Iniziamo proponendo un ottimo ed interessante articolo di Serra sulla classe dirigente (?) ex PCI/PDS/DS ora PD che a forza di star chiusa nel palazzo, a forza di non ascoltare la gente, a forza di snobbare il popolo, a forza solo di primarie ma di nessun ascolto delle esigenze della base si e' condannata alla piu' dura sconfitta e, per fortuna, anche alla scomparsa fisica dalla stanza dei bottoni.
Di seguito, poi, un post di Antonio Schiavulli su quello che è stato il PD ed i suoi antenati prima di lui. Un partito, una coalizione, che, politicamente si è caratterizzata per "riforme" regressive (lavoro, scuola, immigrazione - manca per altro la riforma fiscale della aliquote IRPEF...), abbandonando da molto prima del governo Letta un profilo di rappresentanza dei lavoratori, dei disoccupati, delle classi meno agiate. Un partito votato al compromesso (storico?) portando in dote poco o nulla delle lotte dei decenni precedenti, ma certo molti voti. Raggiungendo ora il suo punto più alto, annullando le differenze della seconda repubblica (di forma - oscena, sia chiaro, nel berlusconismo - più che di sostanza) in un governo di pacificazione nazionale. Sulla pelle dei soliti noti.
LA SCOMPARSA DEI POST COMUNISTI
di Michele Serra
da Repubblica
A parziale consolazione di quei milioni di elettori di sinistra che
si sentono tagliati fuori dalla scena politica (no, non avevano votato
per fare un governo con Berlusconi), va detto che una sorte analoga è
toccata alla classe dirigente della sinistra storica quasi al completo.
Il “quasi” è dovuto all’autorevolissima eccezione di Giorgio Napolitano,
riconfermato al Colle e primo artefice del nuovo governo.
Meritato coronamento della vocazione governativa e lealista della
destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia
repubblicana, il punto di vista dello Stato ben più di quello della
società, dei movimenti, degli umori popolari.
Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e
di Occhetto, della Bolognina e della “svolta maggioritaria” di Veltroni
al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei
due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei
infiniti e delle infinite attese di “cambiamento” – non rimane, nel
consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa.
Almeno in questo senso il principio di rappresentatività è rispettato:
eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del Pd che fu la
diaspora comunista non fanno parte del governo Letta. Non un solo leader
della generazione di mezzo (i D’Alema, i Veltroni, i Bersani) è
direttamente partecipe di una compagine che pure pretende di reggersi su
tante gambe quante sono quelle all’altezza dell’emergenza politica, e
dunque della responsabilità istituzionale. Domina la componente popolare
e cristiano sociale; e nei pochi casi (vedi le neoministre Kyenge e
Idem) in cui la sinistra italiana può riconoscere almeno qualcuna delle
proprie migliori aspirazioni, non si tratta di dirigenti politiche ma di
una sorta di evidenza sociale che bypassa il partito: è il partito che
le porta in spalla, ma sono loro a salutare la folla.
A meno che, in questo scomparire
di una intera generazione di capi politici della sinistra, ci sia un
sottile calcolo (“meglio, in questa fase, farsi notare il meno
possibile”), se ne deve dedurre un fallimento epocale. Quello di una
classe dirigente logorata dal tatticismo e sfibrata dalle rivalità
interne; e di un modello di partito così poco permeabile alla società
che, evidentemente, non ha potuto selezionare i propri uomini e le
proprie donne nel vivo dei conflitti, e si è illuso di potere coltivare
in vitro, nel chiuso dei propri ruoli di competenza, una élite che
invecchiava, perdeva mordente, perdeva sguardo su una società che
guardava a sua volta altrove.
In una recente intervista al “Manifesto” di Stefano Rodotà, al netto
delle opinioni che si possono avere sulla persona e sul tentativo
politico di portarlo al Colle, ci si riferiva a un episodio che
fotografa con assoluta spietatezza la crisi strutturale della sinistra
italiana, e del Pd in particolare. Subito dopo la clamorosa e inattesa
vittoria nei cinque referendum del 2011 sull’acqua pubblica e altro
(quorum ottenuto, dopo molti anni, grazie all’auto-organizzazione sul
territorio), Rodotà racconta di avere inutilmente sollecitato un
incontro tra i Comitati vittoriosi (con i quali aveva lavorato) e i
dirigenti del Pd. Quell’incontro non ebbe luogo, forse non interessava o
forse nel Pd c’erano cose più urgenti da fare. Fatto sta che, con il
senno di poi, possiamo ben dire che in quel caso la sinistra perdente
(quella degli apparati) perse l’occasione di confrontarsi con la
sinistra vincente, quella auto-organizzata, vivace, attiva che ebbe
tante parte, tra l’altro, anche nella vittoria di Pisapia a Milano e
nella caduta del centrodestra in molte città italiane.
Perché quell’episodio è amaramente simbolico? Perché da molti anni –
diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni –
ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo
ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte
chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”,
riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una
élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati,
quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta
dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di
fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e
i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque
Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo
politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha
perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con
l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera
avanguardia politica?
Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il
pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o
meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà),
quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle
amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per
questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare
un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua
e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da
rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?
Il primo maggio del Pd
di Antonio Schiavulli
da http://antonioschiavulli.wordpress.com
È facile oggi prendersela con il Pd, con i suoi dirigenti decrepiti e
l’assenza totale di un progetto politico che non sia riducibile a
quello di un comitato d’affari preoccupato di difendere le proprie
posizioni di potere nel paese. È facile prendersela con Bersani al quale
andrebbe almeno concesso l’onore delle armi e riconosciuto il coraggio
di essersi fatto carico con coerenza e disciplina di una situazione
oggettivamente impossibile da risolvere. È facile e qualcuno, specie
dentro il Pd, lo ha fatto molto meglio di come potrei farlo io, che con
il Pd non ho niente a che fare. Adesso, per carità, sono tutti, o
quasi, rientrati nei ranghi e hanno trovato ottimi motivi per giustificare l’ingiustificabile e prendersela con qualcun altro.
Alla faccia dei “delusi del Pd”, però, che si svegliano ora solo
grazie al valore simbolico di un’elezione presidenziale, il ventennio
che si chiude è stato caratterizzato da tre grandi riforme del mercato
del lavoro che senza soluzione di continuità sono state avanzate dal
centrosinistra e perfezionate dal centrodestra. Alla luce della storia
dei rapporti sindacali,
il governo Letta-Alfano non
è dunque che la celebrazione di un’alleanza che fra alti e bassi data
almeno dagli accordi di luglio del 1993, quando, nel pieno di un’altra
crisi, è cominciata la ristrutturazione delle relazioni industriali in
nome dell’unità nazionale.
Colpisce che, mentre gli elettori e i
militanti del Pd si sentono così delusi dalla mancata elezione alla
Presidenza della Repubblica di Romano Prodi, nessuno di loro ai tempi
del Pds si fosse sentito altrettanto deluso quando, nel 1997, il primo
governo del candidato presidente approvava il pacchetto Treu, avviando
così il processo di precarizzazione del lavoro che ha cancellato il
futuro di due generazioni e senza il quale difficilmente si sarebbe
arrivati, nel 2003 alla legge Biagi.
Né sembravano affranti, quegli stessi elettori e militanti delusi
dalla mancata elezione di Rodotà, di fronte a quell’orrore giuridico (e
linguistico) che, nel 1998, istituisce i Centri di Permanenza Temporanea
(Cpt) con la legge firmata da Livia Turco e Giorgio Napolitano. Ci
vorranno solo quattro anni perché, sulla falsariga della legge
precedente, un leghista e un fascista propongano un’altra legge sul
lavoro mascherata da legge sull’immigrazione nella misura in cui lega la
permanenza sul territorio italiano e la libertà individuale dei
soggetti migranti al possesso di un contratto di lavoro, sottoponendo di
fatto il lavoratore al ricatto della detenzione e dell’espulsione nello
stato d’eccezione dei Cie.
Non si scandalizzavano, infine, i militanti dei Ds, nemmeno quando in
un processo di riforma complessiva della formazione inaugurato alla
fine degli anni ottanta dal democristiano Ruberti si inseriva, nel 2000,
Luigi Berlinguer senza la cui riforma difficilmente sarebbe stato
possibile per Moratti e Gelmini completare le proprie. Anche in questo
caso l’attacco all’università mirava coerentemente nella direzione di
una più stretta relazione tra formazione e impresa, finalizzando la
prima alla seconda, anche se è giusto ricordare che qui e solo qui (gli
immigrati non votano) si è giocata una partita sulla pelle
dell’elettorato del centrosinistra, egemone, pare, nella scuola e
nell’università. Che infatti riuscì a ottenere l’abolizione della
riforma Moratti dal secondo governo Prodi, salvo poi subire il colpo di
grazia inferto nel 2008 da Gelmini.
La grande vittoria del berlusconismo è stata quella di distogliere
l’attenzione dal lavoro per concentrarla su di sé, sui propri processi,
sul proprio modello ideologico con la connivenza di un partito che usato
l’antiberlusconismo come arma di distrazione di massa. La partita degli
ultimi vent’anni si è giocata, così, contro un soggetto che non a caso è
proprietario di una squadra di calcio, su una maglia da difendere, ma
dentro un campionato sulle cui regole tutti i giocatori concordano e che
nessuno si è mai permesso di mettere in discussione. È invece sulle
politiche del lavoro che oggi, dopo la marcia dei 40.000 e dopo la
concertazione, dopo Napoli, dopo Genova, dopo vent’anni di flessibilità e
precarizzazione, passa la differenza tra la percezione qualunquista
della casta e l’evidenza consociativa dell’ennesimo governo di unità
nazionale. Le contraddizioni del M5S, peraltro sottoscrivibilissime per
come vengono denunciate da
Wu Ming e dal libro di
Giuliano Santoro,
sembrano in effetti ripercorrere le tappe di un processo corporativo
che ha riunito sotto le insegne di Pds, Ds e Pd una composizione di
classe eterogenea nel nome della ristrutturazione neo-liberista del
mercato del lavoro e nel nome della pacificazione sociale.
Da questo punto di vista, la storia della dirigenza del Pd si lega
con la formazione dei propri quadri dentro la Dc e il Pci durante gli
anni dell’unità nazionale. Istruita dai padri storici della
generazione migliorista dei Macaluso e dei Napolitano, la
generazione successiva ha
declinato l’unità nazionale sul piano giuridico e delatorio (Fassino
con Ferrara e Caselli), su quello dei tatticismi (D’Alema), su quello
dell’egemonia culturale (Veltroni e figli, da Giordana a Saviano)
orientando la politica del Partito verso un unico obiettivo: la
realizzazione del compromesso storico al quale il Pci, non a caso,
portava in dote la pacificazione sociale. In fondo, vista da qui, la
politica del centrosinistra in Italia è stata vincente e l’obiettivo, se
non ha prodotto memorabili successi elettorali, ha almeno garantito un
precario controllo dei conflitti. Finché dura…