venerdì 22 aprile 2011

Cuba, la scommessa di un cambiamento nella continuità

di Nicola Melloni da "Liberazione" del 21/04/2011

Il VI congresso del Partito comunista cubano ha riportato la più grande isola dei Caraibi al centro delle cronache dei nostri giornali. E' stato il Congresso in cui Fidel ha rinunciato formalmente a tutte le sue cariche politiche e quello dell'apertura a riforme economiche in cui alcuni elementi di mercato vengono introdotti.
Si tratta senza dubbio di una retromarcia rispetto alla politica del passato, che viene descritta come l'ammissione dell'incapacità del socialismo di sopravvivere nel mondo globalizzato. Il discorso in realtà è più complesso. Negli ultimi vent'anni quasi tutte le vecchie economie di piano sono state smantellate, da quella sovietica a quella cinese. I risultati delle riforme in quei due paesi sono stati però assai diversi. La Cina ha aperto ai capitali stranieri, ha gradualmente ridotto il controllo sui prezzi, ha adeguato la struttura produttiva alle domande del mercato. Questo però non vuol dire che lo stato abbia perso il suo ruolo economico che anzi, seppur ridimensionato, ne è uscito rafforzato: politica industriale attiva e coerente, intervento pubblico nella determinazione dei tassi d'interesse e di cambio, mantenimento di un vastissimo settore statale nelle grandi industrie che, pur in parte inefficiente, ha mantenuto alti i livelli occupazionali e ha permesso un controllo dello stato a monte su prezzi e prodotti strategici per lo sviluppo economico. La privatizzazione di massa non è avvenuta, l'industria rurale, vero motore della crescita cinese, è caratterizzata da diritti di proprietà collettivi a livello di villaggio. Gli investimenti stranieri sono stati accolte a braccia aperte, è vero, ma senza mai permettere il controllo delle industrie che rimangono sempre a maggioranza cinese. Tali riforme sono state per anni considerate parziali, incomplete e foriere di problemi strutturali - ogni limite posto al mercato è considerato un errore - salvo poi scoprire che la Cina è divenuta la seconda economia mondiale ed è uscita indenne dalla crisi finanziaria asiatica del 97 e da quella occidentale del 2007-08. In Russia, invece, le riforme economiche - liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione - hanno portato alla catastrofe economica, il Pil si è dimezzato nei primi sette anni di transizione e una classe di oligarchi ha assunto il controllo politico ed economico del paese.

Cuba, nei suoi nuovi indirizzi di politica economica deve tenere naturalmente conto di queste esperienze. L'introduzione di alcuni elementi di mercato non è di per sé un abbandono del socialismo, d'altronde già Lenin nel 1924 introdusse la Nep aprendo l'Unione Sovietica a capitali nazionali ed esteri pur mantenendo il controllo sulle leve economiche. Cuba si trova in una situazione in qualche maniera paragonabile alla Cina degli anni 70 e all'Urss di Lenin, con un grave problema di mancanza di capitali da investire, con una economia ancora sottosviluppata e fortemente agricola - il vero fallimento di cinquant'anni di socialismo, solo parzialmente giustificata dal bloqueo. Inoltre la leadership della generazione rivoluzionaria si sta ormai esaurendo per limiti anagrafici e la nuova classe dirigente, come nella Cina post Mao e Deng ha bisogno di crearsi una nuova legittimità basata soprattutto sui risultati economici.

Ammettere gli investimenti esteri è dunque una mossa adeguata per sopperire alla mancanza di capitali e rilanciare la crescita. Naturalmente è una mossa rischiosa, sappiamo benissimo che l'influenza dei capitali internazionali può sovvertire regimi politici e creare vari problemi economici, e lo è ancor di più a Cuba, assediata dagli Stati Uniti e dai gruppi reazionari di Miami che trasformerebbero l'isola in un bordello americano. La lezione cinese, dunque, è particolarmente importante sotto questo aspetto, apertura agli stranieri sì, ma con giudizio. La liberalizzazione di alcune professioni e mestieri può essere altrettanto utile ed anche la creazione di imprese non statali può introdurre elementi innovativi e di efficienza, facendo risparmiare allo stato importanti risorse, utili per mantenere il welfare cubano che è, sotto molti aspetti, di livello pari a quello di paesi assai più ricchi. Cuba non può e non deve rinunciare alle conquiste della revolucion - soprattutto educazione e sanità, oltre naturalmente ad indipendenza politica. Deve però garantire un maggiore sviluppo economico ed ha il dovere di cambiare pur nella continuità, rilanciando l'idea di socialismo in alternativa alle contraddizioni dello sviluppo capitalista.

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Ma che bella la Gran Bretagna

di Carla Gagliardini

Ma che bella la Gran Bretagna!
Diffidate, vi prego, di chi vorrebbe vendervi la Gran Bretagna, anzi il Regno Unito,
come la terra promessa!
Perche’ dico questo? Bhe’, lo dico per esperienza. Avendo trascorso quasi cinque anni
della mia vita in questo paese credo di aver imparato a conoscerlo un po’.
Al principio tutto sembra semplice perche’ alla posta ti trattano bene, alle casse dei
supermercati puoi mettere tutti i tuoi acquisti lentamente dentro le borse senza che
nessuno ti insulti dicendoti che gli stai facendo perdere un sacco di tempo prezioso.
Anzi le cassiere ti chiedono sempre se vuoi essere aiutato in questa difficile operazione.
Se poi hai un reddito basso ti versano persino dei soldini dentro il tuo conto corrente
alla fine di ogni settimana o mese. Ma che meraviglia! Fino a poco tempo fa, poi, ti
prestavano i soldi per farti la vita o comprarti la casa anche se non davi nessuna
garanzia di solvenza. Va oltre la meraviglia, e’ strabiliante!
Questo mascherato benessere ha fatto dire ad alcuni amici e conoscenti che questo e’ il
vero socialismo e che per questo loro hanno deciso di trasferirsi nell’isola piu’ grigia del
mondo.

Strana cosa il socialismo del 2000 che si traduce in una monarchia di regine e principini
che non fanno nulla per sbarcare il lunario e vengono mantenuti in parte dai contribuenti.
Basta pensare di aver raggiunto il benessere personale e di non dover piu’ lottare con
la burocrazia e la scortesia italiana per aver raggiunto il socialismo? Rimango un po’
perplessa. Con tutto il rispetto per chi fa queste affermazioni io penso che il socialismo
debba tradursi in benessere per tutti e non solo per una certa cerchia di cittadini,
qualora anche rappresentasse la maggioranza. Non sarebbero comunque tutti.
Ogni volta che si sente il curriculum vitae di un parlamentare si scorpre che e’ stato
sfornato da questa o quella universita’ di prestigio. E quelli che provengono dai bassi
fondi quale sedia scaldano in parlamento? Nessuna, il privilegio di scaldare e poggiare il
proprio regio deretano spetta solo alla ricca borghesia e all’aristocrazia in questo paese.
Bel socialismo!

La sensazione e’ che quando si raggiunge un benessere personale si tenda ad estenderlo
artificiosamente a tutti, travisando clamorosamente la realta’. Sembra persino
che il fatto che solo una certa ristretta parte della societa’ sia sempre chiamata a
decidere delle vite dei cittadini non sia importante, rinunciando quindi al diritto ad una
rappresentanza reale del paese che la bruttissima legge elettorale inglese consente.
Come dire: ho potuto comprare la casa anche se non so se posso ripagarla, mi sono
riempito le tasche di carte di credito, anche se sono certo che non le ripaghero’ mai,
agli sportelli degli uffici pubblici mi trattano come un essere umano, anche se poi dietro
mi dicono peste e corna, e quindi vivo in una societa’ che piu’ socialista non si puo’ e chi
se ne frega della rappresentanza o di tutte queste cose ormai superate e fuori moda.
Intanto le cose non si possono cambiare. E via a continuare a vivere nell’inerzia politico-
sociale di sempre. In fondo viviamo in una societa’ socialista moderna e quindi suvvia
facciamo i moderni!
Che poverta’ di pensiero, che superficialita’ di analisi e osservazione, che pochezza di
spirito.

Se avessi il tempo e soprattutto la voglia vi racconterei io la vera Inghilterra che vedo
ogni giorno e che e’ certamente molto diversa da quella che giornali e politici nostrani
ci raccontano. E credo che meriterei per lo meno di essere ascoltata poiche’ il lavoro
che “allieta” le mie giornate di stress, pensieri e responsabilita’ e’ a contatto con quella
parte di societa’ che e’ considerate la zavorra della quale ci si deve occupare per dovere
di stato ma della quale se si potesse ci si sbarazzerebbe con un colpo di cannone.
Ma vi racconterei molto di piu’, di che peso e significato abbia la parola lavoro in
questo paese, dell’ipocresia appiccicata a quasi ogni persona nata in questo paese
o che, vivendoci da troppo tempo, si e’ impossessata degli stranieri. Vi racconterei
delle mille maschere che vengono ogni giorno indossate dai nostri managers, come dai
vostri colleghi o dalle organizzazioni per le quali lavoriamo. Certamente, per dovere
intellettuale, devo dire che non tutti sono persone da evitare, come mi pare ovvio e
accade ogni angolo del mondo.

E se non vi bastasse quel mio primo racconto proseguirei con molto piacere spiegandovi
la situazione “casa” di questo falso paese che ama le etichette tanto quanto gli altri
paesi, anche se non ama che si sappia e sta ben attento dal divulgarlo apertamente.
Perche’ anche qui, in Gran Bretagna, c’e’ da fare la battaglia per la verita’ e la
trasparenza che deve essere diversa da quella italiana perche’ il contesto e’ diverso ma
che sarebbe altrettanto necessaria per migliorare questa societa’ ipocrita.
Carla