lunedì 4 marzo 2013

Non solo Grecia

Nella giornata di sabato 2 marzo centinaia di migliaia di persone, un milione e mezzo secondo gli organizzatori, hanno partecipato ai cortei indetti dal movimento apartitico Que se lixe a Troika, traducibile con Vada a quel paese la Troika,   Per manifestare contro i tagli alla spesa sociale imposte da Banca Centrale Europea, Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale per ridurre il debito pubblico; la cosiddetta austerità. I cortei più partecipati sono stati quelli nella capitale Lisbona ed in Porto, seconda città del paese, ma la mobilitazione ha avuto luogo anche in altre località portoghesi oltre che presso le comunità all'estero, con presidi e manifestazioni in varie capitali europee. Il carattere della protesta e del movimento che ha promosso la mobilitazione è stato intergenerazionale ed interclassista, senza un'affiliazione o una prossimità ad alcun partito della Sinistra portoghese o ad alcun sindacato, pur essendo considerevole la presenza di spezzoni del principale sindacato, CGTP, e di alcune forze di Sinistra, il Blocco di Sinistra, il Partito Socialista ed il Partito Comunista in alcuni dei cortei. Analogamente a quanto visto in Spagna, con il movimento degli indignados, l'eterogeneità del movimento di protesta racchiude varie istanze sotto il cappello di un generale e generico rifiuto delle scelte politiche attuate dai governi sinora, da ricchezza rischia di essere un elemento di debolezza, dal momento che non sembra esserci una proposta politica alternativa all'esistente. Sebbene il governo non si dimetterà e non si andrà ad elezioni come auspicato e richiesto dai manifestanti, non è chiaro chi o cosa potrebbe rimpiazzare la classe dirigente attuale. Considerato che nel movimento ci sono elettori o ex elettori del centro destra ed il fatto che una parte di esso includa i socialisti nella propria critica, sembra difficile pensare che la sua carica possa dar vita ad un trionfo delle sinistre ad eventuali elezioni o che, invece, possa riformare l'orientamento del PS, in materia di politica economica e sociale, adagiato su quel riformismo che in Europa è corresponsabile della crisi.


I sindacati francesi CGT, FO, FSU et e Solidaires hanno convocato per questo martedì, 5 marzo, cento settanta manifestazioni in tutto il paese per esprimere la propria opposizione nei confronti di un disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che sarà presentato il giorno successivo nel Consiglio dei Ministri. Esso trasferirebbe nella legislazione francese i principi contenuti nell'accordo siglato in gennaio tra l'associazione degli imprenditori, MEDEF, ed alcune sigle sindacali minori (CFDT, CFTC e CFC-CGC) e senza la partecipazione dei sindacati promotori della giornata di mobilitazione del 5 marzo, nonostante essi rappresentino la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati. L'accordo in questione mira alla ripresa della competitività delle imprese attraverso l'alleggerimento delle norme sui licenziamenti e la flessibilità, cosa che, secondo cento deputati socialisti che lo sostengono, introdurrebbe un nuovo modello di relazioni industriali, più democratico. In realtà, secondo i sindacati non firmatari la riforma in via di discussione riprenderebbe lo spirito del modello promosso dalla destra durante gli anni di presidenza Sarkozy e caldeggiato dalla dirigenza del gruppo Renault; la rappresentanza sindacale uscirebbe indebolita dalla conversione in legge di tale accordo, così come sarebbero indeboliti i diritti dei lavoratori, con conseguente innesco di un ciclo di compressione salariale e incremento del precariato, sulla scia di quanto è avvenuto negli ultimi lustri in altri paesi europei. Il fatto che una considerevole pattuglia di socialisti all'Assemblea Nazionale francese ritenga questo un modello auspicabile e democratico di gestione dei rapporti tra imprenditori e lavoratori è un segnale di come la sinistra riformista europea continui a non imparare dai propri errori remoti e recenti. Verrebbe da dire "paese che vai, Renzi che trovi".


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BASTA AUSTERITY

E' giunta l'ora di cambiare. Lo hanno detto le elezioni, lo dice anche il buon senso con l'austerity che ha schiantato l'economia reale e tutta l'Europa in rivolta, dal Portogallo alla Grecia, alla Francia, all'Italia, appunto.
Ed allora, come suggerito nel post qui sotto ripreso da Economiaepolitica.it cambiamo registro. Non facciamoci più imporre da Bruxelles e Berlino il ricatto dello spread, del fallimento, dell'uscita dall'Euro se non licenziamo, tagliamo, chiniamo la testa. Il ricatto lo possiamo fare noi: o basta austerity, o usciamo dall'Euro. La fifa blu che prenderebbe i nostri partner li porterebbe sicuramente a più miti consigli. Per altro, sarebbero d'accordo anche i mercati. Basti pensare all'appoggio dato da Goldman Sachs a Grillo (è quello che può finalmente dire basta all'austerity e quindi alla crisi, stiamo perdendo soldi anche noi!!!!) e la bastonatura data da Soros alla Germania. Non la vogliono i mercati, non la vogliono ai cittadini, uccide l'economia. Rottamiamo l'austerity.


Un governo per ricattare l’Europa e far cessare l’austerità   


di Sergio Parrinello
da Economiaepolitica.it

Sono convinto che i risultati delle recenti elezioni politiche in Italia siano un segnale chiaro e potenzialmente positivo per i paesi forti dell’Unione Europea, come la Germania e la Francia. Essi sono anche un ammonimento per quei politici italiani abituati ad usare la metafora “Europa” per demonizzare chi invoca o un cambiamento degli accordi europei o, se ciò non fosse realizzabile, qualche sganciamento da quegli accordi. Sono anche convinto che i maggiori partiti tradizionali italiani, da un lato, e i governi europei, dall’altro, si assumeranno una grande responsabilità se non sfrutteranno appieno tale segnale continuando a dipingere effetti apocalittici per l’Italia, se, con un’altra metafora, il paese “uscisse dall’euro”.

Perché non prefigurare effetti altrettanto apocalittici se si continua a perseverare con le politiche liberiste di austerità? Ora sappiamo, oltre il fatto che l’Italia è un’economia importante per l’Europa, che gli italiani con il voto sanno protestare in modo democratico contro gli effetti ingiusti di trattati ingiusti e che i compiti a casa li deve fare (anche) l’Europa.
L’Italia non è una piccola economia, non è un piccolo debitore e non è un paese dove si può spaventare la maggioranza degli elettori contro cambiamenti dello status quo con vuote minacce verbali o soltanto con la (non vuota) salita dello spread. L’Italia ha una grande economia, è un grande debitore (con un peso maggiore di quanto lo avrebbe se fosse un piccolo debitore come ci insegna il mondo degli affari) e una parte del suo corpo elettorale non si spaventa a fronte di quelle minacce. Ciò costituisce una specifica forza contrattuale a livello internazionale e, se i suoi rappresentanti politici fanno gli interessi del proprio paese, questi politici possono usarla in sede di Parlamento Europeo senza bisogno di gridare o di lamentarsi e senza bisogno di assumersi il ruolo di mosche cocchiere quando vi si conseguono i vantaggi di piccole concessioni ottenute.
Finora siamo stati intimiditi nel sentirci ripetere “che cosa succederebbe se l’Italia uscisse dall’Euro”. Il segnale espresso dalle elezioni suggerisce invece il seguente controfattuale alternativo: che cosa succederebbe in Italia e in Europa, se non si allentassero i vincoli di bilancio finora imposti e non si istituisse una Banca Centrale Europea come vero prestatore di ultima istanza. In tale contesto fa parte del gioco discutere senza perdere la calma i costi e benefici di un piano B o C, che costituisca una via resa obbligata di sganciamento dagli attuali accordi di Maastricht, nel caso in cui quei governi europei rimanessero  sordi a tali istanze di cambiamento.
Io credo che il PD con Bersani e il Movimento a Cinque Stelle con Grillo si assumerebbero anch’essi una pesante responsabilità se non trovassero un accordo su pochi punti precisi,  ma che uno di questi punti debba essere un impegno forte per ottenere in sede europea e in tempi brevi una inversione di politica indirizzata all’occupazione ed alla crescita e che la forza di tale impegno deriva dal segnale trasmesso dagli elettori italiani: che la partecipazione dell’Italia all’Europa dell’Euro non durerà a qualsiasi costo economico-politico-sociale.
Una tale minaccia sarebbe credibile e potrebbe avere un effetto-domino per il consenso di altri paesi europei su quella linea strategica. Sarebbe troppo immaginare una Primavera Europea? Proviamoci.


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