giovedì 22 settembre 2011

Una terra con un popolo per un popolo senza Stato
la Palestina all'ONU, istruzioni per l'uso
Di Simone Giovetti

Il fatto
Il prossimo 23 settembre Mahmud Abbas, presidente dell'Olp e dell'Autorità Palestinese, chiederà al Consiglio di Sicurezza dell'ONU il riconoscimento della Palestina come Paese indipendente e come Stato membro, con pieni diritti e doveri. Si apre così, con un gesto politico forte, il vaso di Pandora degli equilibri geopolitici di tutto il Medio Oriente. Potrà quest’azione  contrastare la politica dello status quo che da sempre domina la Regione?

La richiesta di riconoscimento presso l'ONU e i suoi meccanismi
La decisione finale sull’ammissione della Palestina alle Nazioni Unite spetta al Consiglio di Sicurezza e dunque, visti i datati meccanismi che regolano il palazzo di vetro, il già annunciato veto che opporranno gli Stati Uniti sarà sufficiente ad impedire l'entrata della Palestina all’ONU. La forza effettiva di questo veto potrebbe però essere simbolicamente bilanciata da un eventuale voto favorevole della Russia e soprattutto della Francia. Un voto francese favorevole potrebbe avere ripercussioni di peso in Europa, sulla sua reticente posizione in merito alla questione; marcherebbe una rottura importante e rilancerebbe le speranze di una "politica europea nuova" in direzione del mondo arabo. Anche se l’ammissione all’ONU non fosse possibile, l’autorità palestinese potrebbe comunque ottenere il riconoscimento bilaterale (Stato a Stato) della Palestina, com è successo per il Kosovo o per Taiwan, riconosciute come Stati ma, per ragioni geopolitiche non come membri dell’ONU. Questo tipo di riconoscimento, molto più importante perché ridefinisce in modo radicale le relazioni diplomatiche tra due Paesi, fa parte di una seconda fase del progetto; un percorso già cominciato dall’Autorità Palestinese verso i singoli Stati della comunità internazionale, soprattutto quelli della vecchia Europa che restano paradossalmente tra i più reticenti insieme agli USA. Ovviamente il riconoscimento della Palestina come paese indipendente da parte dell’Assemblea Generale rafforzerebbe la traiettoria di tale processo.

Il voto in Assemblea Generale si limiterà quindi a riconoscere la Palestina come Stato Osservatore presso l'ONU e non come membro "a pieno titolo" di tale organismo sebbe questo atto non abbia n  il valore di un riconoscimento esplicito dello Stato palestinese ai fini della sua esistenza formale. 



Ci si potrebbe chiedere se la Palestina disponga o no dei requisiti necessari per essere uno Stato. La risposta non è semplice: da un lato l’Autorità Nazionale Palestinese ha potuto dimostrare la sua completa capacità di rendere operative le istituzioni di un futuro Stato (sicurezza interna, trasparenza delle finanze, viabilità economica…); dall'altro, l’occupazione d’Israele sta privando la Palestina di un controllo delle proprie frontiere, impedendo per esempio sia la libertà di circolazione di merci e persone all’interno dei territori palestinesi, sia la facoltà della Palestina di disporre di un esercito (entrambi requisiti che contribuiscono a determinare cosa sia uno Stato). Sulla base di tali considerazioni, il quid della questione è: se Israele si ritirasse sulle frontiere del ‘67 e lasciasse la Palestina libera di gestire il suo destino, questo Stato diventerebbe o meno pienamente sovrano? L'esempio del Kosovo dimostra che uno Stato può anche esistere ed essere riconosciuto senza che ciò rappresenti una prova reale della sua capacità di funzionare in modo autonomo; si tratta insomma di una questione puramente politica, di una scelta motivata da interessi.

L'ammissione tra i membri a pieno titolo dell'ONU dimostrerebbe sicuramente l'esistenza di uno Stato palestinese; anche il riconoscimento della Palestina da parte di quasi tutti i Paesi del mondo avrebbe lo stesso effetto, rendendo a quel punto vacuo, cioè privo di significato, di conseguenze effettive, il veto americano inteso ad impedire il riconoscimento di una realtà di fatto. Tale realtà di fatto corrisponde al diritto inalienabile del popolo palestinese ad autogestirsi sul territorio riconosciutogli dalla comunità internazionale, un diritto accettato dalla quasi totalità delle nazioni del mondo.

Il riconoscimento pubblico in Assemblea Generale è dunque importante per i palestinesi, perché a fronte di un voto di oltre i due terzi dei paesi del mondo, molti altri paesi che ancora dubitano sul da farsi, avranno un motivo in più o qualche problema politico in meno nel riconoscere la Palestina. Non per niente quasi tutti quelli che voteranno a favore hanno promesso che seguirà il riconoscimento. Il riconoscimento massiccio della Palestina all’Assemblea Generale potrebbe dunque incoraggiare altri Stati più reticenti.


La posizione della Palestina nel discorso del Presidente Abbas ed il futuro dell'Autorità Palestinese
In un discorso molto attento a riconoscere la legittimità d’Israele, in cui dichiara di non volere isolare Israele ma le sue politiche, il presidente Abbas e la Palestina provano ad uscire definitivamente dalla trappola, vecchia di 18 anni, che rappresentavano gli accordi di Oslo. Gli accordi di Oslo hanno permesso all’OLP e a all’Autorità Palestinese (AP) di rientrare dall’esilio di Tunisi e d’installarsi in Palestina ma non in uno Stato. L’AP è rientrata in patria con un’autonomia limitata su una piccolissima porzione di territorio. I territori palestinesi sono stati divisi in tre zone A, B,C. La zona A, che include le principali città dove risiede la maggior parte dei palestinesi, è passata sotto il controllo dell’AP, mentre le altre (zone B, e C), le più fertili e strategiche, sotto controllo totale d’Israele che col passare degli anni le ha progressivamente annesse o occupate. Nella zona B, la sicurezza militare è nelle mani d’Israele mentre l’autorità amministrativa spetta ai palestinesi; nella zona C vige il totale controllo d’Israele, che continua ad occuparla militarmente e con le proprie colonie. Con gli accordi di Oslo le responsabilità internazionali d’Israele come potenza occupante sono dunque state passate di fatto ai palestinesi mentre il controllo del Territorio è rimasto nelle mani di Israele a costi ridotti, perché condivisi con la communità internazionale che, per appoggiare il processo di pace si é assunta la responsabilità economica dei palestinesi. La Palestina è passata di fatto sotto la tutela economica della comunità cnternazionale (Europa e USA) mentre la prospettiva politica della costruzione di uno Stato è stata prorogata all'infinito.
Abbas invita oggi i palestinesi a non cedere alla tentazione della violenza ma rivendica tutta la portata del bagaglio politico dell'OLP: uno Stato palestinese senza limitazioni di sovranità, all'interno delle frontiere stabilite dall'armistizio del 1967, con Gerusalemme Est come capitale ed il diritto dei rifugiati a ritornare. I sondaggi indicano che sono tra il 60% e l'80% i palestinesi che appoggiano il tentativo di riconoscimento all'Onu.


Quali alternative o altre azioni potrebbero essere prese in caso di un rifiuto del Consiglio di sicurezza?
Da qualche tempo aleggia sulla Palestina un’ipotesi non del tutto avventata, nonostante rappresenti una scelta estrema: l'Autorità Palestinese potrebbe decidere di andare in esilio, abbandonando completamente i propri territori occupati alla  gestione di Israele. Di tale gestione, militare, politica ed economica, gli israeliani non potrebbero mantenere i costi ma vi sarebbero obbligati dal diritto internazionale. In qualità di potenza occupante, la giurisdizione umanitaria prevede per il governo di Israele diritti e doveri ben definiti, tra i quali il divieto di imporre punizioni collettive e di costruire insediamenti. Gli accordi di Oslo non hanno modificato la situazione, come ribadito il 7 ottobre 2000 dal Consiglio di Sicurezza, che ha definito Israele “potenza occupante tenuta ad attenersi scrupolosamente ai propri doveri e alle proprie responsabilità secondo la Quarta Convenzione di Ginevra”. Questa opzione potrebbe essere valida anche se lo Stato palestinese fosse riconosciuto dall'Onu ma sul terreno continuasse di fatto l’occupazione.


La situazione della Palestina occupata
Più di 500.000 coloni sparpagliati nella West Bank e a Gerusalemme est paralizzano di fatto ogni tentativo serio di arrivare ad un compromesso accettabile, un accordo di pace. Ma su questo punto il governo israeliano non sembra disposto ad alcun compromesso e l’occupazione non si ferma; anzi, non ha fatto che aumentare, dagli accordi di Oslo in poi.
Nel testo che Tony Blair, delegato del quartetto (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu) ha fatto giungere ad Abbas nei giorni scorsi, nel tentativo di disinnescare la richiesta all'Onu e riaprire la via del negoziato, non si menziona la paralizzazione della costruzione di colonie israeliane nei territori occupati, che continua imperterrita. Non c'è il minimo accenno, nel testo, alle colonie; solo un vago riferimento a “cambiamenti demografici”. Obbligare Obama ad assumersi agli occhi del mondo la responsabilità delle conseguenze  del suo veto e, in sostanza, di una politica incoerente non solo verso la Palestina ma in tutto il Medio Oriente, sarebbe un grossissimo rischio per i palestinesi, destinati senz'altro a subire sia il taglio degli aiuti americani che una feroce rappresaglia israeliana.


Le posizioni del resto del mondo
Gli Stati Uniti eserciteranno il loro diritto di veto presso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha definito addirittura “controproducente” il gesto di Abbas. Una parte dell’Europa segue a ruota le posizioni americane. L'Unione Europea, preoccupata di non presentarsi divisa alla votazione dell'Assemblea Generale, chiede ad Abbas di accettare per il momento il non riconoscimento bilaterale delle relazioni diplomatiche e di impegnarsi a riprendere quanto prima i negoziati con Israele. Tra gli Stati più reticenti troviamo la Germania, l'Italia ed il Regno Unito, mentre la Spagna si è espressa pubblicamente a favore del riconoscimento dello Stato palestinese. La Francia potrebbe optare per un riconoscimento bilaterale, essendo impegnata da mesi in una campagna di pressione su Israele, anche in funzione del peso che l'elettorato arabo ha attualmente sul suo territorio e soprattuto della recente “campagna d’Africa “ francese in Libia.
Perchè Israele e gli Stati Uniti non vogliono il riconoscimento dello stato di Palestina, nonostante l'amministrazione USA abbia sempre detto di volere due stati e nonostante Israele abbia sempre detto di essere pronto a vivere in pace accanto a uno stato palestinese? Perché i paesi dell'UE, che a più riprese hanno accusato Israele di sabotare il processo di pace e hanno espresso condanne per le aggressioni al Libano e Gaza, dovrebbero accodarsi?
Perché, se si deve arrivare a "due stati per due popoli", il riconoscimento del secondo stato è  etichettato come un problema o addirittura una minaccia alla pace o alla sicurezza dell'area? Perché se lo stato palestinese è già previsto e accettato da Israele con gli accordi di Oslo e da molte risoluzioni dell'ONU, il suo riconoscimento è presentato come uno scandalo una minaccia? Perché Israele strilla all'attacco nei suoi confronti? Cosa teme Israele dal riconoscimento di uno stato palestinese? Perché l'esercizio di un diritto da parte dei palestinesi viene tradotto in un atto di guerra?
Il motivo si ritrova ad esempio nelle parole di Eviatar Manor, che, in un telegramma ad ambasciatori e rappresentanti israeliani, consiglia di:

"... avvertire gli interlocutori che dare ai palestinesi lo status di paese osservatore, permetterà loro anche di associarsi ad organizzazioni internazionali e firmare convenzioni internazionali, che potrebbero usare per censurare Israele in diversi consessi, come al Tribunale Penale Internazionale de L'AJA ( The Hague, Den Haag). Potrebbero anche usare il nuovo status per imporre misure di sovranità nella West Bank.

Non c'è un solo motivo per il quale i fautori della soluzione dei due stati possano vedere una minaccia nella proclamazione dello stato palestinese, almeno in teoria. Ce ne sono invece parecchi se il riconoscimento di uno stato palestinese determina (come determinerà) un drastico cambiamento dello scenario legale, che fino ad ora ha consentito nella sua (relativa) incertezza di proseguire con la colonizzazione della West Bank e di Gerusalemme Est e di avere mano libera nei confronti dei palestinesi, per lo più appellandosi ai sofismi e alla protezione americana per affossare il processo di pace e scatenare utili rappresaglie

L'isteria che scuote Israele non è quella di chi vede minacciata la propria esistenza, ma quella di chi vede messi a rischio una serie di privilegi sui quali si è fondata la sua politica negli ultimi anni. È la paura di finire sul banco degli imputati che impedisce ad Israele di unirsi agli altri paesi nel riconoscere esplicitamente la Palestina e votare per la sua ammissione all'ONU. La paura di chi trova limiti improvvisi alla propria onnipotenza nei confronti dei palestinesi e non sa bene cosa fare, perché non ha mai avuto un "piano B" e perché l'impunità di cui da anni gode, ha creato un'incredibile arroganza e la presunzione che tale situazione di privilegio fosse destinata a durare in eterno.

Con un riconoscimento dello Stato palestinese cadrebbero le premesse tecnico-legali del perpetuarsi dell'oppressione israeliana. La Palestina apparirebbe agli occhi del mondo con i diritti di uno Stato, una nazione riconosciuta nei confini del '67, quelli che in tutta evidenza i governi israeliani hanno rifiutato, dimostrando con i fatti di volere un'Israele più grande a spese dei palestinesi.

Ad Israele piace definirsi come l'unica democrazia del Medio Oriente. Ed è difficile credere che Netanyahu, che continua ad approvare la creazione di nuove colonie nei territori palestinesi occupati, possa seriamente riaprire la via dei negoziati e rinunciare all'appoggio dei propri elettori a favore di un dialogo inter pares con la Palestina. Mantenere una società militarista con la scusa di difendere la propria sicurezza da chi in realtà è stato soggiogato da tempo, obbliga ad applicare controlli sociali strettissimi, che riducono ai minimi termini i diritti individuali. E quindi ad Israele non resta che passare come sempre all'attacco e dichiarare che se l'ONU riconosce l'esistenza dello Stato palestinese gli accordi di Oslo, il processo di pace e la stessa Autorità Palestinese perderanno ogni valore. In forte conflitto diplomatico con la Turchia, l'Egitto e la Giordania e vittima del suo stesso affanno di sicurezza, Israele inizia a pagare i costi sociali della propria “teocrazia” militarizzata. Israele vuole essere uno stato democratico per tutti i suoi cittadini o uno stato solo per il popolo ebraico? L' attuale governo sembra avere le idee chiare in proposito, giacché il suo ministro degli esteri ha più volte annunciato il suo desiderio di espellere il milione di arabi israeliani cittadini d’Israele. E non sono un caso le tensioni sociali che stanno emergendo  con forza in uno Stato con un'economia in buona crescita ma  con un divario sempre più profondo tra ricchi e poveri, dove tutto è stato  privatizzato e per una grande maggioranza di  cittadini la sanità e l'educazione sono diventati beni di lusso. Se da domani Israele non avesse più nulla da temere da parte dei palestinesi e dal mondo arabo in generale, trasformare lo Stato isreaeliano, attrezzato per la guerra permamente, in un paese normale, significherebbe imponenti cambiamenti nell'economia e nell'assetto politico e sociale del Paese.


Le conclusioni
I tempi sono maturi per il riconoscimento ufficiale del diritto inalienabile di un popolo, quello di vivere nella propria terra e di organizzarsi in uno Stato. Frustrare questa legittima aspirazione equivarrebbe a dichiarare la vacuità di tutto il sistema su cui si basa il mondo occidentale, e del diritto internazionale in prima istanza.
La Palestina ha scelto la via del diritto e delle istituzioni internazionali per difendere le proprie prerogative e la propria esistenza, per attirare l'attenzione internazionale la sua agonia, il suo essere inerme e in balìa dell'occupante e dei suoi alleati. Non c'è niente di criticabile in questo, non c'è nessuna minaccia nell'affermare il proprio diritto ad essere riconosciuta come Stato e non c'è nessun motivo valido, che non sia l'interesse israeliano sopra ricordato, a sconsigliarlo.


Infine, un veto alla Palestina favorirà la prospettiva di pace con Israele e in Medio Oriente più del riconoscimento di uno Stato palestinese?
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Restiamo umani?
la testimonianza di Silvia


Restiamo Umani - Stay Human

"Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere. Credo che apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana".

"I do not believe in borders, in barriers, in flags. I think that we all belong, independently of latitude and longitude, to the same family, the human family".

Vittorio Arrigoni, Besana Brianza 4/2/1975 - Gaza Strip 14/4/2011
Atterro al famigerato aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv un pomeriggio di febbraio 2008. La responsabile della ONG con cui sto andando a fare uno stage mi ha istruito perfettamente su cosa devo dire al controllo passaporti. Innanzi tutto, non devo assolutamente dire che sto andando a fare del volontariato in Palestina. È per questo che mi ha preparato una lettera dove si dice che ho un incarico per studi di fattibilità per progetti di sviluppo nella West Bank. Agli israeliani non piace sentirsi dire che stai andando ad aiutare i palestinesi gratuitamente. Non devo poi neanche dire che sono diretta a Ramallah una volta uscita dall’aeroporto, ma che andrò a Gerusalemme dove vivrò e lavorerò. E soprattutto che non mi salti in mente di dire che le due cooperanti che lavorano là mi sono venute a prendere altrimenti anche loro rischiano un interrogatorio! Con me ho anche una lettera della delegazione della Commissione Europea nei Territori Palestinesi occupati che invita i controlli di sicurezza aeroportuali (leggi ventenni più o meno convinti di quello che stanno facendo nei tre anni del loro servizio militare) a facilitare il mio ingresso in Israele più una copia della registrazione ufficiale in Israele della ONG. Così equipaggiata non mi sembra proprio di essere atterrata sul suolo dell’unica democrazia in medio oriente. La stessa sensazione di disagio che provo da subito appena atterrata la proverò ogni volta che mi troverò in territorio israeliano durante i tre mesi della mia permanenza.

Nel tragitto dall’aeroporto a Ramallah passiamo attraverso i paesaggi occidentali di Israele per arrivare poi a quelli medio orientali della Palestina. Subito mi stupisco di come mi senta più a mio agio in una realtà (apparentemente) diversa da quella a cui sono sempre stata abituata. E subito realizzo anche che la Palestina è molto diversa da quello che mi immaginavo: non è un paese in via di sviluppo. Le settimane successive mi faranno poi capire che la cooperazione allo sviluppo in Palestina non ha senso. Questo è un territorio sotto occupazione e la soluzione dei suoi problemi, anche quelli a prima vista legati alle dinamiche del sottosviluppo come l’assenza di infrastrutture mediche, è solo ed esclusivamente politica. Non mancano le capacità tecniche ai medici e agli architetti palestinesi, molti dei quali hanno studiato in Italia e parlano italiano molto meglio di quanto parlino inglese; quello che manca loro sono le apparecchiature con cui lavorare perché Israele ne controlla e limita l’entrata che è possibile solo attraverso progetti di sviluppo internazionali.

Quella stessa sera andiamo al supermercato di Ramallah, vendono la pasta Barilla e il caffè Lavazza (come del resto in ogni piccolo alimentari in centro), non è decisamente un paese in via di sviluppo e io mi sento a casa (ma ancora di più mi sentirò a casa quando in un supermercato di Hebron troverò il Grana Padano e nella nuova zona commerciale di Ramallah che stanno finendo di costruire mi imbatterò nell’immancabile United Colors of Benetton).
Indubbiamente quella palestinese è una realtà diversa da quella occidentale entro cui ho vissuto tutta la mia vita fino a questo momento, ma qui sento una familiarità che nelle strade della moderna Tel Aviv non riesco a sentire. C’è qualcosa di surreale in quelle strade. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Bocche che parlano lingue occidentali, francese, inglese americano con la perfezione del madrelingua. Sono Ebrei che hanno fatto l’Alyia, che è la pratica di immigrare nello stato d’Israele e prenderne la nazionalità. La perfezione con cui parlano la loro lingua madre rivela la loro estraneità a questa terra. Pezzi di occidente incollati in medio oriente. Israeliani nati a New York da genitori a loro volta nati a New York che non hanno un solo singolo parente sul territorio israeliano. E allora tutte le volte che mi trovo in Israele e sono circondata da occidentali che fanno le cose che facciamo noi occidentali, come bere vino e andare in discoteca, mi sento come se fossi su Marte e anni luce lontana da casa.

Poi per fortuna ritorno tra le case bianche fatte a scatola di Ramallah, tutte con le parabole sui tetti per prendere tutti i canali televisivi possibili e immaginabili, un modo per ingannare l’occupazione. Le case bianche e la polvere delle strade di Palestina. Quando gli amici dall’Europa mi contattano su skype o su Facebook e mi chiedono come sia la Palestina, rispondo sempre “ondulata, polverosa e profumata”. E sarà questo che mi porterò a casa al mio rientro in Italia, insieme alle immagini dei checkpoint e dei palestinesi costretti a scendere dall’autobus per attraversare a piedi i controlli mentre io, internazionale, posso rimanere seduta. Insieme ai racconti dell’assedio del
2002 e alle immagini delle scuole di Yatta, nel distretto di Hebron, che non hanno computer e il cui laboratorio di scienze sta dentro ad un piccolo armadio, insieme a questi racconti e immagini mi porterò a casa l’odore dello zaatar e scarpe impolverate (che mia madre poi mi costringerà a buttare via perché, dirà lei, impresentabili). E ancora, insieme alle fotografie scattate nella città vecchia di Hebron dove una manciata di coloni israeliani getta pietre e immondizia varia sui commercianti palestinesi costringendoli a chiudere le proprie attività, insieme a queste fotografie e all’incontro con un colono di non più di dieci anni che, indicandomi un cimitero, mi dice che là ci sono gli arabi buoni, insieme a questo mi porterò a casa la sensazione di pace che l’ondulato paesaggio palestinese sa regalare. Insieme alle fotografie dei bambini del campo profughi Al Amari alle porte di Ramallah che dormono in salotto perché le camere da letto sono per i fratelli maggiori e le loro mogli e figli, mi porterò a casa l’odore del tè alla salvia che le loro mamme mi offrono quando vado a far loro visita per aggiornare le schede dei bambini e mandarle poi ai donatori in Italia.


Mi porterò a casa l’immagine di un popolo che ha imparato a condurre una vita normale anche se deve passare attraverso un checkpoint per andare a pregare in moschea. Mi porterò a casa un misto di odori che diverranno per me il “profumo della Palestina” anche se so che è il profumo di tutto il medio oriente, ma che per me sarà sempre il “profumo della Palestina” e che oggi, di tanto in tanto, vado a respirare al supermercato mediorientale di Edgware Road in centro a Londra. E soprattutto mi porterò a casa due convinzioni nuove, la prima che è facile fare i pacifisti stando in Europa e che la vera impresa è, invece, tornare da quella terra e continuare a credere nella non violenza, la seconda che la parola equidistanza non ha nessun valore, nessun diritto di esistere nella “questione” israelo-palestinese.

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Dunque..... shock therapy, all over again.
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"If you can do it (staff cuts) up front, you get over it much more quickly. Whether society can support that is a different issue. Our experience is that...leggi tutto l'articolo

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