mercoledì 20 aprile 2011

La politica del debito


La scelta di Standard&Poor’s di rivedere al ribasso le prospettive sui titoli del debito USA è, dal punto di vista formale, un fatto di grande importanza in quanto le agenzie di rating internazionale certificano che i conti degli Stati Uniti sono in disordine e che, potenzialmente, i titoli di stato dell’economia più grande del mondo potrebbero divenire un investimento rischioso. In realtà, tutto questo lo si sapeva già da tempo. La prima reazione della Casa Bianca è stata di denunciare il giudizio di S&P come scelta politica ed indubbiamente lo è, come tutte le scelte delle agenzie di rating – erano fondamentalmente politiche le motivazioni che negli scorsi anni avevano evitato il declassamento del debito americano pure a fronte di una dinamica dei conti pubblici che in qualsiasi altro paese avrebbe portato ad ondate di panico e speculazione finanziaria.
Il giudizio è politico perchè si inserisce nel dibattito in corso tra Repubblicani e Democratici su come organizzare il sistema pubblico nei prossimi anni. I repubblicani sono partiti all’attacco con il cosiddetto piano Ryan che prevede tagli fiscali per i ricchi e la sostanziale privatizzazione di Medicare, sostituendo la copertura assicurativa pubblica con un sistema di voucher da spendere nel mercato privato. Come ormai sempre più spesso accade, le ricette proposte dai Repubblicani – checchè ne dica Alberto Alesina sul Corriere – non hanno nessuna consistenza economica. L’introduzione di voucher di per sè non diminuisce i costi pubblici, a meno che tali voucher non abbiano un valore inferiore alla copertura finora garantita, costringendo i cittadini (soprattutto gli anziani) ad integrare di tasca propria il valore inferiore. Il punto più dolente riguarda però i tagli fiscali che, secondo Ryan&C. dovrebbero far crescere l’economia e quindi rimettere in sesto i conti pubblici, una riproposizione di una delle più grandi bufale degli ultimi 30 anni, la curva di Laffer. Durante gli anni di Reagan furono abbassate le tasse ai ricchi sostenendo che sarebbe cresciuta l’imposta fiscale, ed invece il debito americano cominciò ad esplodere proprio in quegli anni. La riproposizione degli stessi tagli durante la presidenza di Bush jr ebbe esattamente gli stessi effetti, ed infatti l’ufficio budget del Congresso prevede che il piano Ryan, pur con i tagli sociali che accompagnerebbero le minori tasse, non inciderebbe su deficit e debito.
Di fronte a questo piano Obama ha abbozzato. Prima ha accettato un piano provvisorio per i prossimi mesi per evitare la chiusura degli uffici pubblici che ricalcava il progetto repubblicano. Poi ha avanzato le sue proposte per il piano definitivo, all’insegna della coesione sociale ed apparentemente in chiara opposizione con la destra liberista. Il problema è che il piano definitivo sarà una decisione bipartisan presa da una commissione in cui repubblicani e democratici devono trovare un punto d’incontro. S&P, con il suo outlook negativo, ha dunque mandato un chiaro segnale politico: non crediamo molto alla possibilità di accordo, ma è indispensabile raggiungerlo o le conseguenze saranno catastrofiche.
In realtà le cose sono ben più complesse. Gli interessi pagati sul debito pubblico americano sono ancora molto bassi (il mercato quindi non mette in conto un rischio default, al contrario di quel che succede in Portogallo o Grecia) e quindi questa urgenza sul debito, problema che pure esiste, sembra malposta. I repubblicani usano il problema delle finanze dello stato federale per portare avanti la loro battaglia di classe, tagli ai poveri, soldi ai ricchi, quello che hanno fatto negli ultimi 30 anni e che è la causa ultima del dissesto dei conti pubblici. Obama dovrebbe invece occuparsi dei problemi concreti dell’economia americana, mettere in moto un sistema virtuoso che eviti il ripetersi della crisi. Da una parte bisogna riequilibrare la distribuzione del reddito, dall’altra dare solide basi per la crescita economica che al momento è debole e non porta alla riduzione della disoccupazione. Tagliare gli investimenti pubblici avrebbe un effetto recessivo, mentre diminuire le tasse per i ricchi non garantirebbe maggiori investimenti privati. Obama ha bisogno di riacquistare una visione politica dei problemi, quella visione che gli aveva garantito l’elezione alla Casa Bianca ma che sembra aver smarrito immediatamente dopo. Perdere quest’ultima opportunità sull’altare dei compromessi sancirebbe la sua definitiva sconfitta ed un futuro assai fosco per il capitalismo americano.

Nicola Melloni 
(Liberazione)