giovedì 2 maggio 2013

Sottosegretari e viceministri: Letta al mercato della vacche



30 sottosegretari, 10 viceministri, sempre all'insegna della sobrietà questi governi - almeno non siamo ai 100 e rotti di Prodi. Ma le logiche spartitorie son sempre le stesse, cariche a pioggia per tenere contente tutte le correnti nel Pdl e soprattutto nel Pd.
Grande e massiccia la rappresentanza delle amazzoni di Silvio, le pasdaran di Arcore guidate da Micaela Biancofiore alle Pari Opportunità (mamma mia...) e Jole Santelli che affiancherà Fassina all'Economia - così i turchi son quasi tutti dentro e Fassina la smetterà di rompere le scatole al governo, anche se le politiche si annunciano in grandissima continuità con Monti.
E poi il grande ritorno di Miccichè, vicerè siciliano, già famoso per una storiella piuttosto imbarazzante quando era al Ministero dell'Economia. E dopo lo sceriffo Zanonato ministro, un altro sindaco PD con la fama di duro, De Luca da Salerno, tanto per una bella par condicio geografica.
Ma in fondo possiamo consolarci. Non ci sono Gasparri, La Russa, Cicchitto e Brunetta. Allegria!

Letta ci vuole tutti più precari

Probabilmente è stata la legge simbolo del governo Monti, la famosa riforma strutturale che tutti chiedevano da tempo. E' la legge Fornero, quella che ha tolto diritti e garanzie per i lavoratori, quella che ha reso più facile licenziare. Una legge classista ed insieme balorda, aggirata dalle imprese e che nei suoi pochi mesi di vita ha dato pessima prova di sé, contribuendo forse addirittura ad aumentare la disoccupazione.
E dunque il governo Letta ha deciso di intervenire, il primo vero atto politico del nuovo esecutivo. E lo si farà, come suggerito dal saggio Giovannini, cercando di rendere il mercato del lavoro un po' più flessibile. Non a caso dietro la proposta di riforma c'è lo zampino di Tiziano Treu, l'estensore della peggior riforma del lavoro di sempre. La riforma Fornero cercava di evitare il ricorso continuo al lavoro stagionale - contratto di 6 mesi e poi subito altro contratto di 6 mesi, per tenere sempre sulla griglia il lavoratore. E chiedeva al datore di lavoro di spiegare perché per le esigenze dell'impresa fosse conveniente adoperare lavoro a tempo indeterminato invece che determinato. Due punti invisi a Confindustria, e che il governo cambierà.
La ragione, ovviamente, è la crisi. Le imprese hanno bisogno di più flessibilità nelle assunzioni, devono poter muoversi con più libertà nel mercato. E dunque un bel passo indietro verso la precarietà garantita per tutti. Si dirà: meglio precari che disoccupati. Messa così uno potrebbe dire, forse. Ma è un insulso ricatto. Se la riforma Fornero non funziona, andrebbe cambiata in toto. Invece  si mantengono gli elementi regressivi e reazionari della riforma del lavoro e li si combinano con maggiore precarietà con la scusa della crisi, così per raggiungere un massimo grado di sfruttamento del lavoro. L'idea, sempre la stessa, è quella di uscire dalla crisi succhiando il sangue ai lavoratori e concentrandosi solo sulla profittabilità delle imprese, trasformandole in sweatshop asiatici con manovalanza senza diritti e salari bassi. Non capendo (ma in realtà lo sanno benissimo...) che la crisi italiana nasce ben prima del 2007 ed è legata anche e soprattutto allo sfruttamento e alla precarietà del lavoro.
E che per uscire dalla crisi bisogna sì sostenere l'occupazione, ma l'occupazione sana, duratura, che ridia fiato alla domanda, non che la precarizzi.

Pellegrinaggio a Berlino

di Nicola Melloni
da Liberazione

Il primo atto pubblico del governo Letta è stato un viaggio a Berlino per riferire alla Merkel. Un refrain ormai consolidato, lo aveva già fatto Monti e anche Bersani in piena campagna elettorale si era preoccupato di andare in Germania a rassicurare la Cancelliera invece di preoccuparsi di convincere gli italiani. Si è visto poi come è finita. E la Merkel non ha mancato di far vedere la sua benevolenza per l’atto di vassallaggio, riconoscendo i passi fatti dall’Italia sulla via del "risanamento". Di che passi si tratti, non è chiaro, con l’economia in recessione, la disoccupazione in aumento e il numero di giovani fuori dal mercato del lavoro ai massimi storici.
Un buffetto per Letta, ma nella sostanza i tedeschi sono rimasti inflessibili sul punto saliente: i paesi in crisi devono fare i compiti a casa, le riforme strutturali. Leggasi, nessuno ha intenzione di aiutarli, la competitività dell’economia si ottiene riducendo i salari, la famigerata deflazione interna, e l’austerity è l’unica maniera di farlo. Un messaggio, neanche tanto cifrato, che non è solo indirizzato all’Italia ma anche alla Francia di Hollande che da qualche giorno ha cominciato a chiedere allentamenti al vincolo di spesa. Letta non ha nemmeno provato a discutere la retorica dei conti a posto. Anzi, l’ha ribadita con orgoglio, degno erede del governo Monti, e di quella tradizione del centrosinistra italiano che dal 1996 in avanti ha fatto del bilancio in ordine la sua stella cometa. Come se le riforme strutturali fossero legate ai conti in ordine del governo: il problema in Italia è legato fondamentalmente alla bassa produttività (e non certo ai salari alti o alle rigidità del mercato del lavoro) e all’incapacità del settore privato di investire in ricerca e sviluppo, limitato dalla dimensione dell’impresa e dalla mancata coordinazione pubblica. Niente a che vedere col livello del deficit, come richiesto invece dal fiscal compact.
Letta naturalmente ha anche detto che ora è il momento di parlare di crescita a livello europeo da accompagnare all’austerity dei conti. Anche in questo caso, però, sono parole trite e ritrite. Per oltre un anno Mario Monti ha parlato di fase due, con la crescita che sembrava sempre dietro l’angolo. E pure Prodi, in passato, non aveva resistito alla retorica della ripresa economica dopo le finanziarie lacrime e sangue. Queste ultime, sempre puntuali, mentre per la crescita è sempre stato come aspettare Godot.
Letta, come anche i suoi predecessori, scommette su un paradosso, mettendo insieme due concetti che, nello stato attuale dell’economia, sono inconciliabili: stretta fiscale e aumento del Pil. Ancora non sembra passare il concetto che le politiche fiscali restrittive uccidono l’economia reale quando questa è stagnante (come lo è stata in Italia per vent’anni) o addirittura in recessione, come ora. Il momento dell’austerity è la crescita, come diceva Keynes, non la crisi.
Il nuovo Primo Ministro pensa di rimettere in moto l’economia semplicemente con un piano per rilanciare gli investimenti a livello europeo. Sarebbe un primo passo, ma assolutamente insufficiente. Intanto di che tipo di investimenti parliamo? Del Tav, che ha un effetto espansivo minimo, geograficamente limitato, con pochissime ricadute su altri settori e che sarà pronto tra una trentina d’anni? O invece, per esempio, del miglioramento della rete ferroviaria locale, che darebbe lavoro ad un numero molto maggiore di addetti, che migliorerebbe la qualità della vita di molti ma, soprattutto, renderebbe più efficiente il sistema economico, diminuendo i ritardi e le ore perse? Parliamo di soldi buttati negli F35, dove il valore generato dagli investimenti in Finmeccanica è inferiore alla spesa totale, o di ammodernare il sistema aeroportuale in disfacimento, con nessun aeroporto italiano incluso nella lista dei primi 100 al mondo – con buona pace della valorizzazione del turismo?
Più in generale, la spesa pubblica – ovvero, l’opposto dell’austerity – è necessaria, mentre il settore privato è in ritirata. In pratica, le finanze statali devono reagire in maniera opposta a quello che succede nel settore privato, quando questo si indebita (investe) di meno, è lo Stato a dover sostenere l’economia, per evitare una spirale depressiva. Gli investimenti però non bastano, bisogna attuare politiche di sostegno attivo alla domanda – e, ovviamente, all’occupazione - per rilanciare i consumi e dunque cambiare le aspettative e gli investimenti del settore privato. In breve, altro che epica dei conti a posto, bisogna spendere di più per uscire dalla recessione. O ci si prepara a mettere la Germania con le spalle al muro o la crisi spazzerà via l’Europa.

Letta vs Fornero: non c'è abbastanza precarietà

Di seguito l'intevento di Emiliano Brancaccio sulla sparata di Letta contro la riforma Fornero. Tolti i diritti, ora reintroduciamo la precarietà.


Sul mercato del lavoro Letta dichiara – tecnicamente – il falso   


di Emiliano Brancaccio
da emianobrancaccio.it


Il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha dichiarato: «Il lavoro è il cuore di tutto. Se noi riusciamo sul lavoro a dare dei segnali positivi ce la faremo. Se sul lavoro non ci riusciamo, sono sicuro che non ce la faremo». Quanto alla riforma Fornero il premier ha commentato: «In un momento straordinario come questo è necessario un pochino meno di rigidità. Ci sono alcuni punti che in una fase recessiva stanno creando dei problemi come ad esempio le limitazioni sui contratti a termine, che sono necessarie in una fase economica normale, ma che in una fase di straordinaria recessione come quella l’attuale non sono utili, e per questo è necessaria una minore rigidità» (fonte: Il Sole 24 Ore). Un’argomentazione simile era stata sostenuta poco prima dal ministro del Welfare Enrico Giovannini.

Nel giorno della festa dei lavoratori Letta dunque si accoda agli ultimi pasdaran del liberismo, che ripetono da anni la tesi secondo cui una maggiore precarietà dei contratti di lavoro favorirebbe l’efficienza economica e il riassorbimento della disoccupazione. Questa tesi tuttavia è falsa. I test contenuti negli Emplyoment Outlooks 1999 e 2004 dell’OCSE smentiscono l’esistenza di una correlazione tra riduzione delle tutele dei lavoratori e riduzione della disoccupazione. Inoltre, una rassegna di Tito Boeri e Jan van Ours di tredici ricerche empiriche sul nesso tra tutele del lavoro, occupazione e disoccupazione realizzate tra il 1988 e il 2005 da vari studiosi, rivela che solo una di esse stabilisce che una maggiore flessibilità è correlata a una minore disoccupazione, nove danno risultati indeterminati e tre addirittura indicano che minori tutele del lavoro sono associate a minore occupazione e maggiore disoccupazione (Boeri e van Jours, Economia dei mercati del lavoro imperfetti, Egea 2009).
Ma non è finita qui. Nel 2006 Olivier Blanchard, attuale capo economista del Fondo Monetario Internazionale, dopo una disamina dei lavori empirici disponibili mette una pietra tombale sulla questione: “Le differenze nei regimi di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi” (Economic policy 2006; per approfondimenti e ulteriori  riferimenti bibliografici rinvio al volume Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia, nella cui appendice statistica è anche riprodotto, con dati aggiornati, il test OCSE sull’incorrelazione tra tutele del lavoro e tassi di disoccupazione).
In definitiva, sugli effetti occupazionali delle tutele del lavoro Letta dichiara tecnicamente il falso, nel senso che tenta di promuovere una modifica della disciplina dei contratti sulla base di relazioni di causa ed effetto che non hanno trovato adeguati riscontri nella letteratura scientifica di questi anni. Per non parlare dell’idea bizzarra, da lui evocata, secondo cui la normativa sul lavoro dovrebbe variare in funzione delle fasi di espansione o recessione della produzione: una sorta di legislazione à la carte, da modificare ogni volta in funzione della congiuntura. Se così fosse, ci troveremmo al cospetto dell’ennesimo colpo sparato su una disciplina dei contratti di lavoro ormai ridotta a colabrodo, che da un punto di vista economico finirebbe al limite per accrescere l’instabilità dell’occupazione e del monte salari, e potrebbe persino arrivare a deprimere i loro già disastrosi andamenti medi.

Dal PCI al PD: la fine della sinistra


 


Iniziamo proponendo un ottimo ed interessante articolo di Serra sulla classe dirigente (?) ex PCI/PDS/DS ora PD che a forza di star chiusa nel palazzo, a forza di non ascoltare la gente, a forza di snobbare il popolo, a forza solo di primarie ma di nessun ascolto delle esigenze della base si e' condannata alla piu' dura sconfitta e, per fortuna, anche alla scomparsa fisica dalla stanza dei bottoni.
Di seguito, poi, un post di Antonio Schiavulli su quello che è stato il PD ed i suoi antenati prima di lui. Un partito, una coalizione, che, politicamente si è caratterizzata per "riforme" regressive (lavoro, scuola, immigrazione - manca per altro la riforma fiscale della aliquote IRPEF...), abbandonando da molto prima del governo Letta un profilo di rappresentanza dei lavoratori, dei disoccupati, delle classi meno agiate. Un partito votato al compromesso (storico?) portando in dote poco o nulla delle lotte dei decenni precedenti, ma certo molti voti. Raggiungendo ora il suo punto più alto, annullando le differenze della seconda repubblica (di forma - oscena, sia chiaro, nel berlusconismo - più che di sostanza) in un governo di pacificazione nazionale. Sulla pelle dei soliti noti.


LA SCOMPARSA DEI POST COMUNISTI
di Michele Serra
da Repubblica

A parziale consolazione di quei milioni di elettori di sinistra che si sentono tagliati fuori dalla scena politica (no, non avevano votato per fare un governo con Berlusconi), va detto che una sorte analoga è toccata alla classe dirigente della sinistra storica quasi al completo. Il “quasi” è dovuto all’autorevolissima eccezione di Giorgio Napolitano, riconfermato al Colle e primo artefice del nuovo governo.
Meritato coronamento della vocazione governativa e lealista della destra comunista, da sempre capace di interpretare, nella lunga storia repubblicana, il punto di vista dello Stato ben più di quello della società, dei movimenti, degli umori popolari.
Di tutto il resto – quel cospicuo resto che è la sinistra di Berlinguer e di Occhetto, della Bolognina e della “svolta maggioritaria” di Veltroni al Lingotto, dell’Ulivo, dei sindacati e dei movimenti di massa, dei due milioni di persone con Cofferati al Circo Massimo, dei cortei infiniti e delle infinite attese di “cambiamento” – non rimane, nel consociativismo lettiano, alcuna presenza riconoscibile e significativa.
Almeno in questo senso il principio di rappresentatività è rispettato: eletti ed elettori di quel grande ceppo fondante del Pd che fu la diaspora comunista non fanno parte del governo Letta. Non un solo leader della generazione di mezzo (i D’Alema, i Veltroni, i Bersani) è direttamente partecipe di una compagine che pure pretende di reggersi su tante gambe quante sono quelle all’altezza dell’emergenza politica, e dunque della responsabilità istituzionale. Domina la componente popolare e cristiano sociale; e nei pochi casi (vedi le neoministre Kyenge e Idem) in cui la sinistra italiana può riconoscere almeno qualcuna delle proprie migliori aspirazioni, non si tratta di dirigenti politiche ma di una sorta di evidenza sociale che bypassa il partito: è il partito che le porta in spalla, ma sono loro a salutare la folla.
A meno che, in questo scomparire
di una intera generazione di capi politici della sinistra, ci sia un sottile calcolo (“meglio, in questa fase, farsi notare il meno possibile”), se ne deve dedurre un fallimento epocale. Quello di una classe dirigente logorata dal tatticismo e sfibrata dalle rivalità interne; e di un modello di partito così poco permeabile alla società che, evidentemente, non ha potuto selezionare i propri uomini e le proprie donne nel vivo dei conflitti, e si è illuso di potere coltivare in vitro, nel chiuso dei propri ruoli di competenza, una élite che invecchiava, perdeva mordente, perdeva sguardo su una società che guardava a sua volta altrove.
In una recente intervista al “Manifesto” di Stefano Rodotà, al netto delle opinioni che si possono avere sulla persona e sul tentativo politico di portarlo al Colle, ci si riferiva a un episodio che fotografa con assoluta spietatezza la crisi strutturale della sinistra italiana, e del Pd in particolare. Subito dopo la clamorosa e inattesa vittoria nei cinque referendum del 2011 sull’acqua pubblica e altro (quorum ottenuto, dopo molti anni, grazie all’auto-organizzazione sul territorio), Rodotà racconta di avere inutilmente sollecitato un incontro tra i Comitati vittoriosi (con i quali aveva lavorato) e i dirigenti del Pd. Quell’incontro non ebbe luogo, forse non interessava o forse nel Pd c’erano cose più urgenti da fare. Fatto sta che, con il senno di poi, possiamo ben dire che in quel caso la sinistra perdente (quella degli apparati) perse l’occasione di confrontarsi con la sinistra vincente, quella auto-organizzata, vivace, attiva che ebbe tante parte, tra l’altro, anche nella vittoria di Pisapia a Milano e nella caduta del centrodestra in molte città italiane.
Perché quell’episodio è amaramente simbolico? Perché da molti anni – diciamo, per comodità, dalla Bolognina a oggi: e sono più di vent’anni – ogni tentativo di osmosi tra la sinistra-partito e la sinistra-popolo ha cozzato una, dieci, cento, mille volte contro finestre e porte chiuse. La domanda è semplice, ed è tutt’altro che “populista”, riguardando, al contrario, il tema cruciale della formazione di una élite: quanti potenziali leader, quanti quadri politici appassionati, quante nuove idee, quanta innovazione, quanta energia è stata perduta dalla sinistra italiana a causa, soprattutto, della sua incapacità di fare interagire le sue strutture politiche e il suo popolo, i dirigenti e i cittadini? Quante di quelle energie sono confluite nelle Cinque Stelle, portandosi dietro altrettanti voti? Quanto alto è stato il costo politico di un partito che per timore di perdere “centralità” ha perduto realtà, e infine ha perduto competenze, autorevolezza, e con l’autorevolezza il senso stesso della missione di qualunque vera avanguardia politica?
Infine e soprattutto: per quanti anni ancora varrà, a sinistra, il pregiudizio contro il “radicalismo minoritario” (sono state queste, più o meno, le ragioni addotte da alcuni per spiegare il loro no a Rodotà), quando le sole vittorie recenti, dall’acqua pubblica alle amministrative, sono il frutto evidente di scelte radicali, e non per questo meno popolari, e infine maggioritarie? Chi è più snob – per usare un termine tanto di moda – Rodotà che lavora con i Comitati per l’acqua e vince il referendum o un partito così castale, così impaurito da rinserrarsi a litigare, per anni, nel chiuso delle proprie stanze?



Il primo maggio del Pd

di Antonio Schiavulli
da http://antonioschiavulli.wordpress.com


È facile oggi prendersela con il Pd, con i suoi dirigenti decrepiti e l’assenza totale di un progetto politico che non sia riducibile a quello di un comitato d’affari preoccupato di difendere le proprie posizioni di potere nel paese. È facile prendersela con Bersani al quale andrebbe almeno concesso l’onore delle armi e riconosciuto il coraggio di essersi fatto carico con coerenza e disciplina di una situazione oggettivamente impossibile da risolvere. È facile e qualcuno, specie dentro il Pd, lo ha fatto molto meglio di come potrei farlo io, che con il Pd non ho niente a che fare. Adesso, per carità, sono tutti, o quasi, rientrati nei ranghi e hanno trovato ottimi motivi per giustificare l’ingiustificabile e prendersela con qualcun altro.
Alla faccia dei “delusi del Pd”, però, che si svegliano ora solo grazie al valore simbolico di un’elezione presidenziale, il ventennio che si chiude è stato caratterizzato da tre grandi riforme del mercato del lavoro che senza soluzione di continuità sono state avanzate dal centrosinistra e perfezionate dal centrodestra. Alla luce della storia dei rapporti sindacali, il governo Letta-Alfano non è dunque che la celebrazione di un’alleanza che fra alti e bassi data almeno dagli accordi di luglio del 1993, quando, nel pieno di un’altra crisi, è cominciata la ristrutturazione delle relazioni industriali in nome dell’unità nazionale.
Colpisce che, mentre gli elettori e i militanti del Pd si sentono così delusi dalla mancata elezione alla Presidenza della Repubblica di Romano Prodi, nessuno di loro ai tempi del Pds si fosse sentito altrettanto deluso quando, nel 1997, il primo governo del candidato presidente approvava il pacchetto Treu, avviando così il processo di precarizzazione del lavoro che ha cancellato il futuro di due generazioni e senza il quale difficilmente si sarebbe arrivati, nel 2003 alla legge Biagi.
Né sembravano affranti, quegli stessi elettori e militanti delusi dalla mancata elezione di Rodotà, di fronte a quell’orrore giuridico (e linguistico) che, nel 1998, istituisce i Centri di Permanenza Temporanea (Cpt) con la legge firmata da Livia Turco e Giorgio Napolitano. Ci vorranno solo quattro anni perché, sulla falsariga della legge precedente, un leghista e un fascista propongano un’altra legge sul lavoro mascherata da legge sull’immigrazione nella misura in cui lega la permanenza sul territorio italiano e la libertà individuale dei soggetti migranti al possesso di un contratto di lavoro, sottoponendo di fatto il lavoratore al ricatto della detenzione e dell’espulsione nello stato d’eccezione dei Cie.
Non si scandalizzavano, infine, i militanti dei Ds, nemmeno quando in un processo di riforma complessiva della formazione inaugurato alla fine degli anni ottanta dal democristiano Ruberti si inseriva, nel 2000, Luigi Berlinguer senza la cui riforma difficilmente sarebbe stato possibile per Moratti e Gelmini completare le proprie. Anche in questo caso l’attacco all’università mirava coerentemente nella direzione di una più stretta relazione tra formazione e impresa, finalizzando la prima alla seconda, anche se è giusto ricordare che qui e solo qui (gli immigrati non votano) si è giocata una partita sulla pelle dell’elettorato del centrosinistra, egemone, pare, nella scuola e nell’università. Che infatti riuscì a ottenere l’abolizione della riforma Moratti dal secondo governo Prodi, salvo poi subire il colpo di grazia inferto nel 2008 da Gelmini.
La grande vittoria del berlusconismo è stata quella di distogliere l’attenzione dal lavoro per concentrarla su di sé, sui propri processi, sul proprio modello ideologico con la connivenza di un partito che usato l’antiberlusconismo come arma di distrazione di massa. La partita degli ultimi vent’anni si è giocata, così, contro un soggetto che non a caso è proprietario di una squadra di calcio, su una maglia da difendere, ma dentro un campionato sulle cui regole tutti i giocatori concordano e che nessuno si è mai permesso di mettere in discussione. È invece sulle politiche del lavoro che oggi, dopo la marcia dei 40.000 e dopo la concertazione, dopo Napoli, dopo Genova, dopo vent’anni di flessibilità e precarizzazione, passa la differenza tra la percezione qualunquista della casta e l’evidenza consociativa dell’ennesimo governo di unità nazionale. Le contraddizioni del M5S, peraltro sottoscrivibilissime per come vengono denunciate da Wu Ming e dal libro di Giuliano Santoro, sembrano in effetti ripercorrere le tappe di un processo corporativo che ha riunito sotto le insegne di Pds, Ds e Pd una composizione di classe eterogenea nel nome della ristrutturazione neo-liberista del mercato del lavoro e nel nome della pacificazione sociale.
Da questo punto di vista, la storia della dirigenza del Pd si lega con la formazione dei propri quadri dentro la Dc e il Pci durante gli anni dell’unità nazionale. Istruita dai padri storici della generazione migliorista dei Macaluso e dei Napolitano, la generazione successiva ha declinato l’unità nazionale sul piano giuridico e delatorio (Fassino con Ferrara e Caselli), su quello dei tatticismi (D’Alema), su quello dell’egemonia culturale (Veltroni e figli, da Giordana a Saviano) orientando la politica del Partito verso un unico obiettivo: la realizzazione del compromesso storico al quale il Pci, non a caso, portava in dote la pacificazione sociale. In fondo, vista da qui, la politica del centrosinistra in Italia è stata vincente e l’obiettivo, se non ha prodotto memorabili successi elettorali, ha almeno garantito un precario controllo dei conflitti. Finché dura…