
mposing austerity on poor children is not just unfair; it is also bad economics. When economists, again with their dry jargon, talk about a country’s “human capital,” what they really mean is the cognitive and physical abilities of its people.
As I pointed out in recent Congressional testimony, poor education leads to poor job prospects, poor families, and back to poor education – if not with a detour through incarceration, which makes it even harder to break the cycle. Unfortunately, no one in a position of power is likely to heed such arguments.
They should. When you travel to a foreign country for the first time, and you see neglected, ill-fed, and uneducated children, do you regard that country as likely to be one of the world’s great economic powers over the next half-century? Or do you worry for its future?

lunedì 25 marzo 2013

Dopo Nicosia, Londra e Lussemburgo!

di Nicola Melloni
da Liberazione

Ed infine si trovò un accordo a Cipro. Dopo una settimana di isterie, proposte assurde e piani fatti e passati alla rinfusa, finalmente si è trovata una soluzione, per quanto parziale, ai problemi più pressanti dell’isola.
La differenza fondamentale rispetto al primo piano è che tutti i conti correnti sotto i 100 mila euro saranno garantiti e salvati. Non è una cosa da poco, per una volta non si colpiscono, almeno in maniera diretta, i più poveri e si vanno a cercare i soldi dai più ricchi. Ovviamente, subito dopo si inizierà con i soliti programmi di austerity e privatizzazione, quindi non c’è da brindare per l’accordo raggiunto – e tantissime imprese rischiano ora la chiusura vedendosi i loro conti drasticamente tagliati. Ma l’accordo di ieri è sicuramente un deciso passo avanti rispetto alla settimana scorsa.
Inoltre, una sostanziale fetta dei prelievi dai conti correnti più ricchi verrà dai depositi degli stranieri che hanno usato Cipro come un centro off shore, soprattutto i famosi e famigerati oligarchi russi, ma anche inglesi e tedeschi che hanno sfruttato i vantaggi fiscali concessi dall’isola. Una soluzione, dunque, che ricorda in parte l’Islanda dove le perdite delle banche vennero coperte da prelievi forzosi sui conti esteri – in quel caso soprattutto inglesi (ancora!) ed olandesi. Conseguentemente, i giorni di Cipro come paradiso fiscale sono sostanzialmente finiti. Il settore bancario, così enorme rispetto all’economia di Cipro (quasi 8 volte il valore del Pil) si sgonfierà velocemente e gli investitori esteri, appena le banche saranno riaperte, se ne andranno di gran furia.
Per andare dove però? Perché che le banche cipriote fossero da normalizzare non ci sono dubbi, ma non è certo un caso unico in Europa. Il Lussemburgo ha un sistema bancario che vale 24 volte il Pil del paese senza che nessuno abbia nulla da dire al proposito – forse perché molti capitali sono tedeschi, o più in generale europei e quindi è conveniente per tutti tenere aperto un bel paradiso fiscale nel cuore dell’Europa. E che dire della City di Londra che, in un paese di 60 milioni di abitanti, e non in una piccola isola, ha delle passività quattro volte superiori al Pil della Gran Bretagna? Anche lì con molti russi, oltre arabi e tanti altri capitali di dubbia provenienza. Come mai ora tutti puntano il dito contro Nicosia e le sue allegre pratiche finanziarie e nessuno ha nulla da dire su quello che succede nel resto d’Europa?
Se la Ue avesse intenzione di riportare la finanza sotto controllo non potremmo che rallegrarcene. Nuovamente, però, a Bruxelles sembrano procedere a tentoni, senza nessun piano strategico. Oggi si punisce Cipro, dopo aver colpito la Grecia e già si aspetta un prossimo intervento in Slovenia. Ma di una riforma organica non si sente proprio parlare. Della famosa unione bancaria si sono per ora perse le tracce, osteggiata dai tedeschi, il che ovviamente mette in difficoltà le banche dei Piigs esposte a potenziali fughe di capitale. Più in generale si continua a non discutere degli altri passi fondamentali per dare una struttura stabile all’area monetaria: una banca centrale che sia un vero prestatore di ultima istanza; un sistema che intervenga sui disequilibri macroeconomici sia dalla parte dei debitori (come ora) che dei creditori (cosa che invece non avviene); ed infine un governo che possa organizzare trasferimenti fiscali per alleviare le conseguenze sociali dei suddetti disequilibri e delle crisi.
Senza tutto questo la soluzione ideata per Cipro sarà solo l’ennesima pezza per tappare un buco ben più grande. Deprimerà l’economia dell’isola e sposterà in avanti il redde rationem a livello continentale. In attesa della prossima crisi.

Due o tre cose che potrebbe fare il PD

Dentro il PD si è già scatenata la battaglia, da una parte quelli, alla Fassina, che vogliono un governo di rottura, dall'altra chi, come i seguaci di Renzi (e, immaginiamo, tanti vecchi big), vuole un governo di scopo con Berlusconi, probabilmente con l'appoggio del Colle. Circa sulla stessa linea si dividono i grandi giornali, col Corriere che parla di aperture a Monti, Cancelleri, addirittura Bombassei, mentre la Repubblica racconta di un Bersani con Rodotà e altre personalità d'area.
Il problema non è di poco conto. Berlusconi vuole l'accordo ma non il cambiamento; Grillo invece, dice di voler cambiare le cose ma non vuole nessun accordo. A soffrirne sarebbe solo il Paese che ha bisogno di un vero e proprio cambio di marcia.
Partendo magari dalle cose più semplici che sono anche quelle di maggiore impatto. Per esempio sul Corriere di domenica Dario di Vico ha raccontato la situazione disastrosa dei pendolari italiani, tra chi va in macchina, chi in bus, chi in treno, con una disorganizzazione totale, una rete obsoleta, infrastrutture inadeguate. Ebbene, in una situazione del genere, con pochi soldi e quindi con la necessità di fare scelte, non sarebbe un segnale di grandissima discontinuità sospendere a tempo indeterminato la TAV Torino-Lione e dedicare tutte quelle risorse al problema dei pendolari? La TAV, si dice, porta investimenti (sicuramente), lavoro (in parte), crescita (tutto da dimostrare) ma poco o nessun miglioramento nella qualità della vita delle persone. Una modernizzazione del sistema pendolare invece potrebbe allo stesso tempo avere un effetto benefico sulla vita di milioni di persone ed anche migliorar notevolmente la produttività (niente ritardi, meno stress, meno tempi morti e persi, etc etc..).
Nella stessa maniera si potrebbe decidere di cancellare completamente il programma degli F 35. Non una riduzione degli apparecchi comprati, proprio una rinuncia al programma, come per altro fatto senza scandali da altri Paesi, anche in virtù di un prodotto che, secondo molti mezzi di informazione tra cui il NYT, ha una spesa completamente fuori controllo e difetti tecnici disastrosi. Anche qui, i soldi per la ricerca servirebbero come il pane, per costruire basi solide per il presente e soprattutto il futuro del paese, per non perdere più talenti e intelligenze ma per attirarle, per rendere un servizio al sistema economico integrato, per investire in uno dei settori chiavi del Paese, l'Università.
Ed infine, la scuola pubblica. A Bologna a Maggio si terrà un referendum per togliere i fondi alle scuole private paritarie. Come si ricorderà il dettato costituzionale spiega chiaramente che alle scuole private è riconosciuta pari dignità ma senza oneri per lo Stato. Cosa puntualmente disattesa da Governo, Regioni e Comuni, comprese indubbiamente tante amministrazione di centrosinistra. Ecco, sarebbe bello che per rispetto sia ai cittadini che alla legge il PD chiudesse immediatamente questo assurdo movimento di soldi verso le private. Nella scuola pubblica non ci sono i soldi per la carta igienica e intanto paghiamo parte della retta (che rimane comunque più cara che nel pubblico) finanziando le scuole private?
Qui non si tratta diciamolo chiaramente, di fare niente di rivoluzionario, semplicemente di buon senso. Di stare dalla parte dei cittadini. Di non trincerarsi dietro interessi più grandi e spesso intangibili per i più. Ma di concentrarsi in progetti che migliorino, giorno per giorno, la vita degli italiani. Programmi inattaccabili cui dovrebbero dare il voto tutti quelli cui interessa il futuro dell'Italia.

domenica 24 marzo 2013

L'eredità di Chavez e la terza via


The Chávez Way



di Robert Skidelsky
da Project Syndacate

I remember the exact date of my visit to Venezuela. I was sunbathing by the pool on the roof of the Caracas Hilton. A waiter came up to me and mumbled something about a bomb attack in New York. I rushed to my room and saw the news footage, endlessly replayed, of two airplanes crashing into the World Trade Center.
I was in Venezuela on September 11, 2001, to attend a conference on the “Third Way.” Hugo Chávez was very interested in the Third Way – a modus vivendi between American-style capitalism and state socialism – as had been Tony Blair a few years earlier. Chávez himself, dressed in fatigues, briefly graced the meeting with his presence, receiving a heavy volume of Marxist texts from an elderly professor.
A day earlier, I had had lunch at the Venezuelan central bank, sitting next to the deputy governor, Gastón Parra Luzardo. He told me that all Venezuelans believed that they had been born with a “loaf under their arm” – that is, a right to a share in the country’s oil revenues. As a result, no one worked hard. An economist, Orlando Ochoa, explained that rent-seeking dominated the Venezuelan economy. Oligarchs fight to keep control over the oil revenues, populists promise to redistribute them, and both groups steal as much as they can for themselves. No one is interested in creating wealth.
“No one,” I wrote in my diary, “believes that Chávez will last his full term. They see him as a damaging buffoon, rather than as a dangerous revolutionary.” In fact, a coup against him was attempted a year later. He survived it, and went on to win a second, a third, and then a fourth term.
The debate over Chávez’s political legacy is a posthumous re-enactment of the ideological battles that were fought while he was alive. The battle for his economic legacy is more straightforward: it comes down to how he managed Venezuela’s oil wealth.
Venezuela has the largest oil reserves in the world, and Chávez’s economic strategy depended on harnessing that wealth in order to address his country’s social problems. The first few years of his rule were dominated by his struggle to gain control of the country’s state-owned oil company, PDVSA.
Upon reasserting political control in 2003, Chávez fired 40% of PDVSA’s staff. His hostility to foreign players in the industry (he expropriated several American oil companies’ holdings in 2007) limited investment and held back production. Chávez turned PDVSA into a personal fiefdom and used it as a cash cow; many of his social programs were funded directly from the company’s budget.
Starved of cash, PDVSA was forced to cut back on maintenance and expansion, which increased the number of accidents and limited production. Thanks partly to Chávez’s policies, Venezuela is still a small player in the global oil market, with less than a 3% share of world production. It is therefore vulnerable to price fluctuations, and has to follow the lead of Saudi Arabia and other big OPEC producers.
Though Venezuela’s non-oil sector has been growing, oil still provides the vast majority of its dollar earnings. For the past decade, booming oil prices have spurred economic expansion, with only a short break following the financial crisis of 2008. Yet stumbling oil-export performance and a sharp rise in infrastructure-related imports, combined with an explosive growth in public spending, have fueled consistently high levels of inflation, with the annual rate now at more than 20%.
This has put immense pressure on Venezuela’s dollar-pegged currency, the bolívar. In early 2013, the government was forced to announce a 32% devaluation, and stopped issuing government debt in dollars. The issuance of dollar bonds was a major source of abuse, with speculators buying dollar debt at the official exchange rate, selling it for greenbacks, and then exchanging them for bolivars at a much higher rate on the black market.
With limited access to global capital markets, Chávez turned to China for loans, backed by sales contracts for oil. Loans from the China Development Bank carry higher interest rates than the West’s traditional lending mechanisms, but they also come with fewer restrictions on policy, and allowed Venezuela to escape the worst of the bondholders’ wrath – at least so far.
Where has the oil wealth gone? Chávez’s social programs were the biggest beneficiaries. He used to go around the villages writing checks to poor farmers. The most reliable data suggest that he was successful at reducing inequality; during his rule, Venezuela’s Gini coefficient, a 100-point scale measuring income inequality, fell from 50 to 39, the biggest decline in Latin America. Poverty was cut in half – from 50% to around 25% of the population, while extreme poverty fell by two-thirds.
One can hardly say that every céntimo was well spent. Cronyism was rife and the murder rate tripled, partly owing to corruption in the police and the justice system. Chávez’s petro-diplomacy sometimes took bizarre forms, like providing cheap bus travel for Londoners to please London’s left-wing mayor, Ken Livingstone.
Despite his extravagancies and authoritarian style, the masses loved him. They fervently believed that he was on their side, and voted overwhelmingly for him up to the end, even when they knew that he was dying of cancer. He is sure to enter the pantheon of Latin American heroes.
And what about the Third Way? In the aftermath of the collapse of communism, Chávez’s mix of anti-Americanism and state activism seemed merely eccentric. There could be no alternative to free markets and the neoliberal Washington Consensus – or so it appeared.
But the rise of China, the relative decline of the United States, the long boom in commodity prices, and the Western financial collapse of 2008 have created space for political and economic experiments. Chávez took advantage of that opening, and Chávezism may well prove to be a significant phenomenon far beyond its Latin American homeland.

sabato 23 marzo 2013

La Germania affonda l'Europa?


Nei tre articoli che proponiamo di seguito il leit motif è la posizione della Germania nella crisi Europea. Nel primo pezzo Luigi Zingales spiega quello che in fondo in Italia già sapevamo, che lo spread nell'ultimo anno è stato messo sotto controllo non da Monti ma da Draghi - e questo spiega come mai, con Monti in carica, i tassi di interesse fossero molto più alti di ora, senza governo e con due partiti anti-europeisti che hanno conquistato la maggioranza dei voti. L'intervento della BCE è stato decisivo, ma non può risolvere per sempre i problemi. Prima o poi arriveranno i tempi delle scelte. Il problema è sempre il solito: i governanti tedeschi, di destra e sinistra, sembrano essere più interessati al loro consenso elettorale che al bene dell'Europa ed impongono condizioni strettissime per il bail out - ma così facendo aumentano la rabbia ed il discontento dei popoli dell'Europa meridionale, che rischiano di ritrovarsi nella situazione di un protettorato tedesco, democrazie a sovranità limitata.
Questo è il sentimento diffuso anche a Cipro, come riporta Paul Mason della BBC: rifiutando di mettere tutto il denaro richiesto per il salvataggio dell'isola Merkel e Schauble hanno di fatto imposto un prelievo forzoso sui depositi, scatenando la furia dei cittadini ciprioti. Il ricatto, le minacce, l'agguato teso al presidente cipriota non fanno che accrescere la frustrazione della popolazione. Ora anche il piano B, con i soldi presi dai depositi di gas e dai fondi pensione viene rifiutato da Berlino che richiede garanzie più sostanziali che il debito venga ripagato - e dunque, agli occhi di molti, richiede azioni punitive contro i cittadini degli stati responsabili della crisi, a Cipro come in Grecia, con il risultato che ora nell'isola mediterranea minacciano di lasciare l'Eurozona.
Il problema, però non è solo Cipro. L'uscita dall'euro rischia di essere un precedente disastroso, ma ancora di più rischia di esserlo la richiesta di tassare i depositi, sostanzialmente contravvenendo l'assicurazione sui depositi sotto i 100 mila data dall'Europa. Il rischio prospettato da Mahoney è che queste azioni tedesche rischino di trasformare l'Europa meridionale in una nuova America latina, con un continuo drenaggio di fondi dal Sud - a rischio - verso il Nord - per ora immune dalla crisi finanziaria. In pratica, i depositi dei cittadini, in Spagna come in Italia, sarebbero a rischio, incentivando una fuga di capitali verso la Germania, portando all'impoverimento progressivo dei PIIGS e, forse, al collasso della zona Euro. 

Mario Draghi’s Opiate of the Markets


di Luigi Zingales
da Project Syndacate

From the standpoint of European stability, the Italian elections could not have delivered a worse outcome. Italy’s parliament is divided among three mutually incompatible political forces, with none strong enough to rule alone. Worse, one of these forces, which won 25% of the vote, is an anti-euro populist party, while another, a Euro-skeptic group led by former Prime Minister Silvio Berlusconi, received close to 30% support, giving anti-euro parties a clear majority.
Despite these scary results, the interest-rate spread for Italian government bonds relative to German bunds has increased by only 40 basis points since the election. In July 2012, when a pro-European, austerity-minded government was running the country, with the well-respected economist Mario Monti in charge, the spread reached 536 basis points. Today, with no government and little chance that a decent one will be formed soon, the spread sits at 314 points. So, are markets bullish about Italy, or have they lost their ability to assess risk?
A recent survey of international investors conducted by Morgan Stanley suggests that they are not bullish. Forty-six percent of the respondents said that the most likely outcome for Italy is an interim administration and new elections. And they regard this outcome as the worst-case scenario, one that implies a delay of any further economic measures, deep policy uncertainty, and the risk of an even less favorable electoral outcome.
The survey also clearly indicated why the interest-rate spread for Italian government bonds is not much wider: the perceived backstop provided by the European Central Bank. Although investors believe that the backstop is unlikely to be used, its mere presence dissuades them from betting against Italy. In other words, the “outright monetary transactions” (OMT) scheme announced by ECB President Mario Draghi last July has served as the proverbial “bazooka” – a gun so powerful that it does not need to be used.
Then-US Treasury Secretary Hank Paulson sought a bazooka during the 2008 financial crisis. He failed, because he believed that even a fake gun would work if it looked scary enough. Not falling for the trick, speculators repeatedly called his bluff. Draghi, with his famous pledge to do “whatever it takes” to ensure the euro’s survival, succeeded where Paulson did not. After all, he controls the monetary spigot.
But even Draghi’s bazooka is partly a bluff. Draghi designed it to relieve the ECB of the huge political responsibility of deciding when to save a country from default. For this reason, triggering the OMT mechanism requires the unanimous consent of eurozone governments. But, if the bazooka is needed, how likely is it to be fired before the German election in September? The Morgan Stanley survey did not ask this question, probably because everybody knows the answer: not likely at all.
Thus, markets remain calm because they expect the bazooka not to be needed. In that case, the fact that it cannot be triggered easily does not pose a significant problem. Its presence is enough to support a benign self-fulfilling prophecy. In other words, Draghi’s bazooka has anesthetized markets, impairing their ability to assess risk.
But as with all anesthetics, Draghi’s cannot and will not last forever. Either the underlying problem is fixed before the patient wakes up, or the pain will be devastating.
The investors surveyed by Morgan Stanley put the chance of a renewed crisis in Italy below 25%. I believe that it is higher than 50%. Even after Germany’s election, I am not sure that the government will be willing to support an Italian rescue program without asking for major guarantees concerning the objectives – and even the composition – of Italy’s ruling coalition.
Indeed, German Chancellor Angela Merkel will face a serious dilemma following her likely re-election. Without strict conditionality, she would risk shifting the domestic consensus in favor of Germany’s emerging Euro-skeptic mood. But, by insisting on such conditionality, she would trigger a huge political crisis in Europe. If the German government gets to decide who governs Italy, why should Italians bother voting? The eurozone will look like a German protectorate, rather than a voluntary union of sovereign countries. The political backlash would be enormous.
The only hope is that the eurozone makes strong progress toward establishing fiscal-redistribution mechanisms, such as European unemployment insurance, before Draghi’s anesthetic wears off. Otherwise, Europe will face a very rude awakening indeed.

fonte: http://www.project-syndicate.org/commentary/why-the-ecb-s-omt-bazooka-is-not-enough-by-luigi-zingales#tirMk60kg3rPk6J6.99




Will Germany Turn Europe Into Latin America?

da Project Syndicate


The headline in today's Journal is "Merkel's Hard Line, Vilified In Nicosia, Cheers Germany". Some quotes:
"Cyprus lives off a banking sector with low taxes and lax regulation that is completely out of whack. As a result, Cyprus is insolvent and no one outside of Cyprus is responsible for that…We've taken measures in all countries to protect ourselves against contagion effects."
--Wolfgang Schaueble, Finance Minister
"Merkel has nothing to lose in Cyprus."
--Ulrike Guerot, European Council on Foreign Relations
Germany is happy about the Cyrpus banking crisis because it will punish Cypriot sinfulness. I guess the sin is that the eurozone is no place for an offshore banking center/tax haven, which is debatable. But that decision should have been made before Cyprus was admitted into the eurozone. Now its banks have EUR 50 or 60 billion in euro-denominated deposits which Germany wants it to default on. The Journal says that "one reason that Berlin is taking such a hard line on Cyprus now is that it sees the country's crisis as a unique opportunity to end its reliance on tax refugees". This is punishing shoplifting with the death penalty.
Germans are very skilled at making things and being thrifty. They are economically admirable in every way except one: they have never accepted modern capital markets. They have resisted anglosaxon capitalism for forty years, and they still don't accept it. Germany (like France) believes in intermediated financial markets which can be controlled by the authorities in order to ensure financial stability. They don't trust independent market actors like hedge funds, US investment banks or rating agencies. You can make an argument that they are right, but it's way too late. They lost that battle and global finance is now substantially anglosaxonized.
A large percentage of European capital flows today are disintermediated, especially cross-border. And anyway, foreign banks are no more controllable than hedge funds. The creation of the eurozone by itself substantially reduced the power of national authorities. Consequently, the European capital market is now more powerful than the European national authorities. Germany doesn't like this for good reasons, but it is a fact that she can't change. Causing Cyprus to default is not a good way to deal with this issue.
So where's the black swan here? What did everyone miss? The markets knew that the Cyprus banks were insolvent because of Greece’s default. They knew that Cyprus had billions in offshore deposits. They knew that the Cypriot political system (like Greece's) is politically incapable of accepting any form of IMF-style austerity. Everyone has known about this witches' brew. But, everyone figured, the Cyprus problem is a rounding-error, and Europe always manages to kick the can down the road. It’ll get fixed. That’s certainly what I’ve been predicting.
What we didn't know was that Germany wants a crisis in Cyprus. Germany wants Cyprus to default on its bank deposits. That wasn’t understood until now. That’s the black swan. In retrospect, we can see the explanation: bailout fatigue on the part of the thrifty German people; the desire to disallow the enabling of tax evasion by a eurozone member; and outspoken distaste for the Russian kleptocracy. But the truly dangerous part of the German rationale is the mistaken opinion that a Cyprus banking collapse is manageable. This is the same stupid complacency that led to Lehman.
A Cypriot banking collapse will have unpredictable consequences; it’s a shot in the dark. It will inevitably create contagion--maybe not immediately, but eventually. Credit committees work on schedules. If Cyprus goes, risk limits for southern Europe will be reduced. Investments, deposits and capital flows will be redirected. Southern European banks will lose deposits not just from foreigners, but also from domestic investors and corporations.
A deposit freeze affects every bank, not just the weak. A Spanish millionaire is no safer in Banco Santander's headquarters office in Madrid than in the tiny caja down the street. Remember: if Cyprus blows up, Cypriots with deposits in foreign banks will not be affected. The key is getting your money out of the country.
This is a classic Latin American banking discussion. I’ve sat through scores of them. Southern Europe is at risk of going back to a Latin American-style financial system. Latin American depositors instinctively understand that you must keep your company's money and your family's wealth in a hard-currency deposit in a big bank in a strong country. Southern Europeans used to know this: it was called a numbered Swiss bank account. They are relearning this lesson. Let me be clear about what is happening here: we already have within the eurozone billions of nonconvertible euros. That’s a word you haven’t heard lately, unless you live in Venezuela or Cuba.
The West has spent the last sixty years building an institutional framework to allow global trade and capital flows. This has meant the dismantling of currency controls, capital controls, trade barriers and barriers to foreign investment. As this structure has been built, lessons have been learned: Don't lend or borrow foreign currency. Don't build up short-term foreign debt. Capital inflows can go both ways. The eurozone was supposed to be an enhancement to the globalization of finance. It was supposed to do for the eurozone what the dollar zone has done for the Americans.
If eurozone bank deposits now become subject to sovereign risk, that will reverse the whole process. No one can be that reckless, and the Germans aren't supposed to be reckless. They are what economists call "a serious country". Let's hope they stick to that tradition.
A Brief Note on Deposit Freezes
Deposit freezes almost never end well. They are imposed during banking crises in order to stop bank runs. Unless the reason for the lack of depositor confidence is removed or the deposits are rescheduled, the run will resume when the freeze ends. The only way to end a freeze without default is to restore confidence with a guarantee from a creditworthy guarantor backed by unlimited resources. Unlimited resources means a printing press.* There is only one such entity in the eurozone, the ECB, or the ESM backstopped by the ECB. There is no evidence that anyone is even discussing such a resolution. Germany wants a default.


Cypriot crisis: Will Germany's tough stance backfire?

 di Paul Mason
da BBC

The question people in financial markets are shouting about is: what on earth does Germany think it is doing? It triggered the Cyprus crisis and is playing hardball, rejecting the Cyprus government's latest attempt to solve it. Here is my take on what is happening.
First the facts.
Last Friday in Brussels the Germans led Eurogroup ambush of the new president of Cyprus, demanding an immediate resolution to the country's debt crisis.
They were the ones to demand depositors take losses, although at first Mrs Merkel assured them the ordinary savers would lose just 3% of their money. Then, according to a report in the Financial Times, Wolfgang Schauble, the German finance minister, upped this to 6% and 10% for those with savings above 100,000 euros - though this version of events is disputed by German CDU MP Dr Michael Fuchs, who told Newsnight on Monday it is "not our problem" how Cyprus raised the money - as long as it is raised.
This immediately nullified the explicit 100,000 deposit guarantee in the eurozone and the president of Cyprus said it would never pass through parliament.
So to focus Cypriot minds, Jorg Assmussen, the German socialist who heads the council of the European Central Bank also told them the ECB was pulling emergency funding to Laiki Bank, thus rendering it insolvent.
Moral hazard Now, after a week of Cypriot attempts to get Russia to soften the size of the bailout, which Germany also nixed, the Germans have rejected the latest plan out of Nicosia, which would involve nationalising the country's pension schemes and also mortgaging future revenues from an oil and gas field that comes on stream in 2020.
Germany's intent in all this is, at a textual level, clear: they want to avoid creating a moral hazard, rewarding a country that has sold itself as a rule-free playground for Russians who want to keep their money offshore.
They want to insist any money lent from the European Stability Mechanism (ESM) bailout fund can be paid back on a sustainable basis, and so they need a debt write off.
In Greece this came from banks who had bought government debt; but in Cyprus few global banks were stupid enough to buy this debt, and so the money has to come from Cypriots themselves.
But there is a wider, strategic and philosophical basis to Germany's stance. First, they are engaged in a tough negotiation over the shape of a future banking union in Europe.
Decisions taken in Germany are directly affecting ordinary Cypriots
Once that union is in place, say Germany, Finland and the Netherlands, direct centralised bailouts of banks will be allowed: there will be effective pooling of taxpayer money within the eurozone. But…
This north European trio are insisting the new banking union cannot cover "legacy debts": that is, from the pre-2007 crisis.
So it is logical to pursue at the same time a banking union with fiscal transfers in future, and a cleanup of the old debts with the countries responsible taking the pain.
On top of that the German public is increasingly outraged over the scale of its taxpayer exposure to what it sees as profligate peripheral countries.
So that is the principle, the strategy and the tactics of Germany.
But here is the problem: the outcome of their actions is repeatedly creating situations they do not want.
Cyprus, like Greece and Spain beforehand, creates an existential crisis for the euro. Once one country leaves, however small, the fiction that it is a permanent currency union is exposed.
In the process of imposing perfectly rational economic pain, something else is revealed.
The eurozone does not involve shared sovereignty - which is hard enough for some countries to accept under austerity pressures. In fact it has come to involve the sovereignty of the solvent nations over the insolvent nations.
Contagion What shocked everyone, not just Cypriots, was the sudden, tactical and coercive manner in which both the IMF and the ECB attacked the incoming Cyprus government.
It was the equivalent of the cops breaking down your door at 6am: perfectly legitimate if you have the legal right to do so, but it can seem excessive.
So Germany is left with a mismatch between intent and outcome. And the outcome could get really nasty. It is not just the contagion effect on southern Europe of seeing queues at cash machines and people going bust. Or the potential "me too" effect on Greece if Cyprus leaves.
What is being presented is a choice: stay in Europe or become part of the Brics, beholden to Russia for finance, Israel for various as yet untransparent deals, remain continually at odds with Turkey and Northern Cyprus, and once your finances have recovered, sell yourself as a kind of posh nightclub to the world.
Actually, the polls are telling us, and my colleagues on the ground report, more and more Greek Cypriots are seeing this as a viable option. Given the choice between a busted euro and a vibrant, if rule-free, future in the Russian penumbra, they may choose the latter.
Israel and Iran This FT article gives a flavour of the diplomatic and military unknowns out of a closer Russian-Cypriot relationship.
The Russian Navy could gain a Mediterranean base, but Russian intelligence would then lose the ability to mingle freely with Nato personnel, suggests the author, so it is swings and roundabouts.
I would suggest the island is currently also something of a diplomatic and intelligence battleground for Israel and Iran, so it gets even murkier.
In the end the crisis has exposed two weaknesses of modern German politics: first on economics, they don't seem able to move away from principle-driven action to outcome-driven action.
On the bigger geo-diplomacy - driving an EU member state into the arms of the Russians and sending a big sub-textual signal to other states close to Russia - it just begins to look like the Germans cannot do geo-politics.

fonte: http://www.bbc.co.uk/news/world-21899515

Il PD e la crisi dell'Eurozona

Proponiamo questo interessante articolo di Alfonso Gianni uscito sul Manifesto in cui si chiede chiarezza al PD sulle prossime strategie da adottare a livello europeo. Gli 8 punti di Bersani parlano di uno stop all'austerity ma rimangono assai vaghi sul significato di questa formula, come già evidenziato in un nostro post precedente. La UE non sembra per nulla prendere in considerazione il fermento sociale e politico generato dalla crisi e la situazione richiede dunque scelte politiche coraggiose. A maggior ragione, dopo la grande novità di Cipro e della possibilità di forzare Bruxelles e Berlino a rimodulare le loro proposte o, altrimenti, a rifiutarle. Da questi dati dovrebbe partire una radicale riconsiderazione delle politiche economiche. Se si vuole cambiare, da qui bisognerà partire.

di Alfonso Gianni
da Il Manifesto

«Il governo italiano si fa protagonista attivo di una correzione delle politiche europee di stabilità»: questo è l’incipit degli otto punti su cui Bersani intende fondare la sua proposta di governo, sempre che Napolitano gli conferisca l’incarico. Sul piano formale questa formulazione segna una certa distanza dalla Carta di intenti originaria. E smentisce chi diceva che certe cose non si possono dire pena la vendetta dei mercati. Leggendo però le aride righe successive se ne scopre anche il limite.
Si scopre che questa correzione si limiterebbe ad un allentamento dei vincoli di bilancio per liberare risorse per investimenti produttivi. Se capisco bene, una golden rule in miniatura.
Molto poco di fronte alla gravità della crisi che non attende le schermaglie della politica italiana. Se la pressione sullo spread si è un poco allentata – ma questo non è dovuto all’azione del governo Monti, quanto all’iniziativa assunta dalla Bce nell’acquisto dei titoli del debito italiano -, il fronte dell’economia reale si presenta come un vero disastro. L’Italia è in recessione da sei trimestri, ma quello che è peggio è il l’immediato futuro. Nell’Eurozona l’ultimo trimestre del 2012 si è chiuso con un andamento del Pil in discesa rispetto ai mesi precedenti. Il record negativo appartiene alla martoriata Grecia, ma l’Italia si piazza al terzo posto della decrescita, che chiamiamo infelice per non turbare i seguaci di Latouche. Infatti nel quarto trimestre del 2012 l’Italia ha segnato un -2,7% del Pil, dopo avere chiuso i precedenti trimestri con un -1,3%, un -2,3%, un -2,4%. La Germania che fin qui aveva continuato a crescere, seppure a ritmi sempre più rallentati, registra nel quarto trimestre un calo pari a -0,6% rispetto al terzo. Poca cosa, ma significativa per indicare che anche il potente motore tedesco comincia a tossicchiare.
Le cifre della disoccupazione, sia quella europea, sia quella italiana, aggravata dalla sempiterna questione meridionale, sono drammatiche (da noi in particolare per le donne), e quelle della disoccupazione giovanile ci danno la misura di una generazione perduta, sul piano sociale nient’affatto morale. Infatti il tasso di disoccupazione ufficiale fra le persone comprese nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni ha toccato in Italia, nel gennaio 2013, la percentuale del 38,7% («agghiacciante», ha detto il presidente di Confindustria), mentre i precari sono in tutto 2 milioni 800mila, di cui 2 milioni 375mila con contratti a termine e il restante con contratti di collaborazione. Non c’è da stupirsi, sia detto per inciso, se a fronte della indifferenza del quadro politico dominante, moltissimi di questi giovani sono stati tra i protagonisti dello tsunami grillino.
Servirebbe quindi una svolta radicale nelle politiche economiche europee e italiane. Invece assistiamo all’esatto contrario. Dire: escludiamo gli investimenti produttivi dai limiti di bilancio, non garantisce nulla. Quali sono gli investimenti “produttivi”? Nel caso italiano, si fa la Tav ma non gli ospedali? Si insiste sull’automobile e non sul riordino dell’assetto idrogeologico del territorio? La recente decisione del parlamento europeo di bocciare il progetto di diminuzione del bilancio europeo presentato da Van Rumpuy ha un unico precedente nel lontano 1984, con la differenza che oggi Strasburgo ha potere codecisionale in materia, quindi di veto. Si apre perciò un inedito conflitto fra le istituzioni elettive e quelle nominate come la Commissione e il Consiglio europeo su una materia decisiva quale quella della politica economica. Mario Draghi ha minimizzato le conseguenze del voto italiano, affermando che in ogni caso è stato innestato un “pilota automatico” che guida l’economia senza bisogno di governi nella pienezza dei poteri. Infatti è stato deciso che la formulazione dei bilanci dei singoli paesi venga preventivamente supervisionata per evitare sforamenti. Ma questo potrebbe essere messo in discussione se si affermasse una volontà politica dotata di sostegno popolare pronta a farlo.
Di questo non vi è traccia nei punti del Pd che sembrano riporre le speranze di successo nell’allentamento dei vincoli grazie ai nuovi presunti spazi che sarebbero stati aperti dalla lunga lettera inviata qualche settimana fa dal commissario Olli Rehn ai ministri dell’Ecofin, nonché ai presidenti della Bce e del Fmi. Ma se si legge con attenzione quel documento ci si accorge che quelle speranze sono del tutto infondate.
Il testo di Rehn fa un vago accenno al fatto che gli effetti depressivi delle misure restrittive adottate dalla Ue hanno superato le previsioni, ma si guarda bene dal denunciare come profondamente sbagliati i moltiplicatori fiscali adottati in Europa, come invece ha dimostrato chiaramente lo stesso Fmi, e quindi di suggerire modifiche effettive. Attribuisce il calo della pressione sugli spread alle restrizioni di bilancio, occultando che invece essi vanno interamente attribuiti alle decisioni della Bce sulle Outright Monetary Transactions (OMTs), ovvero gli acquisti dei titoli di stato a breve sul mercato secondario. Infine si dichiara disposto ad allungare i tempi per raggiungere gli obiettivi di bilancio, a condizione che vengano mantenute le famose riforme strutturali che in realtà consistono in cospicui tagli alla spesa pubblica e quindi ulteriore smantellamento del welfare, svendita dei beni pubblici, blocco dell’intervento pubblico in economia, riduzione del personale e delle retribuzioni reali nella pubblica amministrazione. Ovvero l’implementazione di tutti i punti della famosa lettera Bce inviata al morente governo Berlusconi ai primi di agosto del 2011.
Tutto ciò malgrado che la certezza granitica sulle virtù delle politiche di rigore comincia a incrinarsi anche nella potente Germania, che da queste ha tratto i maggiori vantaggi. La Camera dei Länder che compongono lo Stato federale tedesco, dove ha la maggioranza l’opposizione rosso-verde, ha bloccato l’intesa sul bilancio richiesto dalla Merkel ai partner europei, proponendo in cambio il varo di un salario minimo nazionale, progetto respinto dall’esecutivo centrale.
Naturalmente la Cancelliera non intende demordere. Anzi rilancia. Ed ecco che, cosa mai avvenuta prima, si reca a Varsavia per partecipare al vertice del gruppo di Visegrad (composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) per lanciare un nuovo patto per la competitività, che a Est si coniuga perfettamente con una preesistente situazione di basse retribuzioni, welfare quasi nullo e tanti vantaggi fiscali per attirare capitali stranieri. Nel frattempo nasce «Alternativa per la Germania» un partito antieuro, favorevole al ritorno al marco o quantomeno a un’unione monetaria più concentrata sul grande paese tedesco e i suoi satelliti. Non contenti degli insuccessi dell’austerity gli organi europei e il Fmi impongono a Cipro, in cambio di “aiuti”, il prelievo forzoso sui depositi bancari privati fino al 9,9% (quando Amato lo fece nel 1992 si fermò allo 0’6%). Aveva proprio ragione chi ha scritto sui muri di Atene «Per favore, non aiutateci»!
In questo quadro, fatto di crisi, ma anche di nuove potenzialità, ciò che resta della sinistra radicale si divide tra chi vorrebbe un piano per l’uscita dall’euro e chi sostiene la ridiscussione dei trattati senza passare dalla fuga dalla moneta unica. La scelta chiama in campo questioni complesse, ma si potrebbe intanto osservare che chi chiede l’uscita dell’Italia dall’euro pone tutta una serie di condizioni per contenerne gli effetti immediatamente negativi e indesiderati di una simile mossa ( quali l’indicizzazione dei salari, il controllo dei movimenti di capitale ecc.), condizioni che richiedono necessariamente un’azione di governo per compierla, ovvero una forza reale capace di fare fronte alle immediate manovre speculative del capitale internazionale. Allo stesso modo un’azione comune tra i paesi mediterranei e più in difficoltà nell’Eurozona per la modifica dei trattati richiederebbe una forza decisionale e un sostegno popolare altrettanto grandi, e non in un paese solo. Si può quindi concludere che in realtà i due piani, almeno per un considerevole percorso, potrebbero nella pratica se non coincidere, almeno tenersi per mano senza divisioni così aspre tra l’uno e l’altro. In altre parole lo spazio oggettivo per un europeismo di sinistra si è allargato e non ristretto, basti guardare al programma di Syriza. Da noi invece è ancora senza interpreti che siano dotati di forza e di consensi e non solo di buoni argomenti.