Il VI congresso del Partito comunista cubano ha riportato la più grande isola dei Caraibi al centro delle cronache dei nostri giornali. E' stato il Congresso in cui Fidel ha rinunciato formalmente a tutte le sue cariche politiche e quello dell'apertura a riforme economiche in cui alcuni elementi di mercato vengono introdotti.
Si tratta senza dubbio di una retromarcia rispetto alla politica del passato, che viene descritta come l'ammissione dell'incapacità del socialismo di sopravvivere nel mondo globalizzato. Il discorso in realtà è più complesso. Negli ultimi vent'anni quasi tutte le vecchie economie di piano sono state smantellate, da quella sovietica a quella cinese. I risultati delle riforme in quei due paesi sono stati però assai diversi. La Cina ha aperto ai capitali stranieri, ha gradualmente ridotto il controllo sui prezzi, ha adeguato la struttura produttiva alle domande del mercato. Questo però non vuol dire che lo stato abbia perso il suo ruolo economico che anzi, seppur ridimensionato, ne è uscito rafforzato: politica industriale attiva e coerente, intervento pubblico nella determinazione dei tassi d'interesse e di cambio, mantenimento di un vastissimo settore statale nelle grandi industrie che, pur in parte inefficiente, ha mantenuto alti i livelli occupazionali e ha permesso un controllo dello stato a monte su prezzi e prodotti strategici per lo sviluppo economico. La privatizzazione di massa non è avvenuta, l'industria rurale, vero motore della crescita cinese, è caratterizzata da diritti di proprietà collettivi a livello di villaggio. Gli investimenti stranieri sono stati accolte a braccia aperte, è vero, ma senza mai permettere il controllo delle industrie che rimangono sempre a maggioranza cinese. Tali riforme sono state per anni considerate parziali, incomplete e foriere di problemi strutturali - ogni limite posto al mercato è considerato un errore - salvo poi scoprire che la Cina è divenuta la seconda economia mondiale ed è uscita indenne dalla crisi finanziaria asiatica del 97 e da quella occidentale del 2007-08. In Russia, invece, le riforme economiche - liberalizzazione dei prezzi, privatizzazione - hanno portato alla catastrofe economica, il Pil si è dimezzato nei primi sette anni di transizione e una classe di oligarchi ha assunto il controllo politico ed economico del paese.
Cuba, nei suoi nuovi indirizzi di politica economica deve tenere naturalmente conto di queste esperienze. L'introduzione di alcuni elementi di mercato non è di per sé un abbandono del socialismo, d'altronde già Lenin nel 1924 introdusse la Nep aprendo l'Unione Sovietica a capitali nazionali ed esteri pur mantenendo il controllo sulle leve economiche. Cuba si trova in una situazione in qualche maniera paragonabile alla Cina degli anni 70 e all'Urss di Lenin, con un grave problema di mancanza di capitali da investire, con una economia ancora sottosviluppata e fortemente agricola - il vero fallimento di cinquant'anni di socialismo, solo parzialmente giustificata dal bloqueo. Inoltre la leadership della generazione rivoluzionaria si sta ormai esaurendo per limiti anagrafici e la nuova classe dirigente, come nella Cina post Mao e Deng ha bisogno di crearsi una nuova legittimità basata soprattutto sui risultati economici.
Ammettere gli investimenti esteri è dunque una mossa adeguata per sopperire alla mancanza di capitali e rilanciare la crescita. Naturalmente è una mossa rischiosa, sappiamo benissimo che l'influenza dei capitali internazionali può sovvertire regimi politici e creare vari problemi economici, e lo è ancor di più a Cuba, assediata dagli Stati Uniti e dai gruppi reazionari di Miami che trasformerebbero l'isola in un bordello americano. La lezione cinese, dunque, è particolarmente importante sotto questo aspetto, apertura agli stranieri sì, ma con giudizio. La liberalizzazione di alcune professioni e mestieri può essere altrettanto utile ed anche la creazione di imprese non statali può introdurre elementi innovativi e di efficienza, facendo risparmiare allo stato importanti risorse, utili per mantenere il welfare cubano che è, sotto molti aspetti, di livello pari a quello di paesi assai più ricchi. Cuba non può e non deve rinunciare alle conquiste della revolucion - soprattutto educazione e sanità, oltre naturalmente ad indipendenza politica. Deve però garantire un maggiore sviluppo economico ed ha il dovere di cambiare pur nella continuità, rilanciando l'idea di socialismo in alternativa alle contraddizioni dello sviluppo capitalista.
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