lunedì 28 febbraio 2011

Il terzo Ricatto di Marchionne

Sergio Marchionne colpisce ancora. Con Termini Imerese silurata senza troppi complimenti, con Pomigliano e Mirafiori piegate al ricatto “prendere o lasciare”, in barba a Costituzione e diritti dei lavoratori, si apre la nuova battaglia dei vertici Fiat contro i lavoratori italiani. E già ricomincia il tran tran delle polemiche, delle ipotesi di referendum, della guerra tra i poveri.
Questa volta però la Fiat sceglie una fabbrica-simbolo, la più rossa d’Italia (dove la Fiom ha il 65%), la ex-Bertone, ora Officine Automobilistiche Grugliasco.
Che non è propriamente il parco giochi degli assenteisti (le mancate presenze non hanno mai superato il 4%, meno della metà del tasso piemontese), ma è uno stabilimento che è in cassa integrazione da sei anni, pur rappresentando il marchio di eccellenza assoluta nel settore: trattasi, infatti, di impianti contesi dai grandi marchi per produrre auto di lusso e che la Fiat ha comprato nel 2009 a meno di 20 milioni di euro dai commissari, impegnandosi a investirne 50 e a produrre 2 modelli: sono passati 2 anni e gli impegni sono rimasti solo sulla carta. Tanto che gli operai, pur di lavorare, hanno pure accettato di lavorare presso altre società.
L’accordo del 2009 era questo: produrre “due modelli Chrysler”. Ma nell’ultimo colloquio il piano è cambiato: ora Marchionne ha annunciato la cosiddetta “Maseratina”, una nuova vettura che sfrutta il marchio Maserati, ma che dovrebbe costare 40-50 mila euro, come una Mercedes.
Di fronte alle ottimistiche previsioni dell’AD Fiat (“Ne venderemo 50 mila”), la CGIL fa notare come l’anno scorso Maserati abbia venduto 5.817 vetture ed è improbabile che quest’anno possa aumentare il fatturato del 1000 per cento.
Il sospetto, che si aggira per i lavoratori, è che Marchionne usi il pugno di ferro apposta per poi addossare le colpe della chiusura dello stabilimento alla Fiom, che però cerca di non arrivare alla rottura: di fronte alla promessa di 500 milioni di investimenti di Marchionne, oggi i delegati sindacali Fiom hanno consegnato una proposta di mediazione ai vertici aziendali che si sono ripromessi di studiarla, rimandando il tutto al 16 marzo.
I soliti riformisti con il posto fisso assicurato, sempre pronti a pontificare sulla pelle dei lavoratori, già criticano il comportamento della Fiom, senza il minimo rispetto per operai che sono andati a lavorare fino alla Sevel, in Abruzzo (in cambio di una diaria aggiuntiva di 60 euro). 
La Bertone è stata l’alta moda dell’automobilistica: ha lavorato per Fiat, Opel, Volvo, e persino per Bmw (la famosa tiratura limitata full price della Mini Minor). Si dice anche che qui ci sia il miglior reparto verniciatura d’Europa, un impianto di alta professionalità, perfettamente interconnesso alle arterie ferroviarie e autostradali. E allora, a cosa serve il pugno di ferro?
Anche perché, Marchionne nel 2009 non era l’unico che ambiva agli impianti della Bertone: in pole position c’era anche Gian Maria Rossignolo, il veterano dell’industria piemontese, che si era conquistato anche il favore degli operai con il suo piano industriale. La scelta dei commissari che amministravano l’azienda dopo la morte del vecchio Bertone, però, era caduta sulla Fiat.
Ed è su questo che gli uomini della Cgil si impuntano: la Fiat ha avuto la Bertone al prezzo di 20 milioni di euro perché ne aveva promessi 50 di investimento e la produzione di 2 nuovi modelli Chrysler. Che ad oggi non si sono visti.
Ora la domanda è: per quanto tempo ancora la politica italiana vuole restare a guardare, facendosi prendere in giro da Sergio Marchionne? Il PD non ha da dire una parola chiara al riguardo? Non necessariamente di sinistra, basta che sia di civiltà. A meno che non si voglia implicitamente ammettere di non essere tanto diversi da chi si è giurato di fronte agli elettori di combattere.
E questa, sì, sarebbe una grande sconfitta.

Pierpaolo Farina

giovedì 24 febbraio 2011

Accordi Fiat, il sì al ricatto non salverà gli operai italiani

Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà. Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più.

Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.

E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini dell'obiettivo imposto da Obama.

L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...

Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.

Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti gli interessati.

C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata.

Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi - il baratro è alle porte. 

Guido Viale (Il Manifesto, 12-02-2011)

ARIS ACCORNERO: UNIONIZED, NOT UNIONIZED

Nella vicenda Fiat il risultato più grave, e paradossale perché raggiunto grazie allo statuto dei lavoratori, è l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più forte; il modello americano di cui tutti parlano anche a sproposito; l’asimmetria fra lavoratori e azienda che la Fiom non riesce ad accettare. Intervista a Aris Accornero.



Aris Accornero insegna Sociologia industriale presso l’Università di Roma "La sapienza”; insieme a Tiziano Treu e Cesare Damiano ha fondato Eli, EuropaLavoroImpresa. Ha pubblicato, tra l’altro, Era il secolo del lavoro, Il Mulino 1997; insieme a A. Orioli, L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza 1999; San Precario lavora per noi, Rizzoli, 2006.


Mi sembra di capire che secondo lei il risultato di gran lunga più grave di tutta la vicenda Pomigliano-Mirafiori sia l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più rappresentativo. E' così?


Sì è così, però prima vorrei fare una premessa su un fatto cui nessuno ha fatto più cenno ma che a me sembra utile ricordare. Esattamente tre anni fa, a gennaio del 2008, la Fiat a Pomigliano aveva fatto un grossissimo sforzo, anche economico (soprattutto legato al fatto che gli operai non lavoravano perché partecipavano a dei corsi di formazione) per introdurre il famoso World Class Manifacturing. L’azienda aveva molto reclamizzato l’operazione, se n’era parlato anche nel Sole 24 ore. Quando mi era stato chiesto un giudizio, avevo detto: "Beh, alla Toyota è un po’ diverso…”. Perché quello a cui loro puntavano era una riconquista di quegli operai a moduli di comportamento e lavorativi rivisitati, non tanto in senso professionale, ma quasi in senso morale.

Ora, quell’operazione, che consisteva in un ciclo di lezioni da cui passarono tutti, con il coinvolgimento di 266 capi, addirittura con la realizzazione di opere per l’adeguato svolgimento delle lezioni e l’introduzione di qualche piccola novità concomitante a questo grosso sforzo organizzativo-rieducativo, fu un buco terribile, cioè non ne venne fuori nulla.
Io penso che Marchionne avesse avuto qualche notizia su com’era Pomigliano, nel senso della sua anomalia industriale, però con questo suo approccio, chiamiamolo protestante, evidentemente si era convinto in qualche modo che, spiegando le cose, la gente avrebbe capito, che ci sarebbe stato un risultato.
Il fatto che non ci sia stato alcun risultato, secondo me è stato un notevole shock per Marchionne, che probabilmente già si arrovellava per capire come mai questo mondo fosse tanto diverso da quello che lui avrebbe voluto.
In realtà lui già sapeva che all’estero soluzioni tanto radicali non erano così facili da far passare: il 20% della Chrysler si era opposto al progetto di ristrutturazione nei primi mesi del 2009. Tre mesi dopo, il 25% del personale GM si era opposto alle novità da lui proposte, che però poi erano passate a maggioranza.
Insomma Marchionne si era formato quest’idea che fosse possibile curare questi casi di disordine, scarsa produttività e governabilità aziendale. Quindi io partirei dal fatto che dietro la vicenda Pomigliano-Mirafiori c’è una delusione, forse anche umana, da parte di Marchionne per il fallimento dell’opera di rieducazione avviata in quell’azienda un po’ disgraziata.
Intendiamoci, questa non è la spiegazione della svolta e tanto meno prelude a quel che poi è avvenuto. Però mi sembra importante ricordare che, con questa "cura”, era stato accordato un certo margine di affidabilità anche alle maestranze e alla situazione di Pomigliano d’Arco.

Ma come si arriva all’espulsione della Fiom?


Infatti, questa del ruolo della rappresentanza è diventata oggi la questione fondamentale, perché qui è andata a finire, in modo buffo e forse persino un po’ kafkiano, che lo Statuto dei lavoratori, rimaneggiato dopo il referendum dei radicali del ‘95, ha portato all’esclusione del sindacato più rappresentativo.

L’articolo 19 dello statuto, infatti, che era nato ex novo con la necessità di identificare i titolati a rappresentare, giustamente si poneva la domana: chi è titolato a rappresentare? E la risposta era e rimane: chi ha fatto degli accordi con l’azienda, con la controparte. Che significa che chi non fa l’accordo è tagliato fuori.
Ora, questo principio di esclusione, non voluto dall’azienda, ma indotto dall’andamento della vicenda, soprattutto dal fatto che c’è una divisione sindacale forte, come ha ricordato Gian Primo Cella sul Mulino, scassa tutto il sistema di rappresentanza e in qualche maniera sancisce la fine del sistema di rappresentanza sindacale vigente fino ad oggi in Italia.
In Europa praticamente non è possibile escludere dalle trattative un sindacato che sia esistente su basi nazionali. In Italia si è arrivati a quella legge sul pubblico impiego che esclude dalla trattativa chi non abbia almeno il 5% di un mix fra voti ed iscritti. Cosa molto coraggiosa, molto necessaria, perché la pletora di sindacatini del pubblico impiego contava fino a 30-40 soggetti, alcuni discutibili con sedi in sperduti paeselli.
Ma anche con quella legge rimaneva il fatto che nessun sindacato, anche con una rappresentanza minima, purché non simbolica, poteva essere escluso.
Qui allora compare una grossa novità nel sistema di relazioni industriali europeo e questa novità è la più ferale, la più bieca, è quella su cui rischiamo di più. Anche se è inutile scomodare le parole democrazia, costituzione, questa è una cosa enorme, incredibile.

Si è parlato molto di modello americano. Negli Stati Uniti esistono modelli di rappresentanza molto diversi da quelli in vigore in Europa. Può spiegare?


Questo ci fa entrare nei gangli di quel sistema americano di relazioni industriali con cui adesso si sta pasticciando, perché molti dicono di conoscerlo e pochi invece lo conoscono davvero.

Il primo elemento di differenziazione è che negli Stati Uniti si contratta nell’azienda. E basta. Cioè, si contratta nell’azienda grande e poi si cerca di applicare quanto si è ottenuto in tutte le altre realtà ove il sindacato è presente.
Seconda precisazione: negli Stati Uniti, il sindacato è presente nelle aziende dove i lavoratori l’hanno voluto al 50% più uno. Se un sindacato raggiunge questa quota di suffragi tra i dipendenti, esso esiste e negozia. Ma esiste e negozia da solo: non c’è, per definizione, pluralismo sindacale.
Per dire, nella categoria degli elettrici, il sindacato grosso è uno dei più di destra e l’altro, di sinistra, è uno dei più di sinistra. Ecco, in azienda uno ne entra, uno è riconosciuto, uno tratta e tratterà. E come sappiamo, tratta e tratterà tantissime cose, tra cui il welfare aziendale, che in America è fondamentale visto che, come sappiamo, il welfare nazionale è molto debole. In Italia non è così.
Per tutte queste ragioni, quando un sindacato entra in azienda, diventa di per sé potente perché intanto si negoziano varie condizioni, che noi chiameremmo "extracontrattuali”, ma che là sono considerate parte sostanziale del rapporto di lavoro e delle condizioni di trattamento. Un discorso diverso andrebbe fatto per il pubblico impiego, perché ai dipendenti pubblici vengono comunque garantite sanità e pensioni. Ma nel privato tutto si gioca sulla presenza o meno del sindacato in azienda.
Quindi quando il sindacato entra, conta e molto, e ovviamente mette le mani in questioni come le turnazioni, gli orari, i salari individuali, i salari di categoria. Infatti con l’entrata del sindacato, il costo del lavoro aumenta dal 15% al 20%. Nei fatti questo è il divario principale della struttura retributiva americana. Tant’è che in America, nelle tavole, nelle tabelle dei libri che trattano questi argomenti, la catalogazione delle aziende si fonda innanzitutto sulla distinzione tra "Unionized” o "Not Unionized”. Cioè tra imprese sindacalizzate e non sindacalizzate. E sono proprio due mondi diversi!
Infine va detto che una volta che un sindacato entra, praticamente ci sta in eterno: è molto difficile far fuori un sindacato che è stato accettato.
Tutto questo spiega perché le aziende ostacolano in ogni modo l’entrata del sindacato e anche perché l’accettazione è molto complessa e la parte giuridico-amministrativa tremenda. Il principale modo di tenere il sindacato fuori dall’azienda è che il giudice "ritagli” la parte dell’azienda dove si vota. I sindacati vorrebbero rappresentare tutti, ma c’è sempre un giudice che dice: "No, gli impiegati no!”, "No, quella è una sede troppo lontana”. Infatti gran parte della partita si gioca sulla definizione della bargaining unit, cioè dell’unità ove si contratta. Capita che giudici conservatori manipolino le bargaining unit sottraendo al voto quelle parti dell’azienda dove le maestranze sono più disposte alla sindacalizzazione, oppure includendovi quelle parti dove le maestranze sono meno disposte.
Poi, va anche detto che una volta entrato, visto che il sindacato conta, a quel punto molte aziende lo usano come punto d’appoggio nelle politiche. Cercano di usarlo, anche giustamente, chiedendogli ad esempio di convincere i lavoratori a fare degli spostamenti o altro. Insomma, il sindacato è molto dentro alla gestione dell’azienda. Talvolta, addirittura, anche se raramente, quelli che noi chiamiamo i segretari generali dei sindacati di categoria diventano perfino membri dei consigli di amministrazione. La Chrysler è una delle poche aziende che hanno visto il segretario generale del sindacato entrare nel consiglio di amministrazione.
Già qui emerge l’enormità delle differenze tra il sistema europeo e quello americano.

Quindi non esiste un contratto di categoria, un contratto nazionale...


La cosa fondamentale comunque è che il sindacato americano è un rappresentante di rapporti di lavoro aziendali. Non c’è quello che da noi per brevità si chiama "contratto”. Ci sono esclusivamente rapporti di lavoro e contratti aziendali. Nessuno negli Stati Uniti si sognerebbe di chiedere: "Cos’hanno i metalmeccanici?”, perché i metalmeccanici in quanto tali non hanno un bel niente: hanno ciò che è stato conquistato nelle fabbriche metalmeccaniche dove c’è il sindacato.

A Detroit, ad esempio, dove ci sono le tre grandi aziende automobilistiche, i sindacati, da sempre, quando arriva il momento di rinnovare il rapporto di lavoro, scelgono su quale azienda puntare, dove fare la lotta e poi presenteranno agli altri le medesime richieste.
Va detto che neanche l’Inghilterra ha il contratto nazionale di categoria: c’è una tradizione mista di accordi di tipo aziendale e di intese di categoria. Ma ciò è dovuto al fatto che là le categorie sono estremamente numerose, con spizzichi anche molto professionali, di aristocrazia operaia, che però magari, numericamente, sono risibili.
Nel mondo europeo continentale, invece, la norma sono i contratti di categoria.
In quest’assetto, gli avvantaggiati sono i paesi con maggiore unità sindacale o con meno sindacati concorrenti. Quindi il modello resta la Germania, oltre alla Svezia, eccetera. Non certo la Francia, dove i sindacati litigano dalla mattina alla sera su tutto. L’Italia è uno dei pochi paesi dove l’unità sindacale ha coperto lunghi periodi. In tutti questi paesi c’è un contratto di categoria.

Una forma di contrattazione aziendale esiste anche in Italia...


In tutta Europa ci sono ovviamente numerose aziende, i cui lavoratori dispongono del contratto nazionale e di qualcosa negoziato aziendalmente, ma si tratta sempre di una contrattazione di secondo livello, cosiddetta integrativa. E cioè: oltre alle condizioni normative e ai trattamenti che valgono per tutti, c’è qualcosa che connota il rapporto di lavoro in quella specifica azienda, e quasi sempre è qualcosa in più.

È un modo per trattenere (o per attirare) la manodopera qualificata o semplicemente per evitare turn-over troppo elevati.
Ma ci sono anche finalità produttive, quelle che il protocollo del 1993 ha ufficializzato, facendo riconoscere alla Confindustria (per la prima volta in Italia) la contrattazione di secondo livello.
Apro una parentesi: anche prima del 1993 si contrattava. Io, quando ero in commissione interna, ho contribuito a contrattare con l’azienda delle cose che altri non avevano. Per esempio, il premio di produzione, cioè quello che poi nel 1993 è diventato il fulcro della contrattazione di secondo livello. Produttività, competitività, qualità, erano questi i vari parametri per ottenere di più rispetto al contratto nazionale.
Il fatto è che quel che facevano le commissioni interne, che nel dopoguerra si occupavano ancora del pane e dei combustibili delle famiglie dei lavoratori, non era ben visto né da Confindustria né dalla Cgil.
La Cgil non voleva la contrattazione aziendale per ragioni di solidarietà generale in riferimento al contratto nazionale. Nell’ambito della Cgil fu Sergio Garavini a inventare la contrattazione aziendale come contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Era una posizione molto avanzata, perché quel tipo di negoziazione si faceva nel contratto nazionale. E invece lui voleva contrattare gli orari, le pause, persino le paghe, a livello aziendale.
Chiaro che, se vogliamo valutare la vicenda di Pomigliano alla luce di questo scenario non possiamo che riconoscere che è cambiato tutto. Innanzitutto, per come è sfociata la vicenda del contratto nazionale che, da una decina d’anni, Confindustria vorrebbe alleggerire, smagrire, snellire, per contrattare più cose in azienda e meno nel paese.
Andrebbe anche spiegato che questo spostamento di baricentro verso l’azienda è motivato dall’estrema articolazione che il post-fordismo richiede alle imprese. Il post-fordismo in fondo ha portato alle imprese non meno problemi che ai lavoratori. Oggi si è diffusa una struttura organizzativa completamente diversa, più orizzontale che verticale, che fa sì che ogni azienda sia diversa dalle altre, anche per via della competizione.
Questa diversificazione porta le aziende a spingere verso un maggior numero di norme negoziate in loco rispetto a quelle che prima si negoziavano a Roma.
Questo però non giustifica la politica un po’ insana del presidente di Confindustria D’Amato, il quale ha cominciato a dire: "Basta, basta, bisogna passare ai contratti aziendali”. Questa insistenza sui contratti aziendali ha dato luogo a infuocati dibattiti, anche coi sindacati, ma soprattutto fra imprenditori, i cui interessi sono molto diversi. Brutalmente si potrebbe dire che i piccoli vogliono il contratto nazionale e i grandi no. I piccoli vogliono il contratto nazionale perché è un regime che tutela tutti perché, ad esempio, impedisce che dei lavoratori vengano pagati meno per produrre di più. Quindi è uno strumento di raccordo sistemico del mondo padronale di dimensione minore. Oltretutto, gestire un contratto aziendale richiede costi che le piccole aziende non potrebbero sopportare.
Invece le grandi aziende, forti del loro potere, spingono per andare verso contratti aziendali più nutriti e per ridurre, semplificare, le numerosissime norme nazionali alle quali sottostanno le varie categorie.
D’altronde la richiesta di una semplificazione non è così peregrina. Oggi i contratti di categoria sono più di trecento. Cioè mentre i sindacati, in questi ultimi 20-25 anni, si sono accorpati in grosse confederazioni di categoria, nessuno ha invece tentato di accorpare i contratti.
Tra l’altro, quando ero in fabbrica io, ce n’era uno molto sottile, credo fossero 80 pagine, adesso i contratti sono da trecento a cinquecento pagine in su!
Provocatoriamente da tempo dico che bisognerebbe fare un "testo unico”. Altrimenti, noi avremo trecento contratti che restano lì, con uno spostamento verso l’azienda di normative che diventano diverse da luogo a luogo.
Su questa vicenda c’è stata una trattativa con Confindustria. Nel 2008 la Cgil, la Cisl e la Uil hanno prodotto uno smilzo testo di proposta di risoluzione con cui sono andati a trattativa con la Confidustria che chiedeva appunto lo spostamento del baricentro.
I sindacati hanno posto anche lì la questione della rappresentanza, proponendo per il lavoro privato la legge che c’è per il lavoro pubblico, appunto quella del minimo del 5% come titolarità a negoziare, a rappresentare, eccetera.
In quell’occasione c’è stata però una separazione tra Cisl e Uil, da una parte, e Cgil dall’altra, sulla questione delle deroghe. La Cgil, infatti, non ha accettato la richiesta, anche perché la Fiom aveva votato all’unanimità contro questa ipotesi giusto qualche giorno prima.
Il punto dolente è stato quello. In realtà Confindustria aveva preteso e ottenuto una cosa tutto sommato non gravissima e cioè la possibilità di deroga aziendale a norme del contratto nazionale.
è da allora che c’è questa divisione. È partito tutto da lì formalmente, l’anno scorso, con i due accordi del 2009.
La questione della deroga, in realtà, è speciosa, perché tutti e tre i sindacati hanno più volte accettato delle deroghe, generalmente dietro situazioni di forza, di emergenza, di crisi, di necessità, qualche volta di investimento. Non c’è solo Marchionne che investe, anche la Zoppas, l’Electrolux e altre aziende hanno fatto investimenti chiedendo qualcosa.
La stessa Melfi è nata come una mostruosa deroga contrattuale! Si derogava su tutto. Pro tempore certo, e però...
Comunque in quella sede è diventata una questione fatale, si è inceppata la trattativa e quindi è stato fatto l’accordo separato.

Lei sostiene che la Fiom è un universo molto particolare nel sistema italiano. In che senso?


Io ho scritto e continuo a pensare che quest’organizzazione dalle lunghe tradizioni sia un caso molto particolare. Intanto nella sua struttura, perché comprende settori produttivi completamente diversi: si va dalle valvole termoioniche alla cantieristica, dall’auto all’oreficeria. Non posso dire che sia una categoria "mostro”, ma certo è più di una categoria: è un mondo. Anche per questo ha molti iscritti. Il metalmeccanico poi è un comparto competitivo, che esporta, quindi è molto importante.

In questi decenni è stato più volte suggerito: "Ma non è meglio creare qualche sindacato di settore, scorporare qualche categoria che non c’entra niente con tutte le altre?”. Evidentemente si è ritenuto più comodo mantenere lo status quo. Però, ripeto, è una categoria che unisce settori fra loro davvero lontani.
Sul piano politico, poi, è una categoria che è sempre stata abbastanza di sinistra.
Io arrivo a dire che politicamente la Fiom sembra quel che resta del partito comunista. Dico sembra perché in realtà non è affatto vero. La prima volta che ho sentito Landini e ne ho parlato in casa, ho detto: "Beh, di una cosa si può esser sicuri: che questo non conosce Marx”. Tre giorni dopo è uscito sul giornale che lui non ha mai letto Marx…
Però, ecco, hanno un’idea del conflitto di classe e dei diritti dei lavoratori molto precisa e accettano il compromesso meno di quel che, nel mestiere del sindacato, di solito si fa. In qualche modo sono poco "sindacato” perché sono poco negoziali. Loro ovviamente rispondono che sono poco negoziali perché non possono trattare quelle robe lì, non possono cedere su quei punti lì.
Loro addirittura rifiutano l’asimmetria fra capitale e lavoro (approccio che ha qualche radice nella politica della Cgil) che è quella che giustifica tutto il diritto del lavoro e molti pezzi di tante costituzioni. Per loro è un’asimmetria inaccettabile.
La conseguenza è che la Fiom, con l’impresa, vuole negoziare tutto e in parità. Il che evidentemente non è possibile. Perché nel capitalismo un’asimmetria c’è e sta proprio nel fatto che non puoi negoziare tutto. Non puoi mettere il naso su tutto quel che fa e vuole fare l’azienda.
Finisco dicendo che dietro a questa particolare linea dove la logica dell’intransigenza si coniuga con l’intransigenza della logica, io ci vedo quel "sindacato dei diritti” che fu pensato da Trentin, che è stato inteso e frainteso in modi diversi, ma uno dei modi in cui esso è stato inteso era questo. E cioè il postulato di un azzeramento dell’asimmetria. L’asimmetria c’è, la si soffre, la si denuncia tutti i giorni, ma noi non l’accettiamo. Noi vogliamo negoziare tutto. Il padrone non può fare tutto quel che vuole, dovremo discutere con lui tutto quanto.
Ripeto: questo può anche essere ritenuto normalissimo per un sindacato, ma l’enfasi che pone la Fiom su questa piattaforma operativa è tale da averla indotta a non sottoscrivere tanti accordi.
I vecchi dicono che uno, quando viene sconfitto due, tre, quattro volte, dovrebbe chiedersi: "Beh, ma com’è che m’hanno sconfitto?”. E non si può rispondere: "Erano cattivi!”.
È un po’ la vicenda della sconfitta della Cgil alla Fiat nel ’55, che io ho vissuto personalmente. Il giorno prima -io ero membro della commissione interna- eravamo andati a diffondere un volantino, l’ultimo messaggio ai compagni della Fiat. E ricordo che ci dicevamo: "Speriamo che votino bene”. Invece non votarono bene. Noi a quel punto avevamo tutte le nostre cause esplicative: il regime di fabbrica, la compressione dei diritti, il licenziamento dei dissidenti. Però poi Di Vittorio disse: "Sì, vabbé, ho capito, però”.
Intendiamoci, anche Di Vittorio era molto confuso. La sua posizione contro la contrattazione aziendale certo non aiutava la comprensione del problema. All’epoca la Fiat era un impero. Il welfare della salute a Torino non era l’Inam, l’Istituto Nazionale Assicurazione Malattie, ma la Malf, la Mutua Aziendale Lavoratori Fiat.
La condizione dei lavoratori Fiat era molto diversa da quella degli altri.
Quindi si può dire che erano molto cattivi, però il loro paternalismo aziendale era cospicuo, c’erano parecchi benefit. Io, quand’ero ragazzino, andavo a prendere la befana Fiat, come figlio di dipendenti.
Che cosa si poteva negoziare con una siffatta azienda, invece di subire come un danno i suoi regali? Che cosa chiedere all’azienda? Ecco, come diceva Garavini, bisognava ottenere la contrattazione in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, che il sindacato all’epoca non contrattava di sicuro.
Per finire con la Fiom, la mia impressione è che non si siano chiesti a sufficienza come mai varie battaglie siano finite male.
La prima volta che me ne sono accorto è stato nel 1980 quando avevo fatto una grande inchiesta sulle propensioni dei lavoratori verso il conflitto e la partecipazione, ed era uscito che la maggioranza relativa dei lavoratori era per la cooperazione fra lavoratori e padroni. Mi saltarono addosso come se fossi un matto!
Poi, nello stesso anno ci fu la lotta dei trentacinque giorni, che fu un’altra legnata…
Da allora in poi la Fiom avrebbe dovuto fare un paio di riflessioni che non ha fatto. Mi dispiace dirlo adesso perché la Fiom, poveretta, è sotto tiro e però…

Tornando a quella che lei definisce come la novità più grave e dirompente, quella dell’esclusione di un sindacato, cosa succede adesso? C’è chi dice che la Confindustria ne esce altrettanto male del sindacato…


Allora, quella è la cosa più inaccettabile perché non esiste in Europa. è una assoluta novità nel sistema della rappresentanza.

La Fiat che farà? Ha fatto questa finta azienda, questa newco, forse ne farà anche altre.
Anche la Confindustria, in effetti, ne esce malissimo, perché la sua rappresentatività viene intaccata. La Confindustria non viene esclusa, rimane come lobby di riferimento, però, se si allarga questa prospettiva, e vedo che alcuni autori la danno per probabile, il suo potere contrattuale calerà drasticamente.
Allora, l’esclusione del sindacato che dissente è la cosa più grossa e più grave anche per le conseguenze a venire, ma certamente anche l’idea che varie aziende si facciano il loro contratto aziendale appiccicandosi o meno ad un eventuale contratto nazionale, che altri hanno al posto del contratto aziendale, crea un discreto marasma.
Non a caso, la Confindustria ha riunito un organo particolare per decidere su questa questione, e la pronuncia è stata di grandissima cautela perché io penso che più di metà degli imprenditori non voglia questo. E non lo vuole perché pensa che ne verranno guai.
Un funzionamento efficiente del sistema produttivo prevede infatti un minimo di cooperazione fra le parti. Quando il sindacato firma il contratto di lavoro è una cosa anche liberatoria per le relazioni reciproche: "Meno male che c’è ‘sto contratto di lavoro, così per tre o quattro anni stiamo tranquilli”.
Se invece cominciano ad esserci dei buchi perché uno non ha il contratto nazionale, un altro ha un contratto aziendal-settoriale, un altro ancora ha fatto una società nuova, beh, insomma, si profila un bel pasticcio!
Davvero ci si deve augurare che quel che fa la Fiat non lo facciano anche gli altri.

Ma secondo lei l’esclusione della Fiom è stata premeditata o è stata la conseguenza di un concatenamento di eventi?


Quando uno fa un calcolo sulle prospettive formula una serie di ipotesi: "Se succede questo…”. Beh, io credo che l’opzione "se succede che la Fiom non firmi”, l’abbiano tenuta ben presente.

Ma il punto è che loro volevano la governabilità e Pomigliano non è un modello di governabilità, da tanto tempo. Non è neanche colpa della Fiat in senso stretto. Basterebbe citare i casi clamorosi: magari poi lavoravano anche se il giorno prima erano andati tutti alla partita, però certo fa impressione; così come fa impressione che siano andati tutti a far gli scrutatori. Sono cose che quando uno le viene a sapere, s’arrende e dice: "Vabbé”. Il concetto di governabilità dell’azienda comunque è tutt’altro che banale.
La governabilità dell’impresa è ciò che ha mandato in crisi il fordismo perché l’azienda rigida, mastodontica, goffa, anche lenta, del fordismo avanzato, di fronte ad un mercato molto più spicciolo, non era più governabile. è stata la rigidità a far cadere il fordismo. Il post-fordismo infatti si è affermato con la flessibilità. Quando Marchionne chiede la governabilità dell’impresa, quello che vuole è un’impresa ultra flessibile, sistemicamente flessibile -non flessibile all’occasione.
è questa macro flessibilità il problema. Dieci anni fa la flessibilità era quella dei tempi di lavoro, oggi un’intera fabbrica si deve poter fermare, ripartire, lavorare di più, lavorare di meno. Questa maxi flessibilità oggi è forse l’ultimo spunto perché non si può tirare il collo ai lavoratori e alle cose più di così, in nome della personalizzazione del prodotto, del produrre per ogni singolo consumatore.
Forse l’intera vicenda Fiat-Marchionne alla fine è la prova di una perdita di peso del lavoro immane, veramente immane. E noi non siamo abituati. In Europa una cosa così non si era mai vista. Altrove c’erano state situazioni analoghe, ma le cose erano state gestite meglio.
Nel nostro Paese, soprattutto per colpa del Governo, la situazione, invece, si è proprio svaccata, se posso dir così. In assenza di un intermediario politico, l’economia ha espulso da sé tutti i corpi estranei, con il risultato che il big management ha contato più del big government. è questa la grande novità. L’Italia, poi, è un caso penoso per via del suo big governant, però la tendenza è quella. E se vince il big management, il lavoro ci rimette. Punto. 

(Una Citta', Febbraio 2011)

Spot pro-nucleare? È ingannevole

Tra le «notizie scomparse» sul nucleare, una è stata ripescata da Guglielmo La Pira sul suo blog «Il futuro dei consumi» del Sole24Ore. Letteralmente: «Lo spot promosso dal Forum energia nucleare presieduto da Chicco Testa (vedi nota 1) è stato bocciato e ritenuto ingannevole dal Giurì dell'Autodisciplina Pubblicitaria». Era il 18 febbraio, lo apprendiamo il 22. Non sappiamo ancora le motivazioni del Giurì, ma che lo spot contenesse informazioni fuorvianti e false lo aveva denunciato Greenpeace sulla prima pagina di questo giornale. Almeno tre le informazioni ingannevoli nelle varie versioni dello spot che ha invaso i media da Natale in poi. La prima è che l'affermazione «le scorie si possono gestire in sicurezza» lascia intendere che questo tema sia risolto. Ma questa è pura propaganda. In sessant'anni di esistenza l'industria nucleare non ha ancora dimostrato in concreto una soluzione per la gestione di lungo termine dei rifiuti nucleari.
Una seconda falsità riguarda il fatto che tra 50 anni non potremo contare solo sui combustibili fossili: è vero, ma questa limitazione fisica delle risorse riguarda anche l'uranio il cui orizzonte di esauribilità non va oltre quello del gas. Il terzo elemento è quello che lascia intendere le fonti rinnovabili non bastano: le consultazioni su uno scenario europeo al 100 per cento basato sulle fonti rinnovabili sono in corso e questa prospettiva non è solo negli scenari di Greenpeace o di altre associazioni ambientaliste, ma in quelli promossi da parte dell'industria e delle istituzioni.
Come aveva lanciato la campagna del Forum Nucleare il suo Presidente Chicco Testa? Dicendo «Dubito che una campagna pubblicitaria di Greenpeace, ad esempio, saprebbe essere altrettanto onesta intellettualmente» (Secolo XIX 17 dicembre 2010). Ora, lasciando da parte ogni considerazione sull'uso di questa terminologia per uno spot infarcito di bufale, c'è un altro livello, per così dire «semiologico», sul quale lo spot del Forum gioca in modo raffinato ma ben decifrabile.
Ne ha fatto una analisi Pierluigi Adami con un commento sul sito «oltreilnucleare.it» dove sottolinea come «la scelta di lasciare al "non contrario al nucleare" l'ultima parola in ogni coppia di domande è di per sé una precisa scelta di campo. Basterebbe invertire l'ordine, lasciando l'ultima parola al "non favorevole" per ottenere un senso diverso».
Greenpeace nelle scorse settimane aveva lanciato un suo spot basato su ironia e paradosso - visionabile sul sito Greenpeace.it. Ma le circa 200 mila visite (grazie anche al sito di Repubblica che l'ha ospitato) non possono competere col numero di «contatti» dello «spot ingannevole» che ha speso oltre 6 milioni di euro. Prima domanda: su questi il Forum chiederà il rimborso allo stato, visto che la normativa pro nucleare prevede «campagne di informazione» a senso unico? Forse dopo la bocciatura del Giurì non accadrà. È più probabile che intervenga una strategia del silenzio, per evitare di far sapere che tra qualche settimana si svolgerà un referendum anche sul nucleare. Anche questa, in fondo, sarebbe un'altra forma di inganno.
 
Giuseppe Onufrio (Direttore di Greenpeace, Il Manifesto, 23-02-2011)

mercoledì 23 febbraio 2011

Italia 2011. ”Qui si fa l’impresa o si muore”. L’esempio della Ghizzoni s.p.a.


Non solo Fiat. C’è un modo differente di fare impresa. Vivere investire lavorare credere nell’Italia paralizzata dagli scandali, dalle impasse infinite e dall’irresponsabilità generale

Come alzarsi al mattino e dar senso ai propri giorni e alla propria esistenza. Ghizzoni s.p.a. nasce a Parma nel ’50, si specializza da subito nel settore della costruzione di condotte per gas e liquidi.Acqua vita gas idrocarburi per accendere lo sviluppo dei popoli. Prodotto strategico e anche con valenza simbolica: collegamento, unione, energia.
Grazie al possente spirito d’iniziativa dei titolari, al coraggio imprenditoriale e alla determinazione attenta ma caparbia, nonostante la scarsa propensione alla questua di contributi statali, con poche o nessuna protezione politica o lobbistica , l’ azienda cresce e dilaga per meriti e mezzi propri. L’ampliamento dei mercati dell’ Europa post ’89 le dà impulso ulteriore, e rappresenta maggiore crescita, stimolo e opportunità. La Ghizzoni s.p.a. resta ostinatamente Italiana ma diventa europea nella presenza operativa e nelle dimensioni, nella collaborazione con tutte le maggiori imprese energetiche raggiungendo il traguardo dei 3000 Km di condotte, diramate in ogni angolo del continente. Attualmente è in corso di realizzazione, e procede a regimi elevatissimi, l’ opera di adeguamento dell’ impianto di compressione di Montesano (Sa), che rientra tra quelle destinate al potenziamento delle capacità di trasporto dei gasdotti transmediterranei (immettono in Europa metano proveniente dal nord Africa tramite condotta sottomarina), progetto commissionato da SNAM – Rete gas.
Ghizzoni si avvale del business "in house", si occupa in proprio dell’ attività di ricerca e innovazione tecnologica, capisaldi dell’ azienda che le consentono di rimanere costantemente competitiva, e di agire efficacemente su diversi fronti, incluso quello del contenimento dell’ impatto ambientale degli interventi. E’ stata la prima azienda italiana a conseguire la certificazione tramite Lloyd’s Register Quality Assurance, nel settore pipelines. L’azienda si fregia di operare nella piena legalità, attraverso l’ osservanza rigorosa di normative e regolamenti nazionali ed esteri in materia di Qualità, Salute, Sicurezza, Ambiente, e ciò non viene vissuto come un vincolo limitante, bensì come stimolo alla crescita e allo sviluppo ulteriori,scelta vantaggiosa allo scopo di conseguire, sempre maggiori credibilità e accreditamento internazionali.Anche dal punto di vista della gestione del capitale umano, l’ azienda persegue una politica improntata a rispetto, trasparenza, chiarezza e univocità di intenti.
Il personale è corresponsabile, partecipe, valorizzato, motivato, tutelato.
Significativa e commovente la schietta testimonianza di Sami Outtara, immigrato dal Burkina Faso che per la prima volta, dopo anni di sottomissione al caporalato agricolo e allo sfruttamento cantieristico, in seguito al suo approdo in questa grande impresa, come lui stesso riferisce a “rassegna Sindacale” settimanale CGIL “ vede la luce” della legalità, del diritto, della tutela, e del rispetto della dignità della sua persona.Stessa attenzione per i cassintegrati ex Novelis – laminati in alluminio – Borgofranco d’Ivrea, multinazionale svizzera il cui sito è stato di recente acquistato e i cui lavoratori integrati nell’ organico.A differenza di altre grandi aziende italiane questa non ordisce traslochi finanziari destinati ad alimentare una “ piattaforma economica parallela” - peraltro fatalmente votata all’ implosione come già successo in tempi recentissimi, per il guadagno di nessuno - non trama alle spalle delle proprie risorse umane, che al contrario valorizza , non vagheggia improbabili trasformazioni ubiquitarie della propria sede e della propria ragione sociale. E’ una straordinaria realtà italiana che si avvale nient’ altro che di impegno ricerca e coraggio, che tenta con la propria professionalità e la propria efficienza e propensione all’ avanzata di controbilanciare la scarsa credibilità di cui gode al momento il nostro paese, a causa della stasi necrotica che lo attanaglia,e di una politica economica talmente miope e ottusa da scoraggiare chiunque abbia in mente qualunque forma di partenariato o investimento in Italia, oltre che di una leadership considerata sempre meno affidabile.
Qui si tratta di Attività Produttiva Vera, non fittizia, funzionale, di transizione, pretesto o copertura. Qui si tratta di art. 1 della Costituzione, di lavorare e di far lavorare, consentire vita e sviluppo agli individui e alle nazioni. Qualunque governo con un minimo di senso di responsabilità dovrebbe incrementare incoraggiare diffondere questo modo di fare impresa. Invece lo deprime con leggi incomprensibili, burocrazia come sappiamo, politica spiaggiata, clientele e vassallaggi imperituri, galleggiamento “a vista”, dichiarazioni vacue, indifferenza colpevole. In questo quadro davvero poco confortante, il solo fatto di fare il proprio mestiere in scienza e coscienza, di perseguire un bene che non è sempre solo esclusivamente il proprio ma è anche, magari, quello della collettività, assume curiosamente e incredibilmente - proprio in quest’ anno difficilissimo ancorchè celebrativo - i tratti e i colori dell’ eroismo al valor nazionale. Viva l’Italia.

Agora Vox

La lotta di classe sotto altro nome


Stiamo vivendo la valanga conservatrice-neoliberale guidata dal cancelliere Angela Merkel, che propone la realizzazione di riforme nell’eurozona, indirizzate a migliorare la competitività dei paesi che la compongono, sulla base di una riduzione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Con tale atteggiamento si presuppone che la competitività dipenda soprattutto dai salari, in modo che la loro variazione al ribasso produrrà un aumento al rialzo della competitività, permettendo una discesa dei prezzi che renderà i prodotti più economici e quindi ne aumenterà la competitività. A supporto della sua teoria, Merkel parla della Germania, la cui alta competitività si basa, secondo il cancelliere, nella “moderazione salariale”, parole utilizzate nel discorso neoliberale per definire un processo nel quale i salari vengono congelati o diminuiscono, mentre la produttività aumenta.

Il problema di tale teoria è che i dati non supportano questa tesi. Come ha documentato molto bene Ronald Janssen nel suo articolo European Economic Governance: The Next Big Hold Up On Wages, nella nota rivista Social Europe Journal (02-03-2001), la famosa competitività tedesca ha poco a che vedere con il livello dei salari, con la loro moderazione o con i prezzi dei prodotti che la Germania esporta. Il successo delle esportazioni tedesche non si basa sui loro prezzi, cosi come è stato documentato proprio dalla Commissione Europea in un rapporto del 2010 che arrivò alla conclusione che la crescita delle esportazioni tedesche durante il periodo 1998-2008 (una crescita annua del 7,3%) è dovuta sostanzialmente alla crescita dei mercati importatori.

Solo uno 0,3 % è dovuto al cambio dei prezzi dei prodotti esportati. Il miracolo esportatore tedesco si deve, principalmente, all’enorme crescita delle importazioni dei prodotti tedeschi soprattutto da parte delle economie emergenti. Si tratta di prodotti come attrezzature tecnologiche di Telecom, infrastrutture per i trasporti ed altri. Il successo delle esportazioni è da attribuire perciò al know how piuttosto che ai prezzi dei prodotti. Studi econometrici realizzati in Germania hanno dimostrato che una riduzione del 10% sul prezzo del prodotto, ne aumenterebbe l’esportazione solo di un 4%. Da questi ed altri dati si deduce che la moderazione salariale che ha avuto luogo durante questo periodo in Germania non serviva per ridurre i prezzi (che non si sono ridotti) bensì ad aumentare i profitti aziendali, che hanno raggiunto livelli senza precedenti. La percentuale dei profitti del settore aziendale della manifattura e di altri settori esportatori è aumentata di un 36% sul valore aggiunto lordo nel 2004, e di un 48% nel 2008. Intanto, i salari, rimangano invariati.

Ed è questa la ragione del ragionamento conservatore-neoliberale. L’obiettivo non è la difesa dell’economia o della competitività, ma gli interessi delle grandi imprese (banche incluse, naturalmente), a spese dei lavoratori. E’ quello che prima si chiamava lotta di classe, che adesso viene nascosto sotto il panegirico della competitività. E questo è il modello che il cancelliere Merkel e il suo partito (che appartiene alla stessa famiglia politica del Partito Popolare in Spagna, o del Popolo delle Libertà in Italia[1]) vuole introdurre nella UE. Questi interessi aziendali e finanziari sono gli stessi che si stanno promuovendo con le stesse ragioni in Spagna, premendo per una riduzione dei salari. Vogliano abbassare i salari per aumentare i profitti, difendendo la loro tesi con l’idea che una riduzione dei salari aumenterebbe le esportazioni, aiutando l’economia. Pero le esportazioni in Spagna continuano ad aumentare, cosi come è cresciuta la produttività e sono aumentati i salari in maniera simile, in proporzione, in Germania, come ha sottolineato Mark Weisbrot nel suo articolo Spain’s Trouble are Tied to Eurozone Policies, su The Guardian (29-01-2001). In realtà, come in Germania, la variabilità dei prezzi non è determinante sulla misura delle esportazioni spagnole. Anche in Spagna, come in Germania, la chiave è la domanda dei paesi importatori. Ridurre i salari in Spagna con il fine di influire sulla competitività richiederà un sostanziale taglio dei salari perché si notino gli effetti. E questi tagli influiranno negativamente sulla domanda interna.

Ed è questo il punto cruciale della questione in Spagna e nella UE. Le loro esportazioni non dipendono tanto dal prezzo dei loro prodotti quanto alla loro domanda, che dipende, a sua volta, dalla crescita del mercato interno e importatore, che comprende per lo più i paesi dell’eurozona. Le esportazioni spagnole si basano su prodotti di alta e media tecnologia (prodotti lavorati), come in Germania, e su prodotti agricoli, della pesca e artigianato di bassa e media tecnologia, la cui esportazione e consumo dipende più dalla qualità che dal prezzo. Il fattore più determinante delle esportazioni spagnole è la crescita del potere d’acquisto dei paesi importatori, come la Germania (che dipende dal livello dei loro salari). Quindi la riduzione dei salari in Germania, cosi come in Spagna (e in altri paesi dell’eurozona) va necessariamente contro l’aumento del commercio, abbattendo la domanda sia domestica che esterna, ritardando notevolmente la capacità di recupero delle economie europee.

Ciò che sta succedendo nell’eurozona è che gli interessi finanziari e delle grandi aziende stanno utilizzando la crisi, che loro stessi hanno creato, per ottenere ciò che sempre hanno voluto: la riduzione fino all’eliminazione dei diritti sociali, del lavoro e politici delle classi popolari in generale, e della classe operaia in particolare. E di questo bisogna informare la popolazione.


DI VICENÇ NAVARRO
Público


[1] Credo sia necessario fare il paragone con l’Italia, visto che i lettori ne riconoscono più rapidamente le caratteristiche principali

Titolo originale: "Lucha de clases bajo otro nombre"

Fonte: http://www.publico.es/

martedì 22 febbraio 2011

Acqua azzurra, acqua pubblica

Palloncini nella fontana più fotografata della città, flash mob, distribuzione di braccialetti blu a cantanti di passaggio come Emma Marrone dei Modà e Tricarico che assicurano di indossarlo sul palco dell'Ariston e un concerto in piazza: così il comitato referendario 2 Sì per l'Acqua Bene Comune approda a Sanremo, nel cuore del Festival, massimo evento di distrazione di massa, per parlare di acquedotti, reti e rincari delle bollette dopo le privatizzazioni. Il loro si chiama Festival dell'acqua. «In effetti è una bella scommessa - commenta Giorgio Caniglia del Coordinamento imperiese che raccoglie diverse realtà della provincia del ponente ligure, come Attac, Sanremo sostenibile, Prau grande, la Talpa e l'orologio, il Circolo 25 aprile di Ventimiglia, Arci e Legambiente di Taggia - Abbiamo scelto di approdare in una situazione di grande distrazione per fare una comunicazione gioiosa e musicale. Non siamo un controfestival, ma un evento nel festival. Vogliamo informare gli italiani che ci sarà un referendum». Caniglia assicura che se parli di acqua, di bollette e di acquedotti, ti stanno a sentire anche in una delle province più azzurre d'Italia: «abbiamo fatto un buon lavoro con gli enti locali, una ventina di sindaci, su sessanta, si sono opposti alla privatizzazione proposta dalla Provincia di Imperia e alla fine hanno vinto». «Almeno qui si è riuscito a mantenere lo status quo: una situazione a macchia di leopardo - ti spiegano gli attivisti del comitato accanto al palco montato in piazza San Siro a due passi dall'Ariston - Imperia e Sanremo hanno delle spa pubbliche, alcuni comuni dell'interno come Dolceacqua hanno privatizzato da anni e invece Bordighera continua a mantenere l'acquedotto pubblico e questo fa risparmiare i suoi cittadini».
Dopo il milione e mezzo di firme raccolte (10 mila circa in provincia di Imperia), ora l'obiettivo è arrivare al referendum e portare più della metà degli elettori al voto: «vogliamo che il governo decida subito la data, lo chiedono un milione e mezzo di italiani - dice Marco Bersani del Comitato promotore 2 sì per l'acqua bene comune - Acqua bene pubblico è stato un lavoro carsico, non abbiamo mai avuto grandi spazi sui mass media. Ora ci aspettano tre mesi di lavoro duro. Credo che ce la faremo. Questa è una grande esperienza del basso che si muove verso l'alto. Più che destra o sinistra è un'esperienza di cittadinanza sociale che fa presente ai politici che nei palazzi ci si occupa di problemi inesistenti, mentre l'acqua è un tema vero».
Così ieri il comitato ha esordito con una conferenza stampa al teatro della Federazione operaia, ha distribuito braccialetti blu a Emma dei Modà e a Tricarico, ottenendo da Emma la promessa di indossarlo al bracco destro, quello che tiene il microfono. Anche se sul braccialetto non c'è scritto niente per evitare polemiche e censure, la scommessa è che pure Morandi lo porti in tv. Tra un flash mob e l'altro con artisti di strada, nella kermesse della canzone che popola la cittadina di un'infinità di creature mediatiche, il comitato ha inoltre organizzato un concerto in piazza stasera. È possibile seguirlo in streaming su acquabenecomune.org dalle 19 in poi. Sul palco Andrea Rivera, gli Yo Yo Mundi e Lorenzo Monguzzi dei Mercanti di Liquore. Presentano Cinzia Mareseglia dello Zelig off e il cantautore Flavio Pirini.
Alessandra Fava (Manifesto, 18 Febbraio)

Alla radice del disordine internazionale

Il G20 finanziario dello scorso weekend è stato l'ennesimo appuntamento ad uso delle telecamere che non ha portato a nessun risultato concreto. Anzi, leggendo tra le righe si capisce come ormai l'egemonia americana abbia lasciato spazio ad un nuovo disordine mondiale.
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.

Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)

lunedì 21 febbraio 2011

Il linguaggio rubato


Il linguaggio rubato

L'unità d'Italia fu anche unità linguistica, spesso lo dimentichiamo. A ricordarcelo in questi mesi è la “Società Dante Alighieri”, l'istituzione che dal 1889 tutela, diffonde e potenzia in Italia e nel mondo la lingua italiana, quel mezzo di comunicazione che ci identifica più e prima di ogni altro.

            Un convegno di pochi giorni fa, organizzato a Roma dalla Dante, ha puntato  l'indice contro uno dei molti mali che affliggono l'italiano: l'appropriazione e conseguente svuotamento del significato originario di molte parole ed espressioni della lingua italiana da parte della politica. La letteratura sull'argomento è vasta e sicuramente si è estesa ancor più durante l'era Berlusconi; i protagonisti del convegno di Roma sono stati il professor Zagrebelsky ed il senatore Carofiglio, entrambi autori di libri sul linguaggio usciti di recente *.

            Gli analisti del linguaggio berlusconiano pare concordino sul fatto che sia lui l'artefice di un nuovo politichese, fin dalla famosa “discesa in campo” del 1994. Espressione rubata al mondo del calcio e che secondo Zagrebelsky è “l'esatto contrario di ciò che dovrebbe accadere in democrazia”; espressione che calza però a pennello con l'agire di un Presidente del Governo che dispone del Parlamento come se fosse la propria squadra di calcio e che probabilmente assimila l'acquisto dei giocatori ad inizio stagione con il comprare deputati in casi di emergenza. Non a caso parla spesso di “squadra di governo” e “governo” è, statisticamente, la parola che il premier ha ripetuto più spesso nel corso del 2010. E' lui inoltre il “difensore della democrazia”, preferibilmente contro il pressing della Magistratura.

            Mi viene spontaneo chiedermi, ogni volta che ascolto un discorso del nostro capo del Governo, quali siano gli elementi della sua dialettica che catturano e conquistano l'attenzione degli italiani. Le sue frasi brevi. Il vocabolario comune, affatto ricercato. La chiarezza, l'immediatezza, la certezza assoluta (“sono sicurissimo che...”, “sono convinto che...”, “non c'è dubbio...”). La dizione relativamente lenta, adatta ad un pubblico infantile. Tutte caratteristiche che moltissimi italiani apprezzano, perché considerano che finalmente qualcuno parla di politica in modo chiaro, alla portata di tutti, con senso comune. Senso comune e chiarezza che, purtroppo, mancano al linguaggio del centrosinistra, che si disperde in mille metafore ed abusa di una miriade di espressioni idiomatiche di cui si fatica ad  interpretare il senso (oggetto di continua ed ironica esegesi è, per esempio, il modo di esprimersi di Bersani; dai suoi “tortelli a misura di bocca” a proposito dei conti pubblici, ai già mitici “tre prosciutti” che “non ci vengono fuori da un maiale”, parlando della Finanziaria. Se poi si vuole “un partito che funzioni come una bocciofila” allora almeno gli over 60 avranno capito di che tipo di partito si tratta).

            Le metafore di Berlusconi sono invece chiare per tutti; il proclamare per esempio di non volere “mettere le mani nelle tasche degli italiani” (a proposito della Finanziaria dello scorso maggio) è un linguaggio proprio di chi gestisce la cosa pubblica come se si trattasse della propria un'azienda privata e, come suggerisce Zagrebelsky,  un'espressione  che “trascina con sé l'idea che pagare le tasse non sia ciò che dice la Costituzione -cioè un dovere di cittadinanza- ma venga considerato come un borseggio”.

            Dalla metafora spiccia alla barzelletta, altro punto di forza del linguaggio berlusconiano, il passo è breve. La barzelletta lo rende accessibile, umano, vicino alla gente comune. Ed è quasi sicuramente la barzelletta ad esprimere il vero, più recondito ed intimo pensiero berlusconiano, ciò che egli davvero pensa del mondo e degli altri. Una  “profonda confessione di sé”, la sua “descrizione più autentica e completa”**. E preferiremmo non ricordare le battute sugli ebrei, l'aids, le donne...

            Vale la pena di ricordare invece la crociata berlusconiana, espressa sempre in termini apocalittici, contro il Comunismo, “che porta fame, miseria e morte”; la sinistra vista come l'espressione del Male, summa di tutto il vecchiume dei tempi della Prima Repubblica, fatto di “apparato”, “burocrazia”, “Stato” inteso come pachiderma sonnacchioso e “dispotico”, “strisciante”, contrapposto con violenza ad un nuovo concetto di democrazia  fondato sull'efficacia e l'immediatezza del marketing. E nella foga  si saccheggia il linguaggio bellico, con  frequenti “entrate in guerra” e  “chiamate alle armi” ed i sempre più frequenti “scontri” tra politica di Governo, Giustizia ed opposizione.

            E la sinistra? Secondo Carofiglio non è bene che rinunci alle metafore; non a caso “oggi il politico italiano che riscuote il maggior successo in pubblico è Nichi Vendola perché i suoi discorsi sono innervati di metafore che alludono all'esperienza sensoriale e non all'astrattezza concettuale. Questo è uno dei suoi punti di forza: l'uso consapevole di metafore che mettono in moto dei meccanismi interiori in chi ascolta".           Personalmente, pur considerando gradevole ed accattivante l'eloquio di Vendola in termini generali, lo associo benevolmente a quello di Mario Ruoppolo, il “Postino” di Troisi: “metafore...metafore...”, metafore troppo spesso fini a sé stesse, che evidentemente non attivano fino in fondo quei “meccanismi interiori di chi ascolta” -e di cui parla Carofiglio- al punto da spingerli a tradurre l'”esperienza sensoriale” in gesti concreti.
            Un linguaggio troppo spesso in codice, quello della nostra sinistra, oggetto quindi di mille interpretazioni e controversie e che, sul piano politico, si diluisce, si frammenta e si disperde in una gamma infinita di sfumature di una stessa idea. Sfumature che non arrivano poi a conciliarsi e fondersi (pensiamo anche solo alla travagliata scelta di un nome che definisse il centrosinistra; tra gli altri, “Uniti nell'ulivo”, “Nuovo ulivo”, “Federazione dell'ulivo”...). La sinistra, in quanto a linguaggio politico, non ha innovato; e forse c'è da dar ragione a Luca Ricolfi quando la accusa di sottile antipatia, che scaturirebbe in parte da una ferma autoconvinzione di superiorità intellettuale ***. In un'epoca in cui gli uomini politici di successo in pubblico sono sempre più spesso sopra le righe od addirittura irriverenti, la sinistra non ha saputo cogliere l' importanza di questa rivoluzione ed “ha alimentato la caccia alle streghe sul terreno della lingua”, accusando la destra di “deriva populista ed esonerando sé stessa da qualsiasi imperativo di cambiamento”***.
            Il linguaggio oscuro stanca ed irrita non solo gli avversari politici ma anche gli elettori. Solo per citare un esempio, alle tre “i” del programma elettorale di Berlusconi nel 2001– inglese, informatica, impresa- tre proposte facilissimamente comprensibili e gradite alle orecchie di qualsiasi cittadino, Rutelli e Fassino opposero le tre “i” nebulose di “Italia, identità, innovazione”, sul cui significato l'elettorato poteva ben scervellarsi.

            Decisamente, una sinistra davvero rivoluzionaria dovrebbe stare con Rosa Luxembourg: iniziare a “chiamare le cose per il loro nome”.

Monica, Salamanca, Spagna

    * Il colloquio della Dante Alighieri nell'ambito dell'iniziativa “Pagine aperte” presentava i libri di Gustavo Zagrebelsky, "Sulla lingua del tempo presente" (Einaudi) e quello di Gianrico Carofiglio, “La manomissione delle parole” (Rizzoli).
    **Martin Rueff, “Berlusconisme, césarisme et langage politique”, scritto per Mediapart
    ***Luca Ricolfi, “Perché siamo antipatici? La sinistra ed il complesso dei migliori” (Longanesi)

venerdì 18 febbraio 2011

E la lotta di classe si sposta tra i banchi


MARCO LODOLI (Repubblica)
 
Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po’retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori.
Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. «A me professò sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia... ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?». Questo mi dice Antonia e neanche mi guarda quando parla, guarda fuori, verso i palazzoni di questo quartiere di periferia, verso quei prati dove ancora le pecore pascolano tra gli acquedotti romani e il cemento. Qui la divina provvidenza del merito non passa, non illumina, non salva quasi nessuno.
Guardo la classe: Michela ha confessato che non può fare i disegni di moda perché a casa non ha un tavolo, nemmeno quello da pranzo. Mangia con la madre e la sorella seduta sul letto, con il vassoio sulle ginocchia, in una casa che è letteralmente un buco. Roberta invece mi racconta che stanotte hanno sparato in faccia al migliore amico del suo fidanzato, «era uno che se faceva grosso, che stava sulle palle a tanti, ma nun era n’animale cattivo, nun se lo meritava de morì così a ventidue anni». Samantha invece trema perché stanno per buttarla fuori di casa, a lei e alla madre e ai due fratelli, lo sfratto ormai è esecutivo e i soldi per pagare l’affitto non ce li hanno, forse già stanotte li aspetta la macchina parcheggiata in uno slargo vicino casa, forse dovranno dormire lì, e lavarsi alla fontanella con gli zingari.
La miseria produce paura, aggressività, ignoranza, cinismo. In pochi hanno i libri di scuola, si va avanti a fotocopie, anche se ogni insegnante ha ricevuto solo centocinquanta fogli per tutto l’anno, «perché i tagli si fanno sentire anche sui cinque euro, la scuola non ha più un soldo». In queste scuole di periferia le tragedie si accumulano come legna bagnata che non arde e non scalda, ma fuma e intossica. Tumori, disoccupazione, cirrosi epatica, aborti, droga, incidenti stradali, strozzini, divorzi, risse: tutto s’ammucchia orrendamente, tutto si mette di traverso e oscura il cielo. A ragazzi così segnati, così distratti dalla vita storta, oggi devo spiegare l’iperbole e la metonimia, Re Sole e Versailles, Foscolo e il Neoclassicismo. E loro già sanno che è tutto inutile, che i posti migliori sono già stati assegnati,e anche quelli meno buoni,e persino quelli in piedi. Hanno già nel sangue la polvere del mondo, il disincanto.
«E non ci venissero a parlà di eccellenza che je tiro appresso er banco. Tanto ormai s’è capito come funziona sto mondo: mica serve che lavorino trenta milioni de persone, ne abbastano tre, e un po’di marocchini a pulì uffici e cessi. Il paese deve funzionà come n’azienda? E allora noi non serviamo, siamo solo un peso. Tre milioni de capoccioni, de gente che sa tutto e sa come mette le mani nei computer e nelle banche, e gli altri a spasso. Gli altri a rubà, a spaccià, in galera, ar camposanto, dentro una vita di merda». Forse ha ragione questa ragazza, suo padre ha "un brutto male", come direbbe il buongusto- «un cancro che lo spacca, professò», dice lei- forse è vero che non dobbiamo fare della meritocrazia un ulteriore setaccio: l’oro passa e le pietre vengono buttate via.
I ricchi hanno capito al volo l’aria che tira, aria da Titanic, e hanno subito occupato le poche scialuppe di salvataggio: scuole straniere, master, stage, investimenti totali nello studio. L’élite non ha più tempo né voglia di ascoltare le pene della nazione, le voci dei bassifondi: ha intuito il tracollo della scuola pubblica e ha puntato sulle scuole di lusso. E così la scuola non è più il luogo del confronto, della convergenza, dell’appianamento delle differenze e della crescita collettiva. Non si sta più tutti insieme a istruirsi per un futuro migliore, a sognare insieme. Chi ha i soldi il futuro se lo compra, o comunque si prepara a "meritarselo". Chi non ha niente annaspa nel niente e deve anche subire l’affronto dei discorsi sull’eccellenza. Ormai il nostro paese è tornato ad essere ferocemente classista, ai poveri gli si butta un osso e un’emozione della De Filippi, li si lascia nell’abbrutimento e nell’ignoranza, mentre ai ricchi si aprono le belle strade che vanno lontano: lontano da qui, da questa nazione che inizia a puzzare come uno stagno d’acqua morta.
 

giovedì 17 febbraio 2011

Per una nuova Europa: lotte universitarie contro l'austerità - Verso una Rete Europea di Lotte

 
Da Londra a Vienna, da Roma a Parigi, da Atene a Madrid, una nuova Europa sta emergendo. Studenti e precari, cittadini emigranti, le moltitudini si battono in prima linea dentro la crisi, per la loro vita e per il futuro. Lottano per riappropriarsi dei loro diritti e la ricchezza condivisa che creano ogni giorno. Si ribellano alle misure di austerità che sfruttano il nostro presente e ci derubano del nostro futuro. Si rivoltano contro l'arroganza del potere.

Seguendo il percorso costruito negli ultimi anni, i meeting del '"Bologna Burns" a Vienna, Londra, Parigi e Bologna, "Commoniversity" a Barcellona, Edu-Factory e l'Autonomous Education Network si sono uniti nella richiesta di un incontro europeo per tutte le realtà  interne a questa lotta comune, al fine di creare una potente rete europea dei conflitti nell'università e oltre. Uno spazio transnazionale dove discutere e sviluppare la nostra capacità politica collettiva per contrastare gli attacchi contro l'università e il welfare, per costruire un nuovo futuro per tutti.

Attraverso conferenze e workshop, incontri e assemblee, proponiamo una discussione intorno ai temi chiave dell'università,  come la produzione autonoma di conoscenza, l'autoformazione, le lotte in rete, l'organizzazione politica transnazionale e il comune.

Per noi il tempo è ormai maturo: bisogna sollevarsi ora, insieme, collettivamente e singolarmente, per reclamare la nostra vita e costruire una nuova Europa, basata sui diritti e la libertà. È giunto il momento di riprendere ciò che è nostro: il comune.

http://www.edu-factory.org/wp/european-meeting-of-university-struggles-program/#italian

Se il bambù prova a piegare l'acciaio

Sembra un paesaggio placido. La strada corre lungo il fiume tra risaie, boschetti di manghi e bambù, piccoli villaggi con case di muratura, ancora risaie, stagni con piccoli allevamenti artigianali di gamberi. Tralicci con ripetitori di telefonini, numerosi quanto le edicole votive hindu disseminate nella campagna. Nei campi, donne e uomini trapiantano le nuove piantine di riso, poi le pompe meccaniche allagano la risaia.
Stona con l'idillio agreste il posto di guardia dove agenti di polizia guardano sospettosi i veicoli di passaggio, a un crocicchio tra risaie e stagni. «E' qui che teniamo tutte le nostre proteste», spiega Tapan Mandal, agricoltore di Dhinkia, uno dei tre panchayat (municipi rurali) di questa zona nel delta del fiume Mahanadi, distretto di Jagatsinghpur, nello stato indiano di Orissa affacciato sul golfo del Bengala. E' qui che dovrebbe materializzarsi uno dei più discussi progetti industriali in cantiere in India, una grande acciaieria costruita dal gruppo sudcoreano Posco, con annesso nuovo porto commerciale.
L'azienda sudcoreana ci investirà 12 miliardi di dollari, e porterà «una tecnologia innovativa sviluppata dalla stessa Posco, meno inquinante e più efficiente delle tecnologie oggi in uso», ci dice Priyabrata Patnaik, direttore generale dell'ente di stato per lo sviluppo industriale dell'Orissa. Nel suo ufficio a Bhubaneshwar, capitale dello stato, l'alto funzionario magnifica la nuova impresa: «Creerà 18 mila posti di lavoro e indirettamente altri 30mila, senza contare l'effetto moltiplicatore sull'intera economia locale. L'Orissa ha grandi giacimenti minerari, una ricchezza che attende di essere sfruttata. Sarebbe una grave battuta d'arresto per l'intera economia indiana se il progetto Posco non andasse avanti».
Nei villaggi del delta la vedono diversamente. Lo stabilimento e il porto richiedono 1.600 ettari, cioè la terra di otto villaggi in tre municipi rurali. E anche se di recente la richiesta è scesa a 1.200 ettari, 25mila persone resteranno senza terra da coltivare, o senza accesso al fiume per pescare. Così, da 5 anni ormai questi villaggi sono in agitazione, e due municipi su tre si sono pronunciati contro la cessione della terra.
«Qui viviamo di agricoltura, la terra per noi significa sopravvivenza», dice Sisir Mohapatra, il capo del consiglio municipale di Dhinkia (una carica elettiva). Lo incontro a casa sua, una costruzione di mattoni e tetto di legno e paglia, l'aia dove donne e uomini stanno ripulendo il riso, un piccolo stagno, l'orto. Sta tornando dai campi e mostra con orgoglio, sulla duna sabbiosa a ridosso del fiume, una serra artigianale con filari di betel, rampicante verdissimo dalle foglie larghe molto usate per fare involtini di spezie da masticare dopo il pasto («E' la nostra principale fonte di reddito, oltre al riso: le foglie di betel si vendono bene, le esportiamo fino a Mumbai»).
Chiedo: lo stato offre risarcimenti e posti di lavoro, non c'è un terreno di negoziato? «La terra non è in vendita, quindi inutile discutere il prezzo: non importa quanti risarcimenti ci offrono», risponde secco Mohapatra, mentre i vicini assentono. «La fabbrica darà posti di lavoro? Non per noi, salvo qualche lavoretto manuale. In uno stabilimento come quello serve lavoro specializzato che qui non c'è». Aggiunge: «Qui abbiamo un'economia agricola prospera. Il riso dà due raccolti l'anno, c'è il betel, ortaggi, frutta. I soldi finiscono in fretta, la terra è una garanzia per il futuro. Era degli avi, passerà ai figli».
Nel suo ufficio di Bhubaneshwar, il direttore dell'ente di stato per l'industria ci aveva mostrato i piani di nuove casette da costruire per i futuri sfollati: «La nostra politica di risarcimenti è la più generosa della nazione». Poi taglia corto: «L'89% di quella terra è improduttiva, e comunque appartiene allo stato: non saranno gli abitanti di pochi villaggi ad avere l'ultima parola».
Già: gran parte di quella terra è classificata «territorio forestale» (non significa per forza che ci siano foreste, ma che è terra statale non destinata a usi commerciali). E gran parte degli abitanti di questi municipi rurali non ha alcuna proprietà: sono mezzadri, pagano l'affitto ai pochi proprietari andati in città oppure coltivano la terra del demanio, quella che ora il governo dell'Orissa definisce «improduttiva». Tapan Mandal si fa i conti in tasca: l'affitto costa 2.000 rupie per acro a stagione, da pagare dopo il raccolto, e quella terra è così buona che tolti affitto e spese, resta un ricavo di 15mila rupie per acro per ciascun raccolto, circa 250 euro per poco meno di mezzo ettaro: un buon reddito, dice. «Per la semina del raccolto estivo, che stiamo facendo ora, arrivano braccianti da fuori: li paghiamo 200 rupie e tre pasti al giorno, più del salario minimo governativo».
Di fronte all'esproprio però gli agricoltori di Dhinkia, Nuagaon e i villaggi vicini non hanno titoli da far valere. «La legge di riforma agraria riconosce il diritto alla terra a chi la coltiva da almeno tre generazioni e questa gente dovrebbe avere dei titoli. Il governo però non li ha mai riconosciuti» spiega Sudhir Pattnaik, giornalista di Madhayantar, cooperativa editoriale che pubblica un magazine e video documentari diffusi su YouTube. «Così gli abitanti di Dhinkia risultano senza terra. E sono per lo più dalit», fuoricasta, lo scalino più basso della scala sociale hindu.
«Quali risarcimenti generosi?», dice Abhai Sahu, abitante di Dhinkia e presidente del «Comitato contro il progetto Posco» (Posco Pratirod Sangram Samiti). «Pochi hanno una proprietà, in queste terre costiere. E il governo sta trasformando un bene comune in una concessione privata».
Quando il governo ha cominciato l'acquisizione dei terreni privati, due anni fa, pochi hanno accettato («Solo i proprietari emigrati in città: loro non lavorano più la terra e non l'avrebbero mai venduta così bene senza il progetto industriale», spiega Prashant Paikray, il portavoce del Comitato). La realtà, insiste Sahu, «è che gli agricoltori perderanno la terra per sempre, e un risarcimento una tantum non garantisce il futuro». Sulla strada per il capoluogo Jagatsinghpur un grande cartello, «campo transito Posco», indica il futuro proposto a queste persone: una colonia di capannoni di cemento.
Cominciato cinque anni fa con sit-in e marce di protesta, il movimento «anti-displacement» ha avuto momenti caldi. Per mesi gli abitanti di Dhinkia e Nuagaon, i municipi ribelli, hanno fatto posti di blocco all'ingresso dei loro villaggi per tenere fuori i funzionari del governo e dell'azienda sudcoreana. Il 15 maggio scorso l'episodio più violento: la polizia è intervenuta contro un sit-in di massa che durava dall'inizio dell'anno a Balitutha, villaggio di mercato e via d'accesso ai tre municipi rurali. Ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma su manifestanti inermi, picchiato donne e uomini (oltre un centinaio di feriti) e incendiato negozi - un filmato diffuso su YouTube mostra agenti che appiccano le fiamme.
Da allora vige una tregua carica di tensione. La polizia ha presentato decine di denunce per violenze e resistenza ai pubblici ufficiali: alcune contro ignoti, altre contro i leader della protesta: «Non posso più andare a rappresentare il mio panchayat nel consiglio distrettuale altrimenti mi arrestano», dice Sisir Mohapatra. Il leader riconosciuto di questa battaglia, Abhai Sahu, è stato a lungo in galera e ha decine di denunce: «Le imputazioni alla fine cadono, ma la polizia ne trova altre. E' per dissuaderci».
Ora la fragile tregua nel delta del Mahanadi è finita. Il 31 gennaio il ministero dell'ambiente di New Delhi ha autorizzato il progetto, benché con una lunga lista di condizioni da rispettare. Il giorno dopo oltre 4.000 persone riunite in un'assemblea pubblica a Dhinkia, hanno deciso di rimettere i posti di blocco.
La tensione torna a salire. «La polizia ha ricominciato a demarcare il terreno, è tornata a presidiare le strade: vogliono spaventarci», riferisce Bhaskar Swain, capo eletto del municipio di Nuagaon. L'attività delle milizie di picchiatori è ripresa, riferiscono cronisti locali. Abhai Sahu si aspetta altri attacchi, tentativi di dividere la popolazione, arresti: «Ma noi resisteremo».
(Marina Forti, Il Manifesto, 17-02-11)