giovedì 17 gennaio 2013

Japanomics

di Nicola Melloni

da Liberazione

Le elezioni in Giappone di qualche settimana fa hanno riportato al governo il partito liberaldemocratico, che aveva governato il paese più a lungo che la Dc qui da noi, con un quasi egual numero di scandali. Dopo una breve pausa nel 2009, coincisa con la vittoria dei Democratici (quasi più timidi del Pd nostrano), il paese è presto ritornato in mano ai vecchi mandarini della politica - in questo caso il nuovo leader è Shinzo Abe, un politico di lungo corso, negazionista dei crimini di guerra giapponesi e nazionalista esasperato. Non proprio, si direbbe, una buona notizia.
Ma dal punto di vista delle politiche economiche, invece, pare che ci siano delle novità interessanti. Abe ha esordito attaccando il sancta sanctorum dell’ortodossia neoliberale, l’indipendenza della Banca Centrale. Il nuovo primo ministro è stato molto chiaro: è ora di finirla con la deflazione che attanaglia il Giappone da due decenni ed è finalmente giunta l’ora di far ripartire la crescita - e con essa, salari e guadagni. Quindi basta con un’inflazione praticamente inesistente, e l’obiettivo di inflazione annuale deve essere raddoppiato (dall’1 al 2%) in termini relativamente brevi, con possibilità di andare più in là nel futuro. Non solo: la politica monetaria deve intervenire per svalutare lo yen (un po’ come fa la Cina…) e rilanciare le esportazioni, da sempre punto di forza dell’industria giapponese.
La politica monetaria, come sappiamo, è però nelle mani della Banca Centrale, la BoJ, che dovrebbe decidere in autonomia. Abe non ha però sentito ragioni: o si fa come dice lui o, forte della netta vittoria elettorale, cambierà la legge che regola il funzionamento della BoJ.
Non contento di questa sterzata inaudita, Abe ha anche lanciato un pacchetto di stimolo fiscale di 10.3 triliardi di yen (87 miliardi di euro). Il tutto, ricordiamolo, con il debito pubblico più alto del mondo, oltre il 200% del Pil. Ci si sarebbe attesi una reazione impaurita dei mercati di fronte a tanto ardire, davanti a politiche economiche così keynesiane, ed invece i tassi di interesse sono subito scesi.
Ed allora tutta questa paura del debito che è il fondamento teorico dell’austerity? Abe, con la sua mossa, ha dimostrato che le teorie economiche sono, nella realtà, ideologie politiche, strumenti nelle mani di qualcuno per fare il proprio interesse. I mercati non temono una ripresa della spesa pubblica in Giappone perché sanno benissimo che la BoJ può stampare quanti yen vuole, e che dunque il debito è sempre e comunque esigibile. In questi anni post-crisi, ad esempio, gli Stati Uniti hanno aumentato notevolmente il loro debito (perdendo, come sappiamo, la tanto famigerata tripla A) ma gli unici pericoli sul fronte economico sono venuti dalla fronda repubblicana e non certo dai mercati che hanno tenuto bassi gli interessi sui buoni del Tesoro americani. E la Federal Reserve ha cospicuamente finanziato il piano Obama, inondando l’economia di liquidità ed evitando un avvitamento recessivo. In Europa, invece, almeno durante il mandato di Trichet, la Bce ha deciso di rimanere sulle sue posizioni di assoluta osservanza montarista, pensando bene di alzare pure i tassi di interesse durante il periodo peggiore della crisi. Un disastro, parzialmente rimediato da Mario Draghi che ha aperto i rubinetti del credito, rimettendo così a posto sia la situazione finanziaria di molte banche, sia la sostenibilità del debito (con lo spread in discesa, merito che Monti ha cercato tartufescamente di intestarsi).
Ma la politica monetaria espansiva da sola non basta, come si evince con chiarezza dando un’occhiata ai risultati macroeconomici degli ultimi anni. La leva monetaria ha ridato liquidità al sistema ma non riesce a far ripartire gli investimenti in un momento in cui le aspettative sono negative e i consumi in calo. Ecco allora che la politica monetaria espansiva ordinata da Abe si andrà a saldare con una politica fiscale che va in direzione opposta all’austerity, con un pacchetto di spesa pubblica per rilanciare investimenti e consumi.
Le ragioni di Abe possono anche essere di mero calcolo elettorale e per rimettere in moto quell’economia legata al patronato politico e alla corruzione, ma i due messaggi che arrivano dal Giappone sono molto chiari. I governi politici non possono più tollerare di non controllare la politica monetaria e dunque l’idea stessa di indipendenza della banca centrale viene finalmente messa in seria discussione. E l’ortodossia monetarista e dell’austerity (ma sarebbe meglio parlare di immiserimento) viene finalmente abbandonata in una grande economia come quella giapponese. Sta arrivando l’ora, finalmente, di girare pagina.

fonte: http://www.liberazione.it/rubrica-file/gia_presente_16081_22_Japanomics.htm


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Marchionne contro i sindacati anche in America

di Nicola Melloni

da Liberazione

Negli ultimi anni, l’agiografia di Marchionne, diffusa a piene mani da molti dei media (padronali) italiani, raccontava una bella storiella ad uso e consumo dei “riformisti” del Belpaese: in Italia una Fiat innovatrice viene bloccata dalla Fiom, mentre in America, con un sindacato collaborativo e “moderno” le cose con Chrysler sono andate benissimo. Rilancio, profitti da paura, futuro roseo.
Le cose, noi lo sappiamo, sono sempre state un pochino diverse. Marchionne ha (giustamente) approfittato delle politiche neo-keynesiane di Obama che lo ha riempito di soldi pur di salvare Chrysler, mettendo però una serie di paletti importanti su investimenti e futuri piani di rilancio - della serie va bene il capitalismo, ma non è che ci fidiamo più di tanto. E l’altra fetta dei soldi per il salvataggio ce li ha messi il sindacato Uaw con il suo fondo pensione, Veba.
Un impegno dei lavoratori per salvare Chrysler. Ma un impegno non vuol dire un regalo, al padrone magari, che fa profitti coi soldi degli altri e se li intasca. No, impegno per Uaw vuol dire un investimento, secondo le regole ferree del capitalismo americano con i fondi pensione che hanno in pancia il futuro ed il welfare dei lavoratori. E dunque, anche i sindacalisti “moderni” e “riformisti” non possono proprio calarsi le brache davanti al padrone.
Veba controlla oltre il 40% delle quote Chrysler e Fiat, che ha poco meno del 60%, ha l’opzione per comprare un ulteriore 16% in rate semestrali di circa il 3%. Opzione in cui però non è stabilito il prezzo. E Marchionne ha deciso di giocarsela, come dire, all’italiana. Offrendo briciole ed elemosine. Per un primo stock del 3% erano stati offerti 139 milioni di dollari nel luglio scorso. Veba ha riso in faccia a Marchionne, valutando il pacchetto due volte e mezzo di più, 342 milioni. Marchionne ha abbozzato e poi a gennaio ha rilanciato, portando il prezzo a 198 milioni, un aumento di quasi il 50%. Ancora nulla di fatto, e se ne occuperà un tribunale.
Veba propone in alternativa di andare sul mercato con una offerta pubblica per far stabilire agli investitori, e non ai padroni, il reale valore di Chrysler. Ma il buon (?) Marchionne nicchia. Sa che rischia di perderci un mucchio di soldi, mettendo a rischio la tanto agognata fusione con Fiat. Alla fine si trova sempre dei sindacalisti tra i piedi. E ancora non se ne capacita. Come mai non gli fanno i ponti d’oro? In fondo lui ha salvato Chrysler (o forse è stato Obama…ma non entriamo nei dettagli); in fondo lui mantiene Fiat in Italia (almeno così ha detto tante volte, salvo poi investire in Serbia e chiudere stabilimenti da noi, vedi anche il caso Melfi). Eppure i suoi sforzi non vengono apprezzati, nessuno che gli dica grazie.
La realtà, ovviamente, è un po’ diversa. Al moderno imprenditore Marchionne piace fare lo sbruffone con i soldi degli altri e sulla schiena dei lavoratori. Altro che imprenditore, in realtà un finanziere e neanche dei più raffinati. Non innova, investe poco ma abbassa i costi. Lo fa riducendo i salari o cercando di comprare a prezzi ribassati le azioni degli altri investitori. Una strategia di corto respiro, tipica di quel capitalismo finanziarizzato che conosciamo bene, tutto dedito ai guadagni di breve periodo, senza una visione di ampio respiro e lunga durata. Che vede nei lavoratori non una risorsa ma un costo da minimizzare; che vede negli investitori non un partner ma un pollo da spennare. Proprio quello di cui c’è bisogno per rilanciare l’industria occidentale.

fonte: http://www.liberazione.it/news-file/Marchionne-contro-i-sindacati-anche-in-America.htm

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