venerdì 1 aprile 2011

Tre ordini di considerazioni sulla crisi libica



Tre aspetti di ciò che sta accadendo in Libia in questi giorni mi hanno particolarmente colpito: sono qui discussi senza particolari intenti sistematici, né facendo appello a informazioni maggiori di quanto pubblicamente disponibile attraverso i mezzi d'informazione. A. Sul grado di liquefazione dell'ordine politico. La caratteristica di un regime autoritario è la solitudine dell'individuo, la sua atomizzazione imposta dalle strutture repressive del regime. Il suddito di uno Stato autoritario è passivo perché teme la delazione del vicino, la spia della polizia segreta, il funzionario corrotto, le esecuzioni extra-giudiziali. Al limite, si è spesso sostenuto che in tali Stati nessuno è davvero un sostenitore del regime: semplicemente, la repressione impedisce ai singoli di scoprire le motivazioni degli altri, di coordinarsi, di rischiare insieme una rivolta. Da qui la storia classica di ogni sollevamento anti-autoritario: ad un certo punto, qualcuno (tipicamente con le spalle al muro o ben poco da perdere) pone in maniera sistemica il problema dell'obbedienza al potere, agendo da elemento cristallizzante della disaffezione di tutti. Altri individui si uniscono alla protesta, e da atomi nel vuoto si trasformano in massa indistinta, solidale. L'ordine politico si liquefà non perché carri armati e sale di tortura scompaiono misteriosamente nel nulla, ma perché cessano i vincoli di obbedienza e si rompe la catena di comando negli apparati dello Stato necessaria anche alla più repressiva delle dittature. Una volta che la slavina della rivoluzione si è messa in moto, diventa sempre più agevole associarsi alla massa del popolo, sempre più facile abbandonare le istituzioni costituite. Per molti degli antichi collaboratori del regime (eccetto pochi casi, gettati al ludibrio della pubblica opinione) si tratta di saper cogliere l'attimo, ovvero di qualcosa di simile all'equilibrismo proprio degli operatori in borsa: disfarsi del titolo appena prima che si inabissi. All'indomani della rivoluzione, non si trova praticamente nessuno che si dichiari partigiano del vecchio ordine; col tempo, la stragrande maggioranza dei vecchi funzionari e agenti del regime, nonostante le loro più o meno gravi passate nequizie, vengono reintegrati nel ruolo, per garantire la continuità amministrativa dello Stato. Questa è la storia classica, di innumerevoli casi del passato, e, per ora (a quanto ci è dato di sapere), della Tunisia e dell'Egitto. Ma in questo processo di liquefazione dell'ordine politico, questo svanire da un giorno all'altro del senso di obbligazione si dà logicamente anche un diverso esito: se da atomi di fronte al potere gli individui non si trasformano in massa indistinta, da cui il vecchio regime si stacca come foglia morta, ma in gruppi diversi, opposti, l'unico possibile soluzione è la guerra civile. Parti diverse della società si fanno idee diverse di come configurare le strutture del potere, e il loro dissidio è fondamentalmente inconciliabile, perché è sulle basi stesse dell'azione comune, sulla definizione del soggetto collettivo. La dimostrazione è nei fatti: quando un regime cade, si obbedisce non per paura, ma per convinzione, e gli individui si raccolgono intorno a slogan e parole d'ordine. Nessuna guerra è una guerra di soli volontari, ma le guerre civili lo sono molto di più di qualunque altra. Questo, dunque, è quello che pare stia succedendo in Libia. Io non dispongo delle conoscenze specifiche per affermare quali siano i collanti identitari che tengono uniti i due campi, ma è un fatto che il potere di Gheddafi non si è del tutto liquefatto, che vi sono ancora uomini e donne pronti a morire, e uccidere, per il suo regime: nello sviluppo della crisi, vi è stato un momento in cui avrebbero potuto cambiare campo, ma hanno deciso (a quel punto, in maniera fondamentalmente libera) di non farlo – e non si combatte una guerra civile solo con una camarilla di fedelissimi che rischierebbero tutti personalmente di essere linciati dalla folla in caso di rivoluzione. Delle guerre civili del passato, alcune sono state aggiudicate dal tribunale della storia (e non sempre necessariamente a favore di chi ha vinto sul campo di battaglia). Tuttavia, se vogliamo comprendere un evento politico nel suo farsi, è necessario tenere in conto le motivazioni dei partecipanti, anche e soprattutto se non possiamo identificarvici. Delle varie e possibili ragioni per cui Gheddafi ha trovato nel momento della crisi chi lo sostenesse, a differenza di Ben Ali e Mubarak, si può forse ipotizzare che un qualche effetto ce l'abbia avuto la storia di opposizione (anche armata) all'occidente: del resto, già 25 anni fa Tripoli era sotto le bombe. Che questo tipo di politica, con tutto quel che comporta (come, ad esempio, la responsabilità per Lockerbie), possa ripugnarci, è unfatto. Ma che il sentimento di rivalsa nei confronti delle vecchie potenze coloniali e del nuovo imperialismo crei legami di solidarietà politica tali da cementare un gruppo anche di fronte alla crisi dei meccanismi di repressione statale, è altrettanto un fatto. E se il concetto di autodeterminazione ha ancora un qualche significato, un fatto con un determinato peso. Come si suol dire, non è a noi che deve piacere.
B. Sull'avere comunque torto. Noi, però, abbiamo comunque deciso di intervenire. Gli interessi materiali e le strategie geo-politiche delle Potenze occidentali che conducono l'attacco sono stati discussi dettagliatamente dalla stampa. Mi preme piuttosto soffermarmi su un altro punto, ovvero la riluttanza pubblicamente espressa, soprattutto dall'amministrazione americana, all'uso della forza, il senso di agire controvoglia, costretti dalle circostanze. Nei vent'anni di interventismo internazionale post-Guerra Fredda, è questa una retorica che abbiamo sentito più volte. È stata forse ottimizzata nel lasso di tempo che va dalla mancata invasione anti-genocida in Rwanda nel 1994 alla campagna di bombardamenti su Serbia e Kosovo del 1999. Legata all'idea degli USA come 'Potenza indispensabile', tale visione si esprimeva con un dilemma: damned if we don't, damned if we do. In altre parole, in un ordine internazionale in cui l'opinione si attendeva che i diritti umani fossero garantiti ovunque, la potenza egemone correva il rischio di essere criticata quale che fosse il suo comportamento, sia che lasciasse con la propria passività libero corso alla repressione, sia che usasse la forza militare per impedirla, con tutto ciò che ne consegue. Comunque, avrebbe avuto le mani sporche di sangue: indirettamente delle vittime del regime, non salvate, o direttamente delle vittime civili, 'collaterali' all'uso della forza armata. L'intento pragmatico di tale descrizione della posizione americana è piuttosto chiara (we'll damn well do), ma è significativo che sia espresso come un dilemma che finisce per relativizzare, sofisticamente, i valori in nome dei quali ci si propone alla fine di intervenire. Se peraltro gli USA (e, seguendo la loro guida, il resto dei paesi della coalizione) davvero considerano di trovarsi, nella decisione circa l'intervento, di fronte ad una genuina contraddizione morale, tragicamente indecidibile, beh, benvenuti. Non è questo certo l'unico esempio nella politica internazionale contemporanea di attori messi nella condizione di scegliere fra opzioni una peggiore dell'altra, in conseguenza della quale scelta avranno comunque torto. Fra i tanti esempi, possiamo citare quello di Stati che affrontano una crisi del debito e le concomitanti richieste degli organismi finanziari internazionali. Ma questi sono gli Stati più deboli del panorama internazionale: che conclusione dobbiamo trarre dal fatto che anche gli Stati egemoni hanno un margine di manovra così limitato, o perlomeno desiderano presentare la propria situazione di scelta in questi termini? La faccenda è spinosa. Per uscire dal dilemma, si può guardare alle conseguenze attese, ma è questo un percorso doppiamente rischioso. Da una parte si pongono problemi abbastanza complicati di aritmetica morale, relativi alla possibilità di equiparare vite umane, sofferenze, vittime. Dall'altra, è un'operazione a cui può accedere potenzialmente chiunque, sulla cui metodologia si può ampiamente discutere, le cui conclusioni sono eminentemente sindacabili: chi, quindi, decide autorevolmente? Se, perciò, un'analisi delle conseguenze non è la via d'uscita dal dilemma dell'intervento, è esso forse connaturato alle relazioni internazionali, o all'uomo stesso? C'è chi ha sostenuto tale tesi, ma nella misura in cui una naturalizzazione invita a ricercare altrove le basi sulle quali impostare le proprie azioni, distrugge implicitamente il casus belli morale. Come alternativa, una breve riflessione. Tipicamente, davanti ad una impasse, il problema è da ricercarsi a monte; nel nostro caso, nella struttura dell'ordine internazionale. In particolare, ci troviamo dinnanzi ad una contraddizione di fondo, ovvero la sussistenza di entità politiche (che possiamo chiamare pseudo-sovrane) la cui sopravvivenza è del tutto alla mercé del buon volere delle Potenze militarmente dominanti, ma che nondimeno mantengono la capacità di imporre con la forza il proprio volere ai propri sudditi.
C. Sulla prudenza dei tiranni e la parola delle Potenze. Che lezioni cela, dunque, la crisi libica per la classe dirigente di tali regimi, militarmente deboli e dalle credenziali liberal-democratiche meno che impeccabili? È difficile sostenere che la vicenda li inviti ad un maggior rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. È una considerazione basilare di criminologia che il contrasto alla
devianza si basa sulla deterrenza, ma che nell'interpretare la reale volontà repressiva delle istituzioni i potenziali trasgressori valutano non la lettera delle norme, bensì le regole di 'costituzione materiale' dell'operare degli agenti di pubblica sicurezza – una sorta di 'diritto penale realmente esistente'. Non è quindi una sorpresa che una stessa norma abbia effetti di deterrenza e controllo sociale radicalmente diversi a seconda del contesto, come dimostra platealmente la lotta al consumo di stupefacenti. Similmente, questo caso di enforcement di norme internazionali segnala il consolidarsi di una assetto materiale i cui capi principali possono riassumersi come segue: a) l'operare di elementi della società civile (più o meno legati alle istituzioni di politica estera delle Potenze occidentali) il cui compito è di stilare giudizi riassuntivi e classifiche sul grado di democraticità, apertura, &c. dei vari Stati funge come una sorta di assicurazione per le diplomazie di tali Potenze, preparando l'opinione in caso di necessità sopraggiunta di intervento, senza legare troppo le mani dei decisori: a fronte di tale strumento di potenziale propaganda, le assicurazioni diplomatiche classiche 'a porte chiuse', i tentativi di distensione e dialogo (come il riavvicinamento a Gheddafi intrapreso dall'occidente negli ultimi anni) divengono automaticamente meno credibili; b) l'opposizione delle Potenze emergenti (Brasile, nuova Russia, India, Cina...) come anche il dissenso fra Europei non hanno alcuna ricaduta pratica/operativa – essendo intrapresi precisamente con tale consapevolezza; c) ogni intervento necessita comunque di un incidente, un casus belli pubblico e mediatico, il che dà adito ad un interessante ed intricato gioco strategico tra apparato repressivo del regime, potenziali oppositori, e strutture di intelligence straniere, in cui l'uso ottimale della forza per ciascuno dipende crucialmente da quello che useranno gli altri; d) infine merita una nota il curioso ciclo di utilizzo della sofisticata attrezzatura militare (aviazione, difese anti-aeree e anti-missile, comunicazioni...), venduta dalle Potenze a Stati senza le capacità tecnologico- industriali per svilupparle in proprio, acquistata perlopiù per motivi di prestigio ('incoraggiati' da incentivi contenuti in trattati di cooperazione internazionale), e che poi viene prontamente distrutta da armi della generazione successiva, in dotazione agli eserciti interventisti, quando l'agenda internazionale volge al regime change [A livello puramente tecnico, parrebbe investimento molto più oculato l'acquisto in massiccie quantità di piccole armi da fuoco, mortai, mine, lanciagranate, poiché la strategia delle potenze sembra essere passata in maniera definitiva da una logica di embargo- biocottaggio (cf. Sudafrica) ad una di riciclaggio/distruzione creativa].
Una coda sul ruolo legittimante delle organizzazioni internazionali. Abbiamo assistito alla ricerca più o meno ansiosa di un forum e di una configurazione di forze operative che fornissero il massimo di sostegno internazionale alla decisione di intervenire in Libia presa dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Di nuovo, si ripete uno scenario a cui gli ultimi anni di relazioni internazionali ci hanno abituato: le Potenze militarmente egemoni non si fidano dell'attrattiva internazionale dei propri convincimenti morali, e cercano la sanzione di un organo esterno, che presti autorevolezza alla loro conclusioni. Non essendo peraltro in grado (per definizione!) di trovare un forum che sia credibile perché terzo e al contempo costantemente allineato alle proprie posizioni, si trovano costrette a cercare la propria legittimazione secondo le circostanze, caso per caso, in luoghi e con modi diversi. Dal punto di vista teorico, possiamo osservare che, se legittimare è l'atto di giustificare l'acquiescenza a decisioni politiche già prese facendo appello ad una fonte di valore esterna, questo approccio ad hoc alla giustificazione dell'uso della forza internazionale non può che essere controproducente, self-defeating. Forse, tuttavia, questo è un modo troppo astratto di vedere le cose. In particolare, si sovrastima, in questo dibattito peraltro ben liso sulle fonti della normatività internazionale, il reale nesso fra decisione e giustificazione. La legittimità è un problema politicamente interessante quando l'ordine è garantito esclusivamente attraverso la cooperazione, che venendo a mancare lo fa crollare come un castello di carte, nel modo discusso in precedenza nel caso di uno Stato autoritario. Ma in un mondo in cui le differenze di potenza fra attori sono così radicali, la faccenda è ben diversa, e parlare di legittimità può iniziare ad apparire operazione oziosa e moraleggiante. Magari, quindi, è più istruttivo concepire il fine di questi costanti (seppur mal remunerati) sforzi per giustificare l'uso della forza, questi affannosi
tentativi di definire un 'noi', un'entità collettiva più credibile della somma delle parti che affermi la correttezza dell'applicazione delle norme internazionali, precisamente come l'affermazione di una comunanza, una soggettività che rechi come conseguenza non ultima quella di distinguersi radicalmente dal gruppo di coloro che, in potenza, un domani, si troveranno ad aver bisogno di un intervento. Si tratta, insomma, di affermarsi come coloro che dibattono il diritto internazionale, piuttosto che subirlo. Tuttavia, qualora si concluda che i dibattiti sull'uso della forza servano in definitiva a determinare chi realmente, in senso materiale, è un soggetto attivo e deliberante delle relazioni internazionali, e quindi non un possibile oggetto d'intervento, sarà altresì indispensabile ammettere che coloro i quali si comportano in maniera logicamente più conseguente (e al tempo stesso oggettivamente più destabilizzante per l'ordine costituito) sono le donne e gli uomini che, con mezzi di fortuna, fuggono guerre civili ed interventi umanitari per rifugiarsi nelle terre dove regna la democrazia liberale. Se i diritti umani sono davvero universali, piuttosto che aspettare che le nostre bombe esportino le nostre istituzioni e le nostre libertà oltremare, costoro pretendono di venirle a consumare direttamente alla fonte. Il trattamento che viene loro riservato quando e se finalmente vi giungono è, penso, la dimostrazione più chiara della funzione strutturale che gli Stati pseudo-sovrani ricoprono nella politica internazionale contemporanea.
31 marzo 2011 MFNG

Le profezie farlocche del signor Fukuyama

Mercoledì la Repubblica, per la firma di Federico Rampini, ospitava un'intervista a Francis Fukuyama, il guru del liberalismo negli anni '90, colui che già nel 1989, all'indomani della caduta del Muro, profetizzò, con grande sicurezza, la "fine della storia". Il capitalismo liberal-democratico, quello anglosassone ed in particolare americano, avevano vinto. Il socialismo reale era stato sconfitto, l'URSS sarebbe sparita nel giro di due anni e Fukuyama si fece cantore delle magnifiche sorti e progressive del mercato. Certo rimanevano sacche di resistenza - i cinesi, gli arabi - ma erano popoli fuori dalla storia, destinati a soccombere nell'era della globalizzazione a stelle e striscie. La situazione descritta da Fukuyama era abbastanza chiara, almeno ai suoi occhi: tutti i popoli vogliono libertà e prosperità, la democrazia americana è il miglior esempio di libertà, il mercato è l'unico strumento in grado di garantire la prosperità, di conseguenza tutto il mondo avrebbe deciso di intraprendere la strada del progresso, quella che, naturalmente, porta a Washington. D'altronde non era quello che stavano facendo i popoli dell'Europa dell'Est e dell'ex Unione Sovietica?
Ovviamente questi pensieri non sono rimasti confinati nelle pagine speranzose di Fukuyama, ma son diventati la linea guida della politica e dell'economia degli anni '90.
La superiorità del modello istituzionale americano è stata teorizzata dal Fondo Monetario Internazionale che ha cercato di trasformare in tante piccole Californie i paesi dell'Africa e del Sud-Est Asiatico, con risultati drammatici. L'apoteosi si è poi avuta con il concetto, purtroppo ancora di gran moda, che potessimo esportare la democrazia: visto che il nostro modello è migliore degli altri, e non esistono alternative, è giusto e morale "condividerlo" con i popoli del mondo. Anche contro il loro parere.
Nell'ultima decade però le cose per Fukuyama e i suoi adepti non sono andate benissimo. La Russia, il caso scuola che aveva così fortemente influenzato la genesi della fine della storia, non è diventata una liberal-democrazia, ma uno stato autoritario governato da politici corrotti in combutta con oligarchi spietati. L'odio anti-americano ha raggiunto livelli senza precedenti ed i paesi del Golfo sono diventate tante piccole polveriere pronte ad esplodere contro l'Occidente. E soprattutto, a Oriente, è emerso in maniera chiara e definitiva il gigante cinese, che ha ben poco di quei tratti liberal-democratici che Fukuyama immaginava come unico futuro possibile del mondo. Infine, la grande crisi finanziaria del 2007 ha messo in crisi non solo un sistema economico che genera diseguaglianze ma anche quel sistema politico occidentale che su di esso si è rimodellato.
Fukuyama, comunque, non molla la presa, gliene va dato atto. Dopo anni di parziali ritrattazioni e oscuramento mediatico, eccolo che ritorna alla carica, rilanciando a gran voce il suo modello. Con la solita sicurezza tipica del guru millenarista, Fukuyama proclama che aveva ragione lui, la storia è proprio finita nel 1989. Le rivolte arabe di questi ultimi mesi lo confermano in maniera evidente. Proprio quei paesi arabi che rappresentavano l'eccezione al trionfo della democrazia all'americana ora si sollevano...per diventare come noi. E non si ferma qui, il nostro eroe: «la prossima volta tocca ai cinesi». In fondo, se la storia è finita, che alternativa ci sarebbe? Fukuyama, nell'intervista a Rampini, cerca poi di allargare il suo discorso ed ammorbidirlo nei toni, anche se non nella sostanza. La democrazia può anche regredire, ci possono essere delle lunghe deviazioni nei percorsi della storia. Ma la meta è solo quella, la liberaldemocrazia. In fondo, la tesi dell'89 era che le contraddizioni dello sviluppo capitalista, da cui era nata l'alternativa socialista, si fossero risolte e questo viene rivendicato ancor'oggi da Fukuyama. Quello che non riesce a capire, o che forse non vuole vedere, è invece il fatto che quelle contraddizioni, in questi ultimi vent'anni, si sono esasperate. Che una parte del mondo è in rivolta non solo contro i dittatori oppressori, ma anche contro un sistema che usa quei dittatori per i propri interessi. Un sistema, quello Occidentale, americano ma non solo, che ha bisogno dello sfruttamento dei popoli del sud del mondo e che foraggia i regimi autoritari, dall'Arabia Saudita al Centro Africa. Fukuyama finge di ignorare che la sollevazione generale, in chiave veramente democratica, di quei popoli oppressi, comporterebbe lo scoppio delle contraddizioni economiche nei nostri più o meno democratici paesi che reggono le file del capitalismo globale. Paesi che vivono sulle spalle altrui e che hanno basato il proprio stile di vita sull'economia del debito che ha accompagnato la polarizzazione del reddito dell'ultimo trentennio. Fukuyama riconosce che anche gli Stati Uniti attraversano un momento difficile, ma non ha gli strumenti analitici necessari per capirne la natura. Si concentra sulla mancanza di soluzioni bipartisan, di riforme condivise (sembra di sentire parlare dell'Italia...). La realtà, invece, come già spiegava 150 anni fa Karl Marx, è che è proprio lo sviluppo capitalista a generare le condizioni del suo crollo. Altro che fine della storia.


di Nicola Melloni
su Liberazione del 01/04/2011


Intervista a Fukuyama
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/03/30/avevo-ragione-la-storia-finita-fukuyama-cosi.html