giovedì 7 marzo 2013

Il Venezuela e il futuro del modello chavista


Il seguente saggio e' tratto da un articolo pubblicato su Aspenia nell'Ottobre 2012, all'indomani della vittoria di Chavez alle elezioni presidenziali. Un articolo che ci aiuta a capire le dinamiche interne ed internazionali che hanno caratterizzato la storia politica di Hugo Chavez 


di Michele Testoni
versione completa su Aspenia n.59 

Lo scorso 7 ottobre Hugo Chávez è stato rieletto, per la terza volta consecutiva, Presidente del Venezuela. E, nonostante le pressioni, le accuse reciproche e gli scontri anche violenti, in un contesto di sostanziale regolarità e trasparenza. In virtù del referendum costituzionale del 2009, che ha abolito il consueto vincolo del doppio mandato, estendendo “ad libitum” l’eleggibilità di tutte le cariche elettive, ora Chávez potrà governare sino, almeno, il 2019. Vent’anni di potere dal 1998, cioè dall’avvio della rivoluzione bolivariana.
La situazione venezuelana non può essere più considerata come l’ennesima involuzione autoritaria di un’effimera repubblica delle banane, o come il prodotto di uno stravagante caudillo terzomondista ma ancora figlio di una società fondata sul connubio, tutto latino, di assistenzialismo statalista, corruzione e machismo. Piuttosto, comprendere le ragioni del consolidamento del chavismo, sia in chiave domestica che internazionale, richiede collocarne la nascita e il significato all’interno del complesso di relazioni politiche, economiche e culturali globali in cui è situata la parabola evolutiva dell’America Latina, e del Venezuela anzitutto.
Quella di Chávez era una vittoria largamente attesa, ma dalle dimensioni differenti rispetto al passato e, per questo, dalle conseguenze molteplici. Il fatto più significativo è stata la maggiore contendibilità del voto (.......) [T]ra 2006 e 2012 il vantaggio di Chávez sul candidato di opposizione è sceso da 3,1 a 1,6 milioni di voti. Ovvero, si è dimezzato.
Le ragioni di tale evoluzione derivano dalle controverse peculiarità del chavismo, una sorta di Giano bifronte costituito da forti contraddizioni politiche, economiche e sociali interne, e con ampie ripercussioni internazionali. Un sistema di governo e sviluppo nuovo, almeno per i suoi sostenitori, auto-proclamatosi “socialismo del XXI secolo” e fondato sullo schema “più Stato e meno mercato”. Una democrazia guidata, intrisa di populismo anti-colonialista e pretorianesimo giacobino, un ibrido di castrismo e peronismo attratto dalla Russia di Putin e dall’Iran di Ahmadinejad.
Il Venezuela è un attore chiave del Sud America: al quarto posto per ampiezza demografica e dimensione economica, è soprattutto il maggiore esportatore continentale di petrolio, dodicesimo a livello mondiale. Attraverso la PDVSA, la compagnia petrolifera statale, Chávez ha sfruttato appieno l’incremento dei prezzi energetici, determinato non solo da una crescente domanda globale, ma anche da una controllata riduzione dell’offerta di greggio da parte dell’OPEC (di cui il Venezuela è membro fondatore) volta ad accrescere ulteriormente i ricavi delle esportazioni.
Il boom petrolifero è stato il volano delle politiche sociali, le “missioni bolivariane”, il fiore all’occhiello di Chávez. Nei suoi quattordici anni di governo, il livello medio di salari e pensioni è cresciuto, la disoccupazione si è dimezzata, e il livello di indigenza è diminuito. I tassi di alfabetizzazione e scolarizzazione sono aumentati, e l’assistenza sanitaria gratuita è stata estesa alla massa delle grandi baraccopoli di Caracas, dove sono nati anche mercati agricoli a prezzi assai contenuti. Ciò ha reso il regime pù forte, legittimandolo sia nei confronti dei poveri che verso i gruppi dominanti del paese, cioè i militari e la borghesia commerciale. Una solidità che, malgrado la vasta manipolazione dei media e l’uso dell’apparato pubblico come ammortizzatore sociale a fini politico-elettorali, ha comunque permesso di mantenere in vita un certo pluralismo partitico e dell’informazione.
Le difficoltà del Venezuela, tuttavia, sono evidenti. A causa della crisi economica mondiale, la diminuzione della domanda, dunque del prezzo, di greggio si è tradotta in una brusca contrazione del PIL (nel 2011 il tasso di crescita è stato del 2,8%, il peggiore dell’intero Sud America). Fra 2009 e 2011 il bolivar è stato svalutato quasi del 100% rispetto al dollaro: la bilancia commerciale rimane positiva, ma l’inflazione è schizzata al 28%, in una reazione a catena fatta di cambi di valuta illegali, carenze di generi alimentari (in larga parte importati) e blackout elettrici sempre più numerosi. A tutto svantaggio dei meno abbienti e della stabilità del bilancio pubblico. (......)

Il principale problema nazionale è però il crimine dilagante. Per l’Osservatorio Venezuelano sulla Violenza, nel 2011 sono state uccise oltre 19.000 persone, con un tasso di 48 omicidi ogni 100.000 abitanti (la media globale è di 8,8). Dati che ne fanno il paese il più pericoloso di tutta l’America Latina, ancor più di Colombia e Messico, secondo solo all’Honduras. Uno degli aspetti più inquietanti di questa spirale di violenza è il numero di poliziotti uccisi: circa 80, finora, nella sola Caracas, in molti casi per mano di ragazzi giovanissimi. Per Moisés Naím il crescente potere delle organizzazioni dedite ai traffici di armi, droga, estorsioni e rapimenti, unito alla corrotta inefficienza del sistema amministrativo e giudiziario, sta trasformando il Venezuela in uno “Stato mafia””.
Eppure Chávez ha rivinto, e il suo successo trascende i confini del Venezuela. Non già per la trasformazione sempre più autocratica, ancorché legittimata democraticamente, del suo governo; quanto per il forte valore che esso assume a livello internazionale. Pur con difficoltà economiche evidenti, corruzione e criminalità diffuse, e autoritarismo ormai consolidato, dal 1998 Chávez mantiene e rafforza la maggioranza del consenso popolare attraverso un tipo di leadership che in breve è diventata uno dei modelli alternativi di maggiore successo alla globalizzazione dell’unipolarismo neo-liberista, soprattutto per quella nouvelle vague di leader politici sudamericani emersa proprio nell’ultimo quindicennio.
Il sentimento di emancipazione delle masse popolari contro l’aristocrazia compradora al soldo di dominatori stranieri (iberici prima, statunitensi poi) è tra le caratteristiche più rilevanti della storia e della cultura politica dell’America Latina. Nel Novecento la sovrapposizione tra anti-imperialismo e anti-americanismo ha prodotto una lunga ed eterogenea schiera di politici e intellettuali rivoluzionari – da José Martí a Rubén Darío, da Emiliano Zapata ad Augusto Sandino, da Fidel Casto a Che Guevara, da Juan Perón a Salvador Allende – accomunati, almeno a parole, dalla difesa di poveri e diseredati e da politiche economiche interventiste volte alla nazionalizzazione dei capitali produttivi per scopi domestici.
Chávez e il chavismo derivano, in larga misura, da questa temperie. Nel corso degli anni il Venezuela, uno dei pochi paesi sudamericani con una solida borghesia mercantile, è scivolato verso un sistema sempre più corrotto e instabile, costellato di ricorrenti colpi di stato militari. L’enorme ricchezza petrolifera veniva pagata a basso prezzo dalle corporation straniere, e i suoi ricavi non erano utilizzati per sostenere lo sviluppo del paese e l’espansione della classe media, ma soprattutto per rafforzare il potere di un’elite ossequiosa ai dettami della dollar diplomacy statunitense. Da qui la scarsa credibilità dell’opposizione anti-chavista cui Capriles, però, è riuscito a dare un volto nuovo e più presentabile.
La politica estera chavista non si inquadra in una logica anti-occidentale perché anti-democratica, bensì in una anti-americana perché anti-colonialista. Il suo obiettivo non può che essere un’evoluzione multipolare del sistema internazionale. Così si spiegano l’amicizia con la Cina, l’Iran e la Russia nonché, in particolare, il sostegno ad altre leadership rivoluzionarie in Sud America. Chávez ha sostenuto le FARC in Colombia, l’odiato vicino, ma è stato anzitutto il promotore del gruppo ALBA, il rassemblement delle nazioni latinoamericane di ispirazione bolivariana originato dall’alleanza tra Venezuela e Cuba del 2004 a cui si sono aggiunti, finora, altri sei paesi (in particolare la Bolivia, l’Ecuador e il Nicaragua).
Ancora più rilevante è stato, quest’estate, l’ingresso del Venezuela nel MERCOSUR, la principale organizzazione di integrazione economica regionale fondata da Argentina e Brasile nel 1991 insieme a Paraguay e Uruguay, e oggi asse portante dell’UNASUR, la sua estensione a tutto il Sud America. Un grande risultato perché offre al regime una piena legittimazione internazionale, non più ristretta a una periferia di paesi di scarsa credibilità, ma ora proveniente dai principali attori regionali. Non è un caso, infatti, che il primo leader straniero a congratulare Chávez per la sua rielezione sia stata la Presidente dell’Argentina, Cristina Fernández, una delle figure più attive (e discusse) del panorama politico sudamericano.
Il successo di Chávez rappresenta anche una battuta d’arresto per il “nuovo corso” della politica estera latinoamericana degli USA. Abbandonato il disastroso neo-imperialismo di Bush, l’amministrazione Obama ha adottato un approccio più soft. Con l’Asia al centro dei propri interessi strategici, Washington ha favorito la creazione, avvenuta lo scorso giugno, dell’Alleanza del Pacifico, una nuova zona di libero scambio orientata ai mercati dell’Estremo Oriente costituita da Cile, Colombia, Messico e Perù (oggi i principali alleati di Washington nella regione). Una sorta di caucus all’interno dell’APEC e, per certi versi, il tentativo di creare un’aggregazione alternativa a un MERCOSUR sempre più “fortezza latina”. (....)
Ciò che rende il chavismo un fenomeno peculiare è l’apprezzamento di cui gode in larga parte dell’America Latina, un risultato che nessun altro movimento politico, né il castrismo né il peronismo, era riuscito a ottenere. (.....)



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Cosa rimarra' di Chavez

Proponiamo qui di seguito un articolo di The Nation che ci racconta i rapporti tra Venezuela ed America, l'avventura del Chavismo, i suoi limiti e le sue forze e la sua evoluzione. Una analisi chiara e diretta per inquadrare Chavez nel suo continente e nella sua storia.


On the Legacy of Hugo Chávez    


di Greg Grandin
da The Nation

I first met Hugo Chávez in New York City in September 2006, just after his infamous appearance on the floor of the UN General Assembly, where he called George W. Bush the devil. “Yesterday, the devil came here,” he said, “Right here. Right here. And it smells of sulfur still today, this table that I am now standing in front of.” He then made the sign of the cross, kissed his hand, winked at his audience and looked to the sky. It was vintage Chávez, an outrageous remark leavened with just the right touch of detail (the lingering sulfur!) to make it something more than bombast, cutting through soporific nostrums of diplomatese and drawing fire away from Iran, which was in the cross hairs at that meeting.
The press of course went into high dudgeon, and not just for the obvious reason that it’s one thing for opponents in the Middle East to call the United States the Great Satan and another thing for the president of a Latin American country to personally single out its president as Beelzebub, on US soil no less.
I think what really rankled was that Chávez was claiming a privilege that had long belonged to the United States, that is, the right to paint its adversaries not as rational actors but as existential evil. Latin American populists, from Argentina’s Juan Perón to, most recently, Chávez, have long served as characters in a story the US tells about itself, reaffirming the maturity of its electorate and the moderation of its political culture. There are at most eleven political prisoners in Venezuela, and that’s taking the opposition’s broad definition of the term, which includes individuals who worked to overthrow the government in 2002, and yet it is not just the right in this country who regularly compared Chávez to the worst mass murderers and dictators in history. New Yorker critic Alex Ross, in an essay published a few years back celebrating the wunderkind Venezuelan conductor of the Los Angeles Philharmonic, Gustavo Dudamel, fretted about enjoying the fruits of Venezuela’s much-lauded government-funded system of music training: “Stalin, too, was a great believer in music for the people.”
* * *
Hugo Chávez was the second of seven children, born in 1954 in the rural village of Sabaneta, in the grassland state of Barinas, to a family of mixed European, Indian and Afro-Venezuelan race. Bart Jones’s excellent biography, Hugo! nicely captures the improbability of Chávez’s rise from dirt-floor poverty—he was sent to live with his grandmother since his parents couldn’t feed their children—through the military, where he became involved with left-wing politics, which in Venezuela meant a mix of international socialism and Latin America’s long history of revolutionary nationalism. It drew inspiration from well-known figures such as Simón Bolívar, as well as lesser-known insurgents, such as nineteenth-century peasant leader Ezequiel Zamora, in whose army Chávez’s great-great-grandfather had served. Born just a few days after the CIA drove reformist Guatemalan president Jacobo Arbenz from office, he was a young military cadet of 19 in September 1973 when he heard Fidel Castro on the radio announce yet another CIA-backed coup, this one toppling Salvador Allende in Chile.
Awash in oil wealth, Venezuela throughout the twentieth century enjoyed its own kind of exceptionalism, avoiding the extremes of left-wing radicalism and homicidal right-wing anticommunism that overtook many of its neighbors. In a way, the country became the anti-Cuba. In 1958, political elites negotiated a pact that maintained the trappings of democratic rule for four decades, as two ideological indistinguishable parties traded the presidency back and forth (sound familiar?). Where the State Department and its allied policy intellectuals isolated and condemned Havana, they celebrated Caracas as the end point of development. Samuel Huntington praised Venezuela as an example of “successful democratization,” while another political scientist, writing in the early 1980s, said it represented the “only trail to a democratic future for developing societies…a textbook case of step-by-step progress.”
We know now that its institutions were rotting from the inside out. Every sin that Chávez was accused of committing—governing without accountability, marginalizing the opposition, appointing partisan supporters to the judiciary, dominating labor unions, professional organizations and civil society, corruption and using oil revenue to dispense patronage—flourished in a system the United States held up as exemplary.
Petroleum prices began to fall in the mid-1980s. By this point, Venezuela had grown lopsidedly urban, with 16 million of its 19 million citizens living in cities, well over half of them below the poverty line, many in extreme poverty. In Caracas, combustible concentrations of poor people lived cut off from municipal services—such as sanitation and safe drinking water—and hence party and patronage control. The spark came in February 1989, when a recently inaugurated president who had run against the IMF said that he no choice but to submit to its dictates. He announced a plan to abolish food and fuel subsidies, increase gas prices, privatize state industries and cut spending on health care and education.
Three days of rioting and looting spread through the capital, an event that both marked the end of Venezuelan exceptionalism and the beginning of the hemisphere’s increasingly focused opposition to neoliberalism. Established parties, unions and government institutions proved entirely incapable of restoring legitimacy in austere times, committed as they were to upholding a profoundly unequal class structure.
Chávez emerged from the ruin, first with a failed putsch in 1992, which landed him in jail but turned him into a folk hero. Then in 1998, when he won 56 percent of the vote as a presidential candidate. Inaugurated in 1999, he took office committed to a broad yet vague anti-austerity program, a mild John Kenneth Galbraith–quoting reformer who at first had no power to reform anything. The esteem in which Chávez was held by the majority of Venezuelans, many of them dark-skinned, was matched by the rage he provoked among the country’s mostly white political and economic elites. But their maximalist program of opposition—a US-endorsed coup, an oil strike that destroyed the country’s economy, a recall election and an oligarch-media propaganda campaign that made Fox News seem like PBS—backfired. By 2005, Chávez had weathered the storm and was in control of the nation’s oil, allowing him to embark on an ambitious program of domestic and international transformation: massive social spending at home and “poly-polar equilibrium” abroad, a riff on what Bolívar once called “universal equilibrium,” an effort to break up the US’s historical monopoly of power in Latin America and force Washington to compete for influence.
* * *
Over the last fourteen years, Chávez has submitted himself and his agenda to fourteen national votes, winning thirteen of them by large margins, in polling deemed by Jimmy Carter to be “best in the world” out of the ninety-two elections that he has monitored. (It turns out it isn’t that difficult to have transparent elections: voters in Venezuela cast their ballot on an touch pad, which spits out a receipt they can check and then deposit in a box. At the end of the day, random polling stations are picked for ‘hot audits,’ to make sure the electronic and paper tallies add up). A case is made that this ballot-box proceduralism isn’t democratic, that Chávez dispenses patronage and dominates the media giving him an unfair advantage. But after the last presidential ballot—which Chávez won with the same percentage he did his first election yet with a greatly expanded electorate—even his opponents have admitted, despairingly, that a majority of Venezuelans liked, if not adored, the man.
I’m what they call a useful idiot when it comes to Hugo Chávez, if only because rank-and-file social organizations that to me seem worthy of support in Venezuela continued to support him until the end. My impressionistic sense is that this support breaks down roughly in half, between voters who think their lives and their families’ lives are better off because of Chávez’s massive expansion of state services, including healthcare and education, despite real problems of crime, corruption, shortages and inflation.
The other half of Chávez’s electoral majority is made up of organized citizens involved in one or the other of the country’s many grassroots organizations. Chávez’s social base was diverse and heterodox, what social scientists in the 1990s began to celebrate as “new social movements,” distinct from established trade unions and peasant organizations vertically linked to—and subordinated to—political parties or populist leaders: neighborhood councils; urban and rural homesteaders, feminists, gay and lesbian rights organizations, economic justice activists, environmental coalitions; breakaway unions and the like. It’s these organizations, in Venezuela and elsewhere throughout the region, that have over the last few decades done heroic work in democratizing society, in giving citizens venues to survive the extremes of neoliberalism and to fight against further depredations, turning Latin America into one of the last global bastion of the Enlightenment left.
Chávez’s detractors see this mobilized sector of the population much the way Mitt Romney saw 47 percent of the US electorate not as citizens but parasites, moochers sucking on the oil-rent teat. Those who accept that Chávez enjoyed majority support disparaged that support as emotional enthrallment. Voters, wrote one critic, see their own vulnerability in their leader and are entranced. Another talked about Chávez’s “magical realist” hold over his followers.
One anecdote alone should be enough to give the lie to the idea that poor Venezuelans voted for Chávez because they were fascinated by the baubles they dangled in front of them. During the 2006 presidential campaign, the signature pledge of Chávez’s opponent was to give 3,000,000 poor Venezuelans a black credit card (black as in the color of oil) from which they could withdraw up to $450 in cash a month, which would have drained over $16 billion dollars a year from the national treasury (call it neoliberal populism: give to the poor just enough to bankrupt the government and force the defunding of services). Over the years, there’s been a lot of heavy theoretically breathing by US academics about the miasma oil wealth creates in countries like Venezuela, lulling citizens into a dreamlike state that renders them into passive spectators. But in this election at least, Venezuelans managed to see through the mist. Chávez won with over 62 percent of the vote.
Let’s set aside for a moment the question of whether Chavismo’s social-welfare programs will endure now that Chávez is gone and shelve the left-wing hope that out of rank-and-file activism a new, sustainable way of organizing society will emerge. The participatory democracy that took place in barrios, in workplaces and in the countryside over the last fourteen years was a value in itself, even if it doesn’t lead to a better world.
There’s been great work done on the ground by scholars such as Alejandro Velasco, Sujatha Fernandes, Naomi Schiller and George Ciccariello-Maher on these social movements that, taken together, lead to the conclusion that Venezuela might be the most democratic country in the Western Hemisphere. One study found that organized Chavistas held to “liberal conceptions of democracy and held pluralistic norms,” believed in peaceful methods of conflict resolution and worked to ensure that their organizations functioned with high levels of “horizontal or non-hierarchical” democracy. What political scientists would criticize as a hyper dependency on a strongman, Venezuelan activists understand as mutual reliance, as well as an acute awareness of the limits and shortcomings of this reliance.
Over the years, this or that leftist has pronounced themselves “disillusioned” with Chávez, setting out some standard drawn, from theory or history, and then pronouncing the Venezuelan leader as falling short. He’s a Bonapartist, wrote one. He’s no Allende, sighs another. To paraphrase the radical Republican Thaddeus Stevens in Lincoln, nothing surprises these critics and therefore they are never surprising. But there are indeed many surprising things about Chavismo in relationship to Latin American history.
First, the military in Latin America is best known for its homicidal right-wing sadists, many of them trained by the United States, in places like the School of the Americas. But the region’s armed forces have occasionally thrown up anti-imperialists and economic nationalists. In this sense, Chávez is similar to Argentina’s Perón, as well as Guatemala’s Colonel Arbenz, Panama’s Omar Torrijos and Peru’s General Juan Francisco Velasco, who as president between 1968 and 1975 allied Lima with Moscow. But when they weren’t being either driven from office (Arbenz) or killed (Torrijos?), these military populists inevitably veered quickly to the right. Within a few years of his 1946 election, Perón was cracking down on unions, going as far as endorsing the overthrow of Arbenz in 1954. In Peru, the radical phase of Peru’s military government lasted seven years. Chávez, in contrast, was in office fourteen years, and he never turned nor repressed his base.
Second and related, for decades now social scientists have been telling us that the kind of mobilized regime Venezuela represents is pump-primed for violence, that such governments can only maintain energy through internal repression or external war. But after years of calling the oligarchy squalid traitors, Venezuela has seen remarkably little political repression—certainly less than Nicaragua in the 1980s under the Sandinistas and Cuba today, not to mention the United States.
Oil wealth has much to do with this exceptionalism, as it also did in the elite, top-down democracy that existed prior to Chávez. But so what? Chávez has done what rational actors in the neoliberal interstate order are supposed to do: he’s leveraged Venezuela’s comparative advantage not just to fund social organizations but give them unprecedented freedom and power.
* * *
Chávez was a strongman. He packed the courts, hounded the corporate media, legislated by decree and pretty much did away with any effective system of institutional checks or balances. But I’ll be perverse and argue that the biggest problem Venezuela faced during his rule was not that Chávez was authoritarian but that he wasn’t authoritarian enough. It wasn’t too much control that was the problem but too little.
Chavismo came to power through the ballot following the near total collapse of Venezuela’s existing establishment. It enjoyed overwhelming rhetorical and electoral hegemony, but not administrative hegemony. As such, it had to make significant compromises with existing power blocs in the military, the civil and educational bureaucracy and even the outgoing political elite, all of whom were loath to give up their illicit privileges and pleasures. It took near five years before Chávez’s government gained control of oil revenues, and then only after a protracted fight that nearly ruined the country.
Once it had access to the money, it opted not to confront these pockets of corruption and power but simply fund parallel institutions, including the social missions that provided healthcare, education and other welfare services being the most famous. This was both a blessing and a curse, the source of Chavismo’s strength and weakness.
Prior to Chávez, competition for government power and resources took place largely within the very narrow boundaries of two elite political parties. After Chávez’s election, political jockeying took place within “Chavismo.” Rather than forming a single-party dictatorship with an interventionist state bureaucracy controlling people’s lives, Chavismo has been pretty wide open and chaotic. But it significantly more inclusive than the old duopoly, comprised of at least five different currents: a new Bolivarian political class, older leftist parties, economic elites, military interests and the social movements mentioned above. Oil money gave Chávez the luxury of acting as a broker between these competing tendencies, allowing each to pursue their interests (sometimes, no doubt, their illicit interests) and deferring confrontations.
* * *
The high point of Chávez’s international agenda was his relationship with Brazil’s Luiz Inácio Lula da Silva, the Latin American leader whom US foreign policy and opinion makers tried to set as Chávez’s opposite. Where Chávez was reckless, Lula was moderate. Where Chávez was confrontational, Lula was pragmatic. Lula himself never bought this nonsense, consistently rising to Chávez’s defense and endorsing his election.
For a good eight years they worked something like a Laurel and Hardy routine, with Chávez acting the buffoon and Lula the straight man. But each was dependent on the other and each was aware of this dependency. Chávez often stressed the importance of Lula’s election in late 2002, just a few months after April’s failed coup attempt, which gave him his first real ally of consequence in a region then still dominated by neoliberals. Likewise, the confrontational Chávez made Lula’s reformism that much more palatable. Wikileak documents reveal the skill in which Lula’s diplomats gently but firmly rebuffed the Bush administration’s pressure to isolate Venezuela.

Their inside-outside rope-a-dope was on full display at the November 2005 Summit of the Americas in Argentina, where the United States hoped to lock in its deeply unfair economic advantage with a hemisphere-wide Free Trade Agreement. In the meeting hall, Lula lectured Bush on the hypocrisy of protecting corporate agriculture with subsidies and tariffs even as it pushed Latin America to open its markets. Meanwhile, on the street Chávez led 40,000 protesters promising to “bury” the free trade agreement. The treaty was indeed derailed, and in the years that followed, Venezuela and Brazil, along with other Latin American nations, have presided over a remarkable transformation in hemispheric relations, coming as close as ever to achieving Bolívar’s “universal equilibrium.”
* * *
When I met Chávez in 2006 after his controversial appearance in the UN, it was at a small lunch at the Venezuelan consulate. Danny Glover was there, and he and Chávez talked the possibility of producing a movie on the life of Toussaint L’Ouverture, the former slave who led the Haitian Revolution.
Also present was a friend and activist who works on the issue of debt relief for poor countries. At the time, a proposal to relieve the debt owed to the Inter-American Development Bank (IADB) by the poorest countries in the Americas had stalled, largely because mid-level bureaucrats from Argentina, Mexico and Brazil opposed the initiative. My friend lobbied Chávez to speak to Lula and Argentina’s president Néstor Kirchner, another of the region’s leftist leaders, and get them to jump-start the deal.
Chávez asked a number of thoughtful questions, at odds with the provocateur on display on the floor of the General Assembly. Why, he wanted to know, was the Bush administration in favor of the plan? My friend explained that some Treasury officials were libertarians who, if not in favor of debt relief, wouldn’t block the deal. “Besides,” he said, “they don’t give a shit about the IADB.” Chávez then asked why Brazil and Argentina were holding things up. Because, my friend said, their representatives to the IADB were functionaries deeply invested in the viability of the bank, and they thought debt abolition a dangerous precedent.
We later got word that Chávez had successfully lobbied Lula and Kirchner to support the deal. In November 2006, the IADB announced it would write off billions of dollars in debt to Nicaragua, Guyana, Honduras and Bolivia (Haiti would later be added to the list).
And so it was that the man routinely compared in the United States to Stalin quietly joined forces with the administration of the man he had just called Satan, helping to make the lives of some of the poorest people in America just a bit more bearable.

fonte: http://www.thenation.com/article/173212/legacy-hugo-chavez#

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Linee della segregazione in Israele
di Simone Rossi  

I detrattori amano definirlo l'unica democrazia nel Medio Oriente, ma assomiglia vieppiù al Sud Africa dell'apartheid o agli Stati Uniti segregazionisti. L'ultimo atto verso la costruzione di una società segregata, sia lungo la linea arabo-giudaico o quella nero-bianco, è stata l'istituzione di linee di trasporto pubblico "dedicate" ai palestinesi lungo le tratte tra la Samaria e Tel Aviv.

A partire dal 4 marzo 2013 sono attive linee di autobus a disposizione dei lavoratori palestinesi che, muniti di regolare permesso, si recano quotidianamente nella città di Tel Aviv e nella regione di Sharon. Secondo la versione fornita dal Ministero dei Trasporti, la scelta sarebbe stata dettata dalla volontà di rendere un servizio migliore era prezzi agevolati ai lavoratori e l'esistenza di queste linee non impedirebbe ai palestinesi di poter continuare ad utilizzare le linee esistenti. Tuttavia, lo scorso novembre il quotidiano Haaretz pubblicò la notizia secondo cui era al vaglio dello stesso Ministero la creazione di linee separate a seguito dei reclami giunti da alcune amministrazioni locali perché la presenza di passeggeri palestinesi era poco gradita ai coloni ed ai cittadini israeliani in quanto rappresentava una potenziale minaccia alla propria sicurezza. A sostegno della tesi che vede in questo servizio "dedicato" una volontà segregazionista il fatto che le nuove linee non effettuano fermate nelle colonie ebraiche e nei paesi israeliani situati lungo il percorso.

A dispetto di eufemismi e smentite, in Israele esiste di fatto una segregazione tanto spaziale, simbolizzata dal famigerato muro della Cisgiordania, quanto sociale; quest'ultima colpisce non solo i cittadini dell'Autorità Palestinese, ma anche i quelli israeliani di etnia palestinese e, sotto alcuni aspetti, i cittadini di origine etiope ed africana in generale. Ai palestinesi da tempo è precluso l'accesso ad alcune arterie stradali, un divieto che costringe gli automobilisti a lunghe deviazioni, inoltre spesso i passeggeri delle linee transfrontaliere subiscono vessazioni da parte delle forze israeliane, come riportato dal quotidiano britannico The Guardian nell'autunno 2011 e denunciato dall'organizzazione non governativa, Machsom Watch, di donne per la pace. Un esempio lo porta una delle attiviste di questa organizzazione che recentemente ha assistito al fermo di tutti i passeggeri palestinesi presenti su un mezzo della linea 286 (Tel Aviv - Samaria); secondo il racconto, i soldati hanno raccolto i documenti di identità dei palestinesi prima di farli scendere e di intimare loro di proseguire a piedi fino al più vicino check-point, distante circa due chilometri e mezzo, rispondendo ai legittimi reclami affermando che i palestinesi non hanno diritto a viaggiare sui mezzi pubblici.
La notiizia ha avuto largo spazio sui media occidentali e, possibilmente, ha generato più indignazione di quanto non abbiano creato la costruzione di nuove colonie in terra palestinese o le restrizioni poste alla circolazione dei cittadini palestinesi per motivi sanitari o per visitare i parenti “oltre muro”. Tale indiganzione al momento non sembra aver raggiunto le cancellerie occidentali, da cui giunge un assordante silenzio. Questo silenzio, quando non si tratta di omertosa complicità, sembra essere sempre meno sostenibile di fronte all’evoluzione in senso segregazionista delle politiche israeliane ed auspicabilmente altre nazioni al di fuori del mondo arabo ed islamico prenderanno le distanze da chi queste attua ed appoggia queste scelte, come fatto dal ANC, il partito al potere in Sud Africa.

Ringrazio Silvia Fabbri per il contributo fornito nella redazione di questo post.


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Bersani e gli 8 punti: un primo passo nella direzione giusta ma ancora non basta.

Otto punti per un governo che deve trovare la maggioranza in Parlamento. Questa è la scommessa, probabilmente destinata all'insuccesso, di Bersani e del PD. Fallimento probabile perchè Grillo ha già detto che non ci starà, né indubbiamente ha interesse a sostenere il PD. In ascesa come è preferisce vedere i partiti tradizionali combattere, allearsi o suicidarsi mentre lui si siede lungo il fiume, aspettando che passi il cadavere del nemico.
Sbaglia però, perché il programma che presenta il PD è un deciso miglioramento rispetto a quello fatto e propagandato finora. Molti dei punti del programma sono condivisibili, almeno ad una prima occhiata:
- basta austerità
- salario sociale
- meno costi per la politica
- anti-corruzione
- conflitto d'interessi (era ora...)
- economia verde
- diritti civili
- istruzione

Insomma, teoricamente tutto bene, e comunque un passo avanti, a sinistra, nella direzione giusta. Troppo tardi, verrebbe da dire. Ma anche, probabilmente, troppo poco. In particolare guardiamo alcune formulazioni, tutte molto ambigue, del programma.
Alcuni punti qualificanti - cito dal documento ufficiale:

  • "Conciliare disciplina di bilancio con investimenti pubblici produttivi". No. Non basta ed è proprio sbagliato. All'austerity bisogna dire no tout court. Alla giapponese, se vogliamo. Non possiamo pensare di aprire la borsa solo per investimenti produttivi (quali, per altro? la TAV???). Il problema vero in questo momento è la spesa sociale - che invece in una formulazione di questo genere rischia di essere ridotta. O forse no, ma non lo si dice, non lo si mette nero su bianco. No disciplina di bilancio, si a più spesa pubblica per rilanciare i consumi e gli standard di vita.
  • "Salario o compenso minimo". Quantifichiamolo e diciamo dove arrivano questi soldi. Se no è difficile essere credibili. 
  • "Potenziamento del diritto allo studio". Giusto e sacrosanto. Ma cosa vuol dire in pratica? Data la storia del PD c'è il rischio concreto che anche qui il diavolo si nasconda nei dettagli. Nessun riferimento alla scuola pubblica, ma solo alla scuola in generale. Per cambiare, veramente, bisognerebbe essere più diretti, tipo: azzeramento dei fondi alle scuole private, come previsto in Costituzione. Ripristino della spesa pre-tagli effettuati in questi anni. Armonizzazione della spesa in istruzione agli standard e alla media europa.

Manca anche molto, tanto, sulla fiscalità (più progressiva, e pure patrimoniale per i ricchi e ricchissimi), e magari su un bel tetto alle pensioni d'oro che però molti dirigenti PD continuano a dire di non voler toccare perché non si possono toccare i diritti acquisiti - anche se se ne sono dimenticati ai tempi della riforma Fornero.

Ci sono molti limiti, mancano molte cose, ma è innegabile che si tratti di un primo passo. Se anche solo una parte di questi punti venisse applicato, sarebbe comunque un vantaggio per il Paese. Ma anche in caso di fallimento, possono rappresentare una prima base di programma per quando si tornerà a votare.


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