sabato 30 marzo 2013

Le banche dopo Cipro


di Nicola Melloni
da Liberazione

Il giorno dopo tutti, o quasi, sembrano contenti. Cipro è rimasto nell’Euro; l’ennesimo colpo della crisi è stato, almeno per ora, scongiurato; Ue e Parlamento cipriota hanno trovato, in extremis, un accordo; e il contagio non è avvenuto. Non solo, per una volta la soluzione trovata ha avuto ampio appoggio anche da settori normalmente molto critici dell’operato della Trojka. Da un punto di vista della filosofia del piano di salvataggio, almeno per la parte che riguarda le banche, in effetti, sarebbe ingiusto non trovare alcuni punti positivi. Per una volta non si scaricano le colpe del sistema finanziario sulla fiscalità generale – tradotto, saranno le banche, i loro soci, investitori e creditori ad appianare le perdite. E’ bene chiarirci subito: i titolari di depositi altro non sono che creditori delle banche, hanno affidato i loro soldi ad un ente e, di conseguenza, godono di tutti i benefici e gli svantaggi annessi ad un prestito – compreso in effetti il rischio di perdere i soldi prestati secondo le normali procedure sulla bancarotta. Allo stesso tempo, però, i piccoli risparmiatori sono stati salvati e la garanzia sui depositi sotto i 100 mila euro è stata – tra molti affanni – confermata, salvaguardando dunque un pò di giustizia sociale e riaffermando il principio della progressività del prelievo anche in casi di ristrutturazione delle finanze private. Dunque, almeno in parte, si è cercato di combinare due principi: le banche devono essere in grado di amministrare il rischio di impresa e non possono più ripararsi dietro lo stato per essere salvate, e allo stesso tempo si cerca di fornire quel minimo di garanzie di stabilità, tanto sociale quanto finanziaria.
All’atto pratico, però, le cose non sono altrettanto semplici. Come è stato evidente nello svolgersi della crisi cipriota, questi principi non sono stati dettati da una strategia politica, quanto piuttosto imposti dagli eventi. In primo luogo l’economia di Cipro era davvero troppo piccola per poter pensare di coinvolgere la fiscalità generale – detto in altre parole non sarebbe bastata nemmeno un austerity alla greca per raccogliere i fondi sufficienti a salvare il sistema finanziario. Ed in secondo luogo la tutela dei più poveri è avvenuta solo dopo che Cipro aveva sostanzialmente deciso di lasciare l’Euro – cioè solo davanti al passo finale della crisi. Tutto bene quel che finisce bene, allora? Non proprio. Il nuovo modello di salvataggio – per dirla con il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem – richiede un piano ben più articolato di quello predisposto dalla Ue. Le ricadute sull’economia reale di questi tipi di bail in possono essere tragiche: se da un lato è vero che i consumatori vengono tutelati, è pur vero, dall’altra parte, che le riserve di liquidità delle piccole e medie imprese rischiano di essere mandate in fumo, decretando in molti casi il fallimento delle aziende con conseguenze gravissime per occupazione e crescita (a Cipro si prospetta una recessione nella misura del 10% per anno per almeno due anni: un cataclisma). A livello europeo, i depositi non assicurati rappresentano una parte sostanziale della finanza delle banche, circa il 30% del totale, una cifra che rischia di destabilizzare il sistema bancario e l’intera Eurozona – basti pensare quali potrebbero essere le conseguenze sull’attività economica di movimenti di capitale riguardanti anche soltanto una frazione di quei depositi. Gli investimenti nei paesi della periferia rischierebbero di scomparire dato il rischio inerente di mantenere denaro nelle banche dei Piigs – via il denaro, via i prestiti, via gli investimenti. Cioè, crisi economica ed elevati tassi di interesse. Introdurre un sistema di sanzione delle banche senza una vera unione bancaria vuol dire, in realtà, destabilizzare ulteriormente le finanze dei paesi più deboli.
A Cipro, per cercare di salvare il salvabile, sono stati introdotti controlli sui movimenti di capitale. Anche in questo caso, si tratta, a livello teorico, di uno sviluppo interessante – indubbiamente è venuta finalmente l’ora di ridiscutere la libertà di movimento dei capitali. Ma se questo è vero a livello internazionale, l’introduzione di restrizione ai movimenti di capitali dentro la Ue equivarrebbe ad un de profundis per l’Europa. Fino ad ora la Ue è stata un’area economica unica – ed infatti alla libertà di movimento dei capitali è corrisposta pure, caso unico, la libertà di movimento dei cittadini. Inevitabilmente, con controlli sui capitali, verrebbero introdotte limitazioni anche sulla mobilità del lavoro per evitare rischi di emigrazione di massa – non proprio un caso da escludere se guardiamo a quello che è successo negli ultimi anni non solo nei piccoli paesi baltici, ma anche in Portogallo. Sarebbe, in breve, la fine dell’esperimento europeo. Che ha bisogno, invece, di più unità politica per salvarsi. Fino a quel momento, nessun tentativo di soluzione della crisi sarà coerente e, anzi, conterrà in se stesso i presupposti del fallimento.

Il futuro economico e politico dell'Europa

Il dramma cipriota ha riportato al centro del dibattito politico la crisi europea. Dopo i drammi del 2011 e 2012 legati allo spread, si era pensato - o meglio, fatto pensare - che la crisi fosse sostanzialmente finita o quantomeno meno acuta e pericolosa. E' vero, i tassi di interesse sono scesi e questo è senza dubbio un ottimo segnale per i governi che non rischiano, almeno nel breve periodo, una crisi di liquidità e non sono costretti a pagare interessi eccessivi sul loro debito. Ma la crisi è ben altro. Nel passato, in paesi in via di sviluppo, dopo la crisi si è assistito ad un nuovo impeto nella crescita, la svalutazione rilanciò i settori industriali, alcune delle criticità di fondo furono sistemate. E' il caso della Corea dopo il 1997, ad esempio, ma anche della Malesia ed in parte di Russia, Brasile, Argentina e Turchia. Non è però il caso dell'Europa oggi. A causa delle politiche di austerity l'economia continua ad avvitarsi. L'industria rimane al palo, i consumi calano ed il mercato interno ne soffre. L'euro continua a rimanere forte bloccando le esportazioni. E dunque si cerca di rilanciare la competitività attraverso una svalutazione domestica, riducendo i salari e l'occupazione. Dunque l'Europa sta anche peggio del Giappone che pure con un decennio di crescita stagnante ha mantenuto la disoccupazione sotto controllo dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La domanda è quanto potrà resistere l'Europa con una situazione sociale che si fa sempre più incandescente. Con disoccupazione e povertà in continua crescita, per quanto ancora i popoli d'Europa appoggeranno una Unione che sembra scavare la sua stessa fossa?

Europe’s Lost-and-Found Decade


di Barry Eichengreen
da Project Syindicate

Sentiment in European financial markets has turned. For the moment, the possibility of a Greek exit from the eurozone is off the table. If interest-rate spreads on Spanish and Italian government bonds are any guide, bondholders are no longer betting on a eurozone breakup. European stocks even rose in the week following last month’s inconclusive Italian elections.Investors evidently believe that Europe’s leaders will do just enough to hold their monetary union together. But, at the same time, it is unlikely that Europe’s economy will follow the pattern of emerging-market crises and rise, phoenix-like, from the ashes. Rather, the most likely scenario appears to be a Japanese-style lost decade of slow or no growth.
The first obstacle to a “phoenix miracle” is that governments remain in austerity mode. Yes, there are whispers that the pace of fiscal consolidation could be slowed; indeed, France has already been given more time to hit its deficit target. But this looks a lot like Japan, where the fiscal tap was tentatively opened and closed. Japanese consumers knew that increases in public spending were temporary, so they did not change their spending habits, rendering the policy ineffectual.
The European Central Bank, for its part, is reluctant to do anything to jump-start growth. Like the Bank of Japan in the 1990’s, it interprets its mandate narrowly. It remains a noncombatant in the global currency wars. But, with the BOJ joining the US Federal Reserve and the Bank of England in easing monetary policy, there will be upward pressure on the euro. And a strong euro is the last thing that a weak Europe needs.
Tepid US and global growth forecasts are reinforcing these fears. The few countries that have succeeded in growing, despite austerity, have done so by exporting. But, with global growth below trend in 2013, emulating them will be difficult. Likewise, the early-1990’s recession in the US depressed Japan’s exports and helped to initiate its lost decade.
Finally, Europe’s property-market and banking problems heighten the danger of a Japanese scenario. Japan’s banks invested heavily in commercial real estate and were dragged down when the property-market boom of the 1980’s went bust. Spanish banks are similarly exposed to the property sector and have not yet acknowledged their losses, while Europe, much like Japan 20 years ago, has done too little to strengthen its financial system.
Thus, in Europe now, as in Japan then, the pieces are in place for a lost decade: weak banks make for weak government finances, which in turn make for weak growth and even weaker banks, with the absence of monetary and fiscal support leaving no escape from this vicious spiral.
But there is one important difference. Even at its worst, unemployment in Japan rarely exceeded 4%, owing to a combination of early retirement, social programs, work-sharing, and political pressure on large employers. In the eurozone, by contrast, unemployment is running at a socially catastrophic 12% and is continuing to rise. In Spain and Greece, unemployment is approaching 30%, while youth unemployment is nearing a staggering 60%.
This makes the risk of social upheaval in Europe today much greater than it was in Japan two decades ago. We cannot predict when or where, but sooner or later there will be an explosion of protest, whether violent or taking the form of organized support for political parties espousing radically different policies. Either way, Plan A, in which governments do just enough to avert collapse but fail to jump-start growth, will no longer be viable.
The only question is whether disaffected voters will opt for a harmless comedian like Beppe Grillo or a more dangerous proto-fascist candidate to be named later. In the first case, the result will be economic chaos. There will be a falling out between the new populist government and German Chancellor Angela Merkel (and the ECB), creating high uncertainty about what comes next.
In the second case, the new government’s war of words and policies will be waged not just with the German government in Berlin and the ECB in Frankfurt, but also against minority and immigrant groups at home. The economic threat could be the least of Europe’s worries.
European leaders need to address these dangers. If they double down on status quo policies, their reign will eventually give way to an extended period of populist-inspired economic chaos and minority scapegoating. Alternatively, leaders can listen to their critics and adopt a balanced, two-handed approach that applies both supply-side reforms and supportive demand-side measures to the challenge of ending Europe’s malaise.
For better or worse, the fact that the most severe political and social turbulence is yet to come at least means that Europe will be unable to afford the dithering and half-measures that produced Japan’s lost decade. “If something cannot go on forever,” as the economist Herbert Stein famously put it, “it will stop.”