domenica 15 maggio 2011

La soglia psicologica dei 5 milioni (di disoccupati)
di Monica Bedana

Alleggeriamo la tristezza dell'argomento con un po' di meseta...il mio angolo preferito del Tormes, vicino a casa

Queste righe le scrivo perché me le ha chieste Simone Giovetti e, come lui ben sa, non riuscirei mai a dirgli di no. Scrivo quindi raccontando come racconterei ad un amico, con parole mie, quello che so e credo di aver capito su come questo Paese, la Spagna, in cui vivo ormai da mezza vita, sia arrivato alla soglia dei cinque milioni di disoccupati ed i segni di ripresa economica, quei “verdi germogli” che spera di veder crescere a breve rigogliosi il Ministro dell'Economia, pare abbiano ancora bisogno di molto fertilizzante, prima di spuntare.

La Spagna non sta affrontando per la prima volta, in tempi moderni, il problema di un' altissima percentuale di disoccupati; già verso la fine dell'ultimo governo di Felipe González, nel 1996, il 22% della popolazione attiva era in cerca di lavoro. Allora però il Paese stava entrando lentamente nella via della modernità dopo quarant'anni di isolamento dovuto alla dittutura franchista. Il cammino si dischiuse completamente con l'entrata della Spagna nell'Unione Europea. Si modernizzò il paese mettendo in atto una pesantissima riconversione industriale; migliorarono l'educazione, la sanità, le infrastrutture, i meccanismi di protezione sociale, ma tutto ciò -vale la pena di ricordarlo- fu a costo di aumentare abbondantemente il debito pubblico e di ricevere dall'Unione Europea quasi la metà di quei fondi di sviluppo destinati alle economie più deboli, che ieri come oggi erano l'Irlanda, il Portogallo e, appunto, la Spagna. Il circolo vizioso era già iniziato quindi nel '92, l'”anno della Spagna”, quando si gridò al miracolo economico per gli apparentemente spettacolari risultati delle Olimpiadi di Barcellona, dell'Expo di Siviglia, dell'AVE tra Madrid e Siviglia, il miglior treno d'Europa per alta velocità.
Modernizzazione e crescita alla velocità della luce, ma lo sviluppo economico era un gigante dai piedi d'argilla.

Sulla sinistra, in fondo, le querce del campo charro, il regno dei maialini neri e dei tori da corrida

Dopo il 1992, è senz'altro il 2007 il secondo anno emblematico per la Spagna moderna; in primavera del 2007 la disoccupazione toccò il minimo storico, secondo le statistiche: solo un 7,9% di persone stava cercando lavoro quella primavera, soltanto 1,7 milioni di disoccupati. Eppure i primi sintomi della crisi economica mondiale erano già nell'aria.

Spiegare come si è giunti, da quella fausta primavera del 2007 ad oggi, con oltre 4,9 milioni di disoccupati, è relativamente facile; difficilissimo invece immaginare o sapere come uscirne (e in questo campo nemmeno oso un abbozzo di teoria, ché mi par già di sentire il professor Melloni che sventola la bandiera del “sangre, sudor y l'agrimas” e ci spinge fuori dall'euro).
Il lasso di tempo in cui si è passati dalla vida loca, l'epoca in cui ottenere denaro in prestito era perfino più facile che sentire Mourinho lamentarsi di qualcosa, è relativamente breve, quattro anni scarsi. Ma lo scoppio della bolla immobiliaria non fu che la punta dell'iceberg di un sistema produttivo che da lustri aveva iniziato a squagliarsi senza che nessuno avesse pensato per tempo a correre ai ripari. In pratica, trovare lavoro era facilissimo, ma si trattava quasi sempre di lavoro poco qualificato e segnato inesorabilmente dalla temporalità.


All'orizzonte, i campi di lenticchie e ceci, famosi prodotti della Armuña, l'angolo di meseta in cui vivo

Durante gli anni d'oro dell'edilizia, tra il 2003 ed il 2007, in Spagna si costruivano circa 700.000 case all'anno; nella famosa primavera del 2007 ben 2,7 milioni di persone, secondo dati dell'EPA (Encuesta de Población Activa) lavoravano nella costruzione; i dati di aprile di quest'anno indicano che in questo settore ora resistono a malapena 1,5 milioni di lavoratori. Insomma, negli anni delle vacche grasse in Spagna, più che in qualsiasi altro Paese dell'Unione Europea, i posti di lavoro che furono creati non necessitavano qualificazione, si trattava di bassa manovalanza che qualsiasi persona avrebbe potuto svolgere, senza bisogno di preparazione specifica; per questo i settori che crebbero a dismisura furono la costruzione de il turismo. Settori che divennero le colonne portanti della nostra economia, oltre ad una eccellente entrata di finanziamenti esterni che ora bisogna pagare. A ciò si aggiunge che qui sono relativamente poche le aziende davvero competitive a livello internazionale (nel mio precedente articolo sulla cementificazione del Veneto ho citato Sacyr Vallehermoso, per esempio). Per essere competitivi bisogna innovare; per innovare bisogna investire nella ricerca, perché l'assenza di ricerca ed innovazione finisce per minare la produttività. Le piccole imprese, ancorate a sistemi di produzione obsoleti, o i gruppetti di muratori che vagavano da una periferia all'altra, dalla costruzione di un condominio all'altro, vivevano della stagionalità, del contratto a termine, pensando che ciò poco importava mentre si continuava a costruire. E cosí nei settori meno specializzati e più legati alla temporalità sono affluiti molti giovani, che hanno abbandonato gli studi tratti in inganno dal miraggio di uno stipendio più o meno fisso (che a sua volta apriva le porte dell'emancipazione perché era facilissimo ottenere dalle banche -e soprattutto dalle casse di risparmio- il mutuo non solo per la casa, ma anche per arredarla da cima a fondo e, già che c'erano, pure per una macchina nuova). E vi sono affluiti gli immigrati, molti legali ma moltissimi clandestini, che ora in parte (una percentuale piccola) ritornano ai loro paesi di origine (prevalentemente il sudamerica) ma nella maggioranza dei casi allungano le code alla Caritas per un piatto di minestra o, nella peggiore delle ipotesi, si rifugiano nella criminalità organizzata.


Ogni tre persone al di sotto dei 25 anni, in Spagna ce n'è una che non trova lavoro. E se non si creano nuove aziende, quelle che solitamente danno spazio ai giovani laureati, si può ben capire come in questo Paese sia cosí tremendamente diffusa la disoccupazione giovanile. La temporalità del lavoro riguarda almeno il 30% dei contratti; se a ciò si unisce la scarsa qualità dell'impiego non stupisce che il connubio tra le prime avvisaglie delle subprime (hipotécas tóxicas in spagnolo, un'espressione molto più realistica e pungente) verso la fine del 2007 ed il fallimento de Lehman Brothers, abbia spazzato via in un soffio un sistema che già scricchiolava da tutte le parti nella sua stessa natura. Non appena il rubinetto del credito si chiuse ed il PIL inizió inevitabilmente a scendere, i primi ad essere rimandati a casa furono i lavoratori con contratto a tempo, quelli meno costosi da liquidare. Poi la crisi era peggiore di quanto si volesse ammettere e mentre Governo e Sindacati non trovavano il modo di giungere ad accordi collettivi di settore per la riduzione dei salari o per cambiamenti che riguardassero gli orari o la mobilità del personale, l'accetta iniziava a tagliare anche i contratti indefiniti. Le aziende piccole chiudevano i battenti, quelle grandi, come Seat o Nissan, due dei casi più discussi del paese, si apprestavano a tirare la cinghia.
I risultati dei tagli praticati “a fin di bene” dal Governo sul settore pubblico e delle varie politiche di rilancio dell'economia e dell'occupazione ancora non si vedono; la speratissima ripresa della crescita, imbrigliata com è dalle esigenze e le costrizioni dell'Unione Europea, se anche dovesse far capolino, sicuramente non sarebbe competitiva.

I Governi di Felipe González instaurarono i contratti-spazzatura, quelli di Aznar gonfiarono la bolla immobiliare; Zapatero ha goduto dei frutti dell'epoca delle vacche grasse migliorando senza dubbio il sociale, ma con poca lungimiranza in quanto allo svecchiamento di buona parte del sistema produttivo del Paese. Ora i sacrifici toccano ai cittadini e probabilmente, come dice il professor Melloni, dovremo rassegnarci tutti ad un lungo periodo di “sangre, sudor y lágrimas”.

Il nostro 5X1000 della prossima denuncia dei redditi
al "Children's Relief Fund ONLUS"

Le foto ce le ha mandate Genny per illustrare alcuni dei programmi che il CRF sta sviluppando



Si avvicina il momento di compilare la denuncia dei redditi. E' una data in cui Genny Carraro, di Resistenza Internazionale, volontaria di "Children's Relief Fund", chiede agli amici di destinare il cinque per mille della loro imposta sul reddito alla suddetta fondazione. Attraverso questo blog amplifichiamo la sua voce ed estendiamo l'appello ai lettori.


Farlo è semplice, basta indicare nell'apposito spazio questa dicitura, con il relativo codice fiscale:


CHILDREN'S RELIEF FUND ONLUS: codice fiscale 94083850308


Questo è ciò che ci scrive Genny da Manila, dove ora si trova per visitare i progetti in corso:


"Il Children’s Relief Fund ONLUS – CRF è un’organizzazione nonprofit, laica e formata da soli volontari fondata allo scopo di portare assistenza a bambini di strada e bambini in difficoltà. Il CRF lavora nelle aree più povere di Manila, Filippine. Il CRF sostiene due centri per bambini di strada: un centro ospita 20 ragazzi di eta’ compresa fra i 5 e i 16 anni, offrendo loro vitto alloggio, educazione scolastica, cure mediche... e’ una casa ed una famiglia; il secondo centro e’ un centro per la comunita’ e al suo interno sono stati sviluppati un asilo, un piccolo centro informatico, una biblioteca per la comunità, una clinica dentistica ed un laboratorio di sartoria. L’organizzazione sostiene inoltre corsi di formazione professionale e corsi di alfabetizzazione ed una scuola superiore per ragazzi che non possono permettersi nemmeno l’educazione pubblica. Per mantenere in vita questi progetti il CRF organizza piccoli eventi, concerti, conferenze, cerca il sostegno di aziende, ma soprattutto punta al sostegno a distanza dei singoli bambini: attraverso questo “sistema” ci e’ possibile garantire l’educazione ed il mantenimento di un bambino a lungo termine".


Potrete trovare maggiori informazioni sul "Children's Relief Fund" cliccando QUI per accedere al sito ufficiale. Passiamo parola!

Wu Ming 4 intervista Andrea Camilleri
in occasione del 1º maggio bolognese 2011

Un video segnalatoci da Carla Gagliardini e trasmesso in Piazza Maggiore a Bologna, in occasione del 1º maggio.

Londra ed Edimburgo, le due Gran Bretagne
di Nicola Melloni

La consultazione elettorale avvenuta la settimana scorsa nel Regno Unito ha dato risultati molto chiari. Il referendum per modificare il sistema elettorale maggioritario in senso leggermente più proporzionale è fallito miseramente, i Liberal Democratici partner di governo dei Conservatori sono stati duramente puniti ed in Scozia si è registrato il trionfo degli indipendentisti.

Cosa sta succedendo, dunque, tra Londra ed Edimburgo? In Inghilterra il trend a favore dei Libdem, che erano continuamente cresciuti negli ultimi dieci anni, si è bruscamente interrotto e si è tornati al classico sistema diviso tra Tories e Laburisti. Non è una sorpresa. La scelta suicida di Nick Clegg, leader dei Libdem, di entrare nel governo Cameron ha avuto effetti devastanti. Tutte le politiche progressive che quel partito aveva promesso, attirando una fetta consistente di voti di sinistra delusi dal New Labour di Blair, sono state tradite, in nome del compromesso di governo. Compromesso che ha favorito solo i Conservatori che hanno dettato l'agenda politica accontentando i propri elettori mentre Clegg e i suoi pagano per l'azione di governo. D'altronde, chi è soddisfatto di Cameron e del suo gabinetto vota Tory, mentre i delusi votano Labour. L'antipatia per i LibDem è divenuta così forte che il referendum sulla riforma elettorale è naufragato proprio perché sostenuto dai Liberal Democratici. Anche il supporto dato dal Labour al tentativo di riforma non è servito, con gli elettori di sinistra ben decisi a punire il tradimento di Clegg e del suo partito che rischiava di essere il più avvantaggiato da tale riforma.

La geografia politica dell'Inghilterra sembra dunque polarizzata, con il sud del paese - la grande campagna inglese - fermamente in mano conservatrice, mentre il Nord e le città industriali sono ritornate saldamente in mano laburista. Il contrasto è durissimo, si tratta di due paesi che non si parlano, basti pensare che a Manchester e Liverpool i Conservatori non sono neppure presenti nei consigli comunali. Ma la situazione è ancora più drammatica se si studia il caso scozzese. La Scozia è stata da sempre un bastione Labour ma negli ultimi anni si è registrata la forte ascesa degli indipendentisti che giovedì scorso hanno conquistato la maggioranza assoluta nel parlamento e potranno ora indire un referendum sulla secessione scozzese dal Regno Unito.

Certo i rapporti storici tra Edimburgo e Londra non sono mai stati idilliaci ma quello che sta succedendo è in realtà un fenomeno che va ben oltre i confini britannici. L'Europa tutta viene attraversata da nuovi movimenti che non sono più nazionalisti in senso classico (con qualche eccezione di rilievo, Francia, Svezia, Austria e più drammaticamente in Ungheria) ma regionalisti e secessionisti. Il problema è presente nel Regno Unito, in Italia, in Belgio, in Spagna. Sono casi tra loro molto diversi, con differenti radici storiche ed economiche ma uniti dall'incapacità delle politiche neo-liberali di costruire un sistema economico inclusivo. La polarizzazione del reddito e le politiche classiste, unite all'imperante ideologia dell'utilitarismo divaricano fino a distruggerlo il tessuto sociale di una nazione ed infatti questi movimenti hanno preso nuova linfa dalle difficoltà economiche dell'ultimo decennio e dalla recessione che ha seguito la crisi finanziaria negli ultimi anni. Come al solito, il richiamo al territorio, alla nazione, alla razza rappresenta una via d'uscita facile (e sbagliata!) alle difficoltà economiche - basti pensare ai casi sovietico e yugoslavo.

Anche nel caso scozzese i motivi economici non mancano, con i nazionalisti di Edinburgo che rivendicano la sovranità sui giacimenti petroliferi del Mar del Nord. Questi segnali non vanno sottovalutati ed è il caso di ricordare che il sistema di stati europei, così come noi lo conosciamo, è piuttosto recente e che la storia del continente è sempre stata caratterizzata da continue modifiche ai suoi confini interni. La sfida dell'Unione Europea era di abolire le frontiere, ma farlo solo in nome del mercato rischia di ottenere il risultato opposto. Invece di costruire una democrazia europea fondata sui valori di solidarietà ed eguaglianza che hanno contraddistinto il trend plurisecolare iniziato con la rivoluzione francese, si è deciso di puntare sul mercato unico all'insegna del capitalismo anglosassone. Capitalismo anglosassone che con la sua crisi mette ora a rischio l'esistenza stessa del Regno Unito. Un segnale preoccupante che non può essere sottovalutato.