giovedì 7 febbraio 2013

Nota le differenze



Quale è quello vero e quello falso? Non proprio facile da dire. Il primo sembra un fuori onda, che finalmente parla sinceramente....













Il secondo, invece, sembra spararle troppo grosse anche per Berlusconi, pretendendo di aver fatto l'opposizione a Monti. Ai lettori l'ardua scelta......

Syriza, la Grecia e la crisi

Pubblichiamo di seguito un articolo di Alexis Tsipras, segretario di Syriza, in cui si propone come fare uscire la Grecia (e l'Europa tutta) dalla crisi ispirandosi al salvataggio della Repubblica Federale Tedesca nel 1953. Un articolo con zero ideologia, e tanto buon senso. Non si chiede la luna, ma un semplice piano di rientro, come quello che gli stati keynesiani ma in larga parte conservatori dell'Europa degli anni 50 avevano attuato per la Germania. Un articolo illuminante perché contrappone alle isterie tedesche sull'iperinflazione un esempio storico ben più appropriato. Le condizioni capestro cui era obbligata la Germania dopo la prima guerra mondiale erano state il prodromo del nazismo. E le cancellerie europee negli anni 50 avevano ben presente che una società democratica non si può costruire su sacrifici innaturale e costrizioni, ma su un modello di sviluppo solidale e sociale. Qualcosa che abbiamo evidentemente dimenticato. Ci vuole Syriza per ricordarcelo.

Tsipras: Syriza farà come la Germania federale

di Alexis Tsipras
da Le Monde Diplomatique

Febbraio 1953. La Repubblica federale tedesca (Rft) è schiacciata dal peso del debito pubblico e minaccia di trascinare nel gorgo anche gli altri paesi europei. Preoccupati per la propria salvezza, i suoi creditori - tra cui la Grecia - prendono atto di un fenomeno che può essere una sorpresa solo per i liberisti: la politica di «svalutazione interna», cioè la riduzione dei salari, non assicura affatto il rimborso degli importi dovuti, anzi. Riuniti a Londra in un vertice straordinario, 21 paesi decidono di rimodulare le pretese. Tagliano così del 60% il valore nominale del debito cumulato dalla Rft, garantendole una moratoria di cinque anni (1953-1958) e un termine trentennale per il rimborso delle somme dovute.

Stabiliscono anche una «clausola di sviluppo» che autorizza il paese a non destinare al debito più di un ventesimo del suo reddito da esportazione. L'Europa segue insomma il corso opposto a quello inaugurato con il trattato di Versailles (1919), gettando le basi per lo sviluppo della Germania Ovest nel dopoguerra.

È esattamente ciò che propone di fare oggi la Coalizione della sinistra radicale greca (Syriza): risalire a monte dei piccoli trattati di Versailles che la cancelliera tedesca Angela Merkel e il suo ministro delle finanze Wolfgang Schäuble hanno imposto ai paesi europei indebitati, e prendere spunto da uno dei più grandi episodi di chiaroveggenza a cui l'Europa abbia assistito dalla fine del secondo conflitto mondiale.

I programmi di «salvataggio» dei paesi dell'Europa del Sud sono stati un fallimento, aprendo voragini senza fondo che i contribuenti sono chiamati a cercare di riempire. Il raggiungimento di una soluzione globale, collettiva e definitiva del problema del debito non è mai stato così urgente. E sarebbe difficile comprendere come un obiettivo di tale portata possa essere messo da parte solo per assicurare la rielezione della cancelliera tedesca.

Per questo, nelle condizioni attuali, l'idea avanzata da Syriza di una conferenza europea sul debito, sul modello di quella di Londra del 1953, rappresenta, secondo noi, l'unica soluzione realistica e positiva per tutti: una risposta globale alla crisi del credito e alla presa d'atto del fallimento delle politiche portate avanti in Europa.
Ecco dunque quello che noi chiediamo per la Grecia:
- una riduzione significativa del valore nominale del debito pubblico cumulato;
- una moratoria sul pagamento degli interessi, in modo da poter dirottare gli importi risparmiati sulla ripresa dell'economia;
- la fissazione di una «clausola di sviluppo», così da impedire che il rimborso del debito uccida sul nascere la ripresa economica;
- la ricapitalizzazione delle banche, senza però che le risorse in questione vengano contabilizzate nel debito pubblico del paese.

A queste misure dovrebbero poi accompagnarsi delle riforme miranti a una più giusta ripartizione delle ricchezze. Mettere fine alla crisi comporta infatti una rottura con il passato che l'ha resa possibile: significa aprire alla giustizia sociale, all'uguaglianza dei diritti, alla trasparenza politica e fiscale, in breve alla democrazia. Un progetto che potrà essere posto in essere solo da un partito indipendente dall'oligarchia finanziaria, ossia dal quel pugno di imprenditori che hanno preso in ostaggio lo stato, di armatori solidali tra loro e - fino al 2013 - esentati dal pagamento delle imposte, di padroni della stampa e di banchieri con le mani in pasta ovunque (e in fallimento) che portano la responsabilità della crisi e si sforzano di mantenere lo status quo. Il rapporto annuale 2012 dell'organizzazione non governativa (ong) Transparency International designa la Grecia come il paese più corrotto d'Europa.

Tale proposta costituisce quindi ai nostri occhi l'unica soluzione al problema, a meno che non ci si accontenti della crescita esponenziale del debito pubblico in Europa, dove esso supera già, in media, il 90% del prodotto interno lordo (Pil). E proprio questo ci rende ottimisti: nessuno potrà rigettare il nostro progetto, perché la crisi sta già consumando il nocciolo duro della zona euro. Rinviare serve soltanto ad accrescere il costo economico e sociale della situazione attuale, non solo per la Grecia, ma anche per la Germania e per il resto dei paesi che hanno adottato la moneta unica.

Per dodici anni, la zona euro - ispirata ai dogmi liberisti - ha funzionato come una semplice unione monetaria, senza un equivalente politico e sociale. I deficit commerciali dei paesi del Sud costituivano l'immagine rovesciata delle eccedenze fatte registrare al Nord. D'altra parte, la moneta unica è servita alla Germania per «raffreddare» la sua economia dopo l'esosa riunificazione del 1990.

Questo equilibrio è stato sconvolto però dalla crisi del debito. Berlino ha reagito con l'esportazione della propria ricetta d'austerità, aggravando così la polarizzazione sociale negli stati del Sud e le tensioni economiche all'interno della zona euro. Al punto che si manifesta ormai un asse creditori del Nord/debitori del Sud, cioè una nuova divisione del lavoro orchestrata dai paesi più ricchi. Il Sud dovrà specializzarsi nelle produzioni e nei servizi a elevata domanda di manodopera a salario minimo; il Nord nella corsa alla qualità e all'innovazione a salari, almeno per alcuni, più alti.

La proposta di Hans-Peter Keitel, presidente della Federazione tedesca dell'industria (Bdi), in un'intervista concessa al sito internet dello Spiegel, intesa alla trasformazione della Grecia in una «zona economica speciale» rivela il vero obiettivo del memorandum. Le misure previste in questo testo, la cui portata si estende almeno fino al 2020, si sono risolte in un sonoro smacco, come riconosce ormai perfino il Fondo monetario internazionale (Fmi). Tuttavia, secondo i suoi ideatori, l'accordo ha il pregio di imporre una tutela economica alla Grecia, che riduce al rango di colonia finanziaria della zona euro.
Il suo annullamento rappresenta dunque la condizione preliminare a qualunque via d'uscita dalla crisi: è la medicina stessa ad essere mortale e non la dose, come invece suggeriscono alcuni.

Oltretutto, bisognerà interrogarsi anche sulle altre cause della crisi finanziaria in Grecia. Quelle che conducono allo sperpero di denaro pubblico non sono cambiate: ad esempio, il costo di realizzazione delle strade per chilometro quadrato è il più alto d'Europa; e le autostrade vengono privatizzate come «anticipo» per i nuovi assi stradali... la cui costruzione è stata interrotta.

Allo stesso modo, l'ampiezza delle disuguaglianze non può essere ridotta a un effetto secondario della crisi finanziaria. Il sistema fiscale greco riflette la relazione clientelare che unisce le élite del paese. È come un colabrodo di esenzioni e favoritismi ritagliati su misura per il cartello oligarchico. Il patto informale che, da dopo la dittatura, lega il padronato e l'idra a due teste del bipartitismo - Nuova Democrazia e il Movimento socialista panellenico (Pasok) - serve a suggellarne la continuità. E questa è una delle ragioni per cui lo stato rinuncia a procurarsi le risorse di cui ha bisogno attraverso l'imposizione fiscale, preferendo piuttosto la continua riduzione dei salari e delle pensioni.

Ma l'establishment - scampato di misura alle elezioni del 17 giugno, grazie alla paura che aveva seminato riguardo a una possibile uscita dalla zona euro - vive anche con l'aiuto di un secondo polmone artificiale: la corruzione. Il difficile obiettivo dell'azzeramento della collusione tra ambienti politici ed economici - una questione che oltrepassa i confini della Grecia - costituirà una delle priorità di un governo popolare guidato da Syriza.

Quello che chiediamo è dunque una moratoria sul pagamento degli interessi del debito per cambiare la Grecia. In mancanza di ciò, qualunque nuovo tentativo di risanamento finanziario non potrà essere per noi che una fatica di Sisifo, destinata al fallimento. Con la differenza stavolta che il dramma non riguarderebbe più soltanto l'antica città di Corinto ma l'intera Europa.

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Pierluigi, perche'?

di Monica Bedana

Perché strattoni , rovesci, giri e rigiri come un calzino la mia già bistrattata coscienza di sinistra ogni sei ore, con quelle dichiarazioni allo sbando, ora da ovi, ora da latte.

Io che tra mille tormenti ho accantonato il magistrato ed ho gioito per quelle primarie a nastro, contenta anche solo dell’illusione ottica di aver scelto dei candidati. Perché ormai mi aggrappo a qualsiasi barlume di partecipazione democratica in questo Paese in cui è assodato che le pernici sono un miraggio e quindi ci accontentiamo sempre e solo delle pernacchie.

Sto ancora aspettando il tuo scatto d’orgoglio rosso stinto dalla scorsa primavera.

Aspetto e sclero (e spero sempre meno). Nel frattempo, tu mi fiacchi e mi confondi. Eppure è chiaro che l’unico patto di stabilità che dovresti sottoscrivere per ben più di mezza giornata è quello con SEL sulle grandi questioni sociali, dal lavoro, ai diritti, all’ambiente e compagnia bella. Poi magari sulle riforme istituzionali, quelle che coinvolgono l’essenza dello Stato, sentiamo anche Monti, ci mancherebbe. Ma un segnale chiaro e definitivo sull’unità di fondo e di forma di questa coalizione di centrosinistra sarebbe ora di darlo, sarebbe un indice di raggiunta maturità politica, di sicurezza programmatica, di affidabilità per noi elettori. E un gesto rilevante anche in Europa, se davvero vogliamo che inizi a remare in un’altra direzione.

Perché il magistrato tallona con forza e la partita della mia coscienza di sinistra sarà chiusa solo davanti alle urne.

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Al voto, al voto - 4

"Voterò Rivoluzione Civile perché alla sinistra annacquata  non ho mai creduto, e anzi questa volta finalmente trovo  un movimento migliore di Rifondazione Comnusita (che ho votato tutta una vita)
le ideologie mi han sempre fatto ribrezzo, e in Rifondazione di ideologi veterostalinisti se ne trovavano sempre ancora troppi.

I soldi per una società giusta si trovano anche in Italia se si ha il coraggio di una politica fiscale scandinava, Scandinavia docet. Allo spauracchio che chi non è d'accordo lascierà il Paese, dico se ne vada pure in un paradiso fiscale questa gente che non vuol pagare le tasse. Il benessere sostenibile lo fa chi lavora per gusto e passione, non chi cerca di intascarsi i soldi per pensionarsi anzitempo e giocare a golf o starsene in crociera per il resto della loro vita a spese del lavoro altrui.
E nemmeno credo che il capitale lasci il paese più di quanto già non abbia fatto, perché lasciare l'Italia a certa gente non piacerà, e perché l'evidenza suggerisce che nelle società meno ingiuste anche i più ricchi sorridono di più, vedi
http://en.wikipedia.org/wiki/The_Spirit_Level:_Why_More_Equal_Societies_Almost_Always_Do_Better
E comunque sempre meglio la fuga dei porcelli che la fuga dei cervelli.
 
Poi: anche a me come a molti non piace che le liste di  Rivoluzione Civile si stiano riempiendo di candidati di Partito. Perlomeno però sono ancora candidati  di Partiti come i Verdi, che da sempre perseguono obiettivi  coraggiosi e poco popolari. Agli ex-democristiani e PDssini opportunisti io le porte non le aprirei. Quanto al magistrato in politica, se si vuole introdurre professionalità nella politica,
ben venga un magistrato. Visto anche che la politica si fa con le leggi alla fin fine.

E infine: dopo 150 anni di Italia malgestendo la Sicilia, mi piace il sogno di un Siciliano che tenti di raddrizzare l'Italia. "

Pietro - Bilbao


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Keynes l'estremista e la sinistra

Riportiamo di seguito il bell'articolo di Barabara Spinelli su Repubblica, un duro atto di accusa contro il sistema economico e, di rimando, quello politico che sembra muto e sordo a cio' che avviene nella societa'. Dalle parole della Spinelli sembra chiaro che l'unica risposta di tipo politico a questo disastro possa venire dalla sinistra cosiddetta radicale, l'unica a contestare il paradigma economico dominante. Un vero peccato che, al contrario della Grecia, questa proposta alternativa non abbia trovato un contenitore unico ma abbia preferito a volte allearsi con chi questo sistema difende, a volte esprimere semplicemente un voto anti-sistema e non di articolata critica al capitalismo autoritario di inizio secolo


Se anche Keynes è un estremista

di Barbara Spinelli
da Repubblica


I PRÌNCIPI che ci governano, il Fondo Monetario, i capi europei che domani si riuniranno per discutere le future spese comuni dell'Unione, dovrebbero fermarsi qualche minuto davanti alla scritta apparsa giorni fa sui muri di Atene: "Non salvateci più!", e meditare sul terribile monito, che suggella un rigetto diffuso e al tempo stesso uno scacco dell'Europa intera. Si fa presto a bollare come populista la rabbia di parte della sinistra, oltre che di certe destre, e a non vedere in essa che arcaismo anti-moderno.

A differenza del Syriza greco le sinistre radicali non si sono unite (sono presenti nel Sel di Vendola, nella lista Ingroia, in parte del Pd, nello stesso Movimento 5 Stelle), ma un presagio pare accomunarle: la questione sociale, sorta nell'800 dall'industrializzazione, rinasce in tempi di disindustrializzazione e non trova stavolta né dighe né ascolto. Berlusconi sfrutta il malessere per offrire il suo orizzonte: più disuguaglianze, più condoni ai ricchi, e in Europa un futile isolamento. Sul Messaggero del 30 gennaio, il matematico Giorgio Israel denuncia l'astrattezza di chi immagina "che un paese possa riprendersi mentre i suoi cittadini vegetano depressi e senza prospettive, affidati passivamente alle cure di chi ne sa". Non diversa l'accusa di Paul Krugman: i governanti, soprattutto se dottrinari del neoliberismo, hanno dimenticato che "l'economia è un sistema sociale creato dalle persone per le persone".

Questo
dice il graffito greco: se è per impoverirci, per usarci come cavie di politiche ritenute deleterie nello stesso Fmi, di grazia non salvateci. Non è demagogia, non è il comunismo che constata di nuovo il destino di fatale pauperizzazione del capitalismo. È una rivolta contro le incorporee certezze di chi in nome del futuro sacrifica le generazioni presenti, ed è stato accecato dall'esito della guerra fredda.

Da quella guerra il comunismo uscì polverizzato, ma la vittoria delle economie di mercato fu breve, e ingannevole. Specie in Europa, la sfida dell'avversario aveva plasmato e trasformato il capitalismo profondamente: lo Stato sociale, il piano Marshall del dopoguerra, il peso di sindacati e socialdemocrazie potenti, l'Unione infine tra Europei negli anni '50, furono la risposta escogitata per evitare che i popoli venissero tentati dalle malie comuniste. Dopo la caduta del Muro quella molla s'allentò, fino a svanire, e disinvoltamente si disse che la questione sociale era tramontata, bastava ritoccarla appena un po'.

È la sorte che tocca ai vincitori, in ogni guerra: il successo li rende ebbri, immemori. Facilmente degenera in maledizione. Le forze accumulate nella battaglia scemano: distruggendo il consenso creatosi attorno a esse (in particolare il consenso keynesiano, durato fino agli anni '70) e riducendo la propensione a inventare il nuovo. Forse questo intendeva Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di molti capi sovietici, quando disse alla fine degli anni '80: "Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico". Quando nel 2007-2008 cominciò la grande crisi, e nel 2010 lambì l'Europa, economisti e governanti si ritrovarono del tutto impreparati, sorpassati, non diversamente dal comunismo reale travolto dai movimenti nell'89.

È il dramma che fa da sfondo alle tante invettive che prorompono nella campagna elettorale: gli attacchi dei centristi a Niki Vendola e alla Cgil in primis, ma anche al radicalismo della lista Ingroia, a certe collere sociali del Movimento 5 stelle, non sono una novità nell'Italia dell'ultimo quarto di secolo. Sono la versione meno rozza della retorica anticomunista che favorì l'irresistibile ascesa di Berlusconi, poco dopo la fine dell'Urss, e ancora lo favorisce. Il nemico andava artificiosamente tenuto in vita, o rimodellato, affinché il malaugurio di Arbatov non s'inverasse. Se la crisi economica è una guerra, perché privarsi di avversari così comodi, e provvidenzialmente disuniti? Quando Vendola dice a Monti che occorrerà accordarsi sul programma, nel caso in cui la sinistra governasse col centro, il presidente del Consiglio alza stupefatto gli occhi e replica: "Ma stiamo scherzando?", quasi un impudente eretico avesse cercato di piazzare il suo Vangelo gnostico nel canone biblico. Anche i difensori di Keynes sono additati al disprezzo: non sanno, costoro, che la guerra l'hanno persa anch'essi, nelle accademie e dappertutto?

In realtà non è affatto vero che l'hanno persa, e che lo spettro combattuto da Keynes sia finito in chiusi cassetti. Quando in Europa riaffiora la questione sociale  -  la povertà, la disoccupazione di massa  -  non puoi liquidarla come fosse una teoria defunta. È una questione terribilmente moderna, purtroppo. La ricetta comunista è fallita, ma il capitalismo sta messo abbastanza male (non quello della guerra fredda: quello decerebrato e svuotato dalla fine della guerra fredda). Non è rovinato come il comunismo sovietico, ma di scacco si tratta pur sempre.

È un fallimento non riuscire ad ascoltare e integrare le sinistre che in tantissime forme (anche limitandosi a combattere illegalità e corruzione politica) segnalano il ritorno non di una dottrina ma di un ben tangibile impoverimento. Prodi aveva visto giusto quando scommise sulla loro responsabilizzazione, e li immise nel governo. Fu abbattuto dalla propaganda televisiva di Berlusconi, ma la sua domanda non perde valore: come fronteggiare le crisi se non si coinvolge il malcontento, compreso quello morale? Ancor più oggi, nella recessione europea che perdura: difficile sormontarla senza il rispetto, e se possibile il consenso, dei nuovi dannati della terra. Forse abbiamo un'idea falsa delle modernità. Moderno non è chi sbandiera un'idea d'avanguardia. È, molto semplicemente, la storia che ci è contemporanea: che succede nei modi del tempo presente. Se la questione sociale ricompare, questa è modernità e moderni tornano a essere il sindacalismo, la socialdemocrazia, che per antico mestiere tentano di drizzare le storture capitaliste  -  con il welfare, la protezione dei più deboli. Sono correzioni, queste sì riformatrici, che non hanno distrutto, ma vivificato e potenziato il capitalismo. È la più moderna delle risposte, oggi come nel dopoguerra quando le democrazie del continente si unirono.

Non a caso viene dal più forte sindacato d'Europa, il Dgb tedesco, una delle più innovative proposte anti-crisi: un piano Marshall per l'Europa, gestito dall'Unione, simile al New Deal di Roosevelt negli anni '30. Dicono che i vecchi rimedi keynesiani  -  welfare, cura del bene pubblico  -  accrescono l'irresponsabilità individuale e degli Stati, assuefacendoli all'assistenza. Paventato è l'azzardo morale: bestia nera per chi oggi esige duro rigore. L'economista Albert Hirschman ha spiegato come le retoriche reazionarie abbiano tentato, dal '700-800, di bloccare ogni progresso civile o sociale (Retoriche dell'intransigenza, Il Mulino). Fra gli argomenti prediletti ve ne sono due, che nonostante le smentite restano attualissimi: la tesi della perversità, e della messa a repentaglio. Ogni passo avanti (suffragio universale, welfare, diritti individuali) perfidamente produce regresso, o mette a rischio conquiste precedenti. "Questo ucciderà quello", così Victor Hugo narra l'avvento del libro stampato che uccise le cattedrali. Oggi si direbbe: welfare o redditi minimi garantiti creano irresponsabilità. Quanto ai matrimoni gay, è la cattedrale dell'unione uomo-donna a soccombere, chissà perché.

Non è scritto da nessuna parte che la storia vada fatalmente in tale direzione. In astratto magari sì, ma se smettiamo di dissertare di "capitale umano" e parliamo di persone, forse l'azzardo morale diventa una scommessa vincente, come vincente dimostrò di essere nei secoli passati.


fonte: http://www.repubblica.it/politica/2013/02/06/news/spinelli_keynes-52040796/?ref=HREA-1
 
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