domenica 6 febbraio 2011

Referendum acqua pubblica: si parte!


di Marco Bersani
Con il deposito delle sentenze della Corte Costituzionale, i referendum per l’acqua sono ai blocchi di partenza. Due i quesiti ammessi sui quali l’intero popolo italiano sarà chiamato a votare e che insieme disegnano un quadro di radicale inversione di rotta rispetto alle politiche di privatizzazione del servizio idrico portate avanti senza soluzione di continuità in questi ultimi quindici anni. Abrogando il decreto Ronchi tornerà come riferimento normativo la dottrina europea, che permette da sempre la gestione pubblica del servizio idrico; e abrogando la remunerazione del capitale investito, ovvero i profitti sull’acqua, la gestione pubblica diverrà l’unica possibile.

Una grande battaglia di civiltà si apre dunque per le donne e gli uomini di questo Paese: riappropriarsi di un bene comune essenziale alla vita, gestirlo in forma partecipativa, conservarlo per le future generazioni. E scrivere una nuova pagina di democrazia, tanto necessaria alle persone, quanto svilita dai poteri forti dell’economia e della politica. La campagna referendaria parte facendo leva su quella che è da sempre la ricchezza del movimento per l’acqua: la partecipazione dal basso, reticolare, diffusa, condivisa.
A partire da ora e per tutti i mesi di febbraio e marzo, verrà lanciata la nuova scommessa del movimento per l’acqua: l’autofinanziamento partecipativo. Tutte le donne e gli uomini di questo paese, a partire dagli oltre 1,4 milioni che hanno firmato le richieste di referendum, potranno sottoscrivere una piccola o grande quota per finanziare la campagna referendaria, avendo la garanzia che, in caso di raggiungimento del quorum e conseguente rimborso elettorale, la cifra versata verrà interamente restituita ai cittadini: perché vogliamo cambiare la società, non costruire un partito o una nuova burocrazia.

Contemporaneamente, partirà la formazione partecipativa: verrà predisposto un kit con tutti gli strumenti e le informazioni necessarie, verranno promossi incontri al livello più decentrato possibile, per moltiplicare i formatori in tutti i territori e costruire un grande processo di autoeducazione collettiva. Mentre già si scaldano i motori per costruire una nuova e grandissima manifestazione nazionale a Roma: sarà sabato 26 marzo e diventerà la scadenza di lancio dell’ultima tappa di questa straordinaria esperienza, quella che porterà al voto nella prossima primavera, in una data ancora da definire fra il 15 aprile e il 15 giugno.
Sarà la manifestazione nazionale del popolo dell’acqua, ma verrà costruita assieme a tutti i movimenti per i beni comuni, alle reti studentesche e universitarie, al mondo del lavoro: un luogo di tutte e di tutti quelli che sanno che c’è un’altra uscita dalla crisi, basata sui beni comuni e la democrazia, e non sulla compressione dei diritti e la messa sul mercato dell’intera vita delle persone. La battaglia per l’acqua, nata nei territori, è riuscita nel tempo a divenire maggioranza culturale nel paese e ad irrompere nell’agenda politica. Oggi diventa concreta la possibilità di vincere e di invertire la rotta. Ciascuno faccia la sua parte, i piedi nel presente e il cuore nel futuro.

Lo smacco del Lingotto


L' amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti
di LUCIANO GALLINO
 
Gianni Agnelli NON si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell'automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d'origine.
Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L'Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili. Questo in un momento in cui l'industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.
Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer,
i tecnici che progettano i sistemi base di un'auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.
È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell'Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un'impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport.
Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n'è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall'Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all'auto deve tutto, ma che da una decina d'anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d'Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.
Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l'auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.

Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno. Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati.

Ma Torino e l'Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all'estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa deifinitiva