venerdì 11 febbraio 2011

una risposta a porro...

e all'ignoranza sovrana in economia - o forse alla disinformazione che i servi del padrone spargono in tv.

Ieri sera ad Anno Zero, il corrispondente economico del Giornale Nicola Porro sosteneva che leggendo i dati della banca d'italia ed in particolare l'indice Gini tutta la popolazione in Italia era diventata piu' povera e non solo la parte piu' debole della popolazione. Come suo solito, lo sosteneva con una straffottenza degno di miglior causa.
Porro si vanta di sapere di economia, ma non sa nulla. Dall'indice Gini non si puo' stabilire se tutta la popolazione sia diventata piu' povera o meno. L'indice Gini e' un indice di distribuzione non di crescita. Peccato che nessuno gliel'abbia ricordato, ieri sera. Bisognerebbe davvero studiare un poco di piu'. Questo indice Gini dice che il decile piu' ricco della popolazione e' diventato piu' ricco negli ultimi 30 anni, a discapito del resto della popolazione. O meglio, che si appropria di una parte maggiore del reddito nazionale. Il che vuol dire naturalmente che se il reddito nazionlE e' in calo, come in questi ultimi anni, e' certo possibile che tutti siano diventati piu' poveri, ma proporzionalmente i piu' poveri sono piu' poveri di prima prendendo una parte minore di un reddito nazionale in calo.
Dunque Porro ha sbagliato indice ma ha ragione nella sostanza? Non e' vero neanche questo! L'Italia e' stata in recessione per 2 anni circa, ma negli ultimi 30 anni e' cresciuta, seppur a ritmi letargici. In questi 30 anni, i ricchi sono diventati ancora piu' ricchi. Quindi concentrarsi solo su 2 anni e' una operazione mediatica di grande squallore intellettuale. La realta' e' che in una economia che in queste decadi e' cresciuta poco ma pur sempre cresciuta esiste una parte consistente della popolazione che e' piu' povera in termini assoluti di 30 anni fa, perche' i ricchi si sono presi tutto.
Il tutto alla faccia di quell'ignorante di Porro che da' la cifra della serieta' di analisi del Giornale...

Nicola

Intervista a Rinaldini: «Situazione eccezionale. Se non ora, quando?»

Accordi separati a raffica, scioperi di categoria, offensiva governativa-padronale. La Cgil che fa? Parla Gianni Rinaldini, coordinatore dell'area «La Cgil che vogliamo».

di ROCCO DI MICHELE - IL MANIFESTO del 11 FEBBRAIO 2011
Ti sembra tutto normale?
È evidente che siamo in una fase assolutamente eccezionale, con passaggi decisivi per il futuro di questo paese. Il susseguirsi delle vicende sociali è impressionante. L'annuncio di ieri, da parte del governo, della modifica dell'art. 41 - quindi nella prima parte della Costituzione - per affermare la libertà di impresa, rappresenta il completamento di un disegno di ridefinizione dell'assetto sociale.

«È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato...»
Calcolando che eliminerebbero pure il capoverso sui «fini sociali» che l'impresa deve rispettare... È sbagliato e fuorviante ritenere che questo tentativo rappresenti un intervento inutile o un modo per fare propaganda politica. Penso esattamente l'opposto. Attraverso la modifica dell'art. 41 si ripropone quella dell'art. 1; sostituendo la parola «lavoro» con «libertà».

La reazione politica è scarsa; quella sindacale?
Siamo di fronte al completamento di un'operazione visibile, scoperta. Dal punto di vista contrattuale, il «modello Fiat» - di fatto e in pratica - è stato assunto da Confindustria. Fino al punto che Federmeccanica ha formulato alcune ipotesi sul contratto nazionale che fanno proprio quel modello. Si arriva alla messa in discussione dei diritti democratici individuali, della libertà sindacale e del diritto di sciopero. Negli stessi giorni, abbiamo avuto l'accordo separato sul pubblico impiego, che ripropone quello schema. Con in più la negazione di qualsiasi prospettiva per i lavoratori precari della pubblica amministrazione nel suo insieme. Le misure finanziarie decisa dal governo stanno già determinando - con l'aggravio delle misure «federaluiste» - la riduzione dei servizi sociali e l'aumento della pressione fiscale.

E il «tavolo per la crescita»?
A questo punto, è un tavolo del tutto incomprensibile. Tutto ciò che sta avvenendo - in questi due anni e mezzo di smantellamento di diritti e tutele, ora della stessa democrazia - non sarebbe stato possibile senza il totale sostegno di Confindustria, Cisl e Uil. Tutte le misure attuate da questo governo, con una finalizzazione sociale precisa, si sono sviluppate in un raccordo tra atti legislativi e atti contrattuali - «accordi separati» - che hanno segnato profondamente il tentativo di ridefinire le relazioni sociali. Basti pensare al «collegato lavoro», un atto legislativo varato sulla base di un «avviso comune» tra Confindustria, Cisl e Uil.

Uno schema abbastanza vecchio, quello «corporativo»...
Sì. Non si può far finta di non vedere e non capire l'assoluta drammaticità della situazione e dell'offensiva in atto.

La Cgil invita la Fiom a «non demordere» dal tentativo di raggiungere un accordo con Fim e Uilm; si mostra all'altezza della situazione?
Mi sembra ci sia stata un'assemblea dei delegati Fiom che ha votato un documento con decisioni diverse. Se l'offensiva contro la democrazia e il sindacato è a tutto campo, non si possono più avere incertezze. Ci sono fasi della storia sindacale in cui anche i tempi di reazione e costruzione delle risposte diventano decisive. Dal punto di vista simbolico, ieri, c'è stata un'intervista del segretario generale Susanna Camusso che ripropone il «patto tra le forze sociali»; e contemporaneamente un viaggio in treno tra «amiconi» - Angeletti, Tremonti, Bonanni. È la fotografia di una situazione paradossale. Da qui la necessità che la Cgil, con il direttivo annunciato per le prossime settimane, definisca quali sono le forme di inziativa e mobilitazione - compreso lo sciopero generale - che aprano una fase vertenziale nei confronti del governo e della Confindustria.

Cosa fa la «Cgil che vogliamo»?
Ci muoveremo per costruire iniziative pubbliche nei territori e nelle categorie, per affrontare i problemi della fase che stiamo affrontando e le iniziative che deve prendere la Cgil nel suo insieme. La velocità del processo di smantellamento dei diritti, che arriva ormai a una situazione di crisi istituzionale, compromettendo la stessa tenuta degli assetti democratici, non è scindibile dall'offensiva in atto sul terreno sociale. Disegna un'idea di società che riduce tutti gli spazi di democrazia e di esercizio del coflitto sociale.

L'ITALIA, FABBRICA CACCIAVITE DELLA FIAT

Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà.
Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più. Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.
E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini dell'obiettivo imposto da Obama.
L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...
Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.
Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti gli interessati.
C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata. Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi - il baratro è alle porte.
(Guido Viale, Il Manifesto 10/02/2001)