Non ci sono ormai più parole per descrivere il comportamento di Napolitano. Il suo settennato si sta chiudendo con i fuochi artificiali: dopo aver tentato di aggirare il Parlamento, dopo aver nominato saggi che non sapevano neanche loro cosa fare, dopo aver sostenuto che il governo Monti fosse in piena carica, ha deciso di sparare un altro colpo e concedere la grazia a Joseph Romano, militare americano condannato per il rapimento di Abu Omar. In quella circostanza la CIA prelevò illegalmente Abu Omar, un "estremista islamico", cittadino italiano, e lo portò in Egitto dove fu torturato dalla polizia locale nella speranza di ottenere informazioni su possibili atti di terrorismo.
Una pratica squallida che negli USA era stata decretata legale da una amministrazione, quella di Bush, che faceva a brandelli lo stato di diritto moderno, reintroducendo sotto mentite spoglia la tortura. E che, in Europa, dove l'estradizione momentanea a fino, appunto, di tortura, non era ammessa, prendeva la forma di rapimento. Insomma, due atti illegali in uno, con la sovranità dell'Italia violata, con agenti americani che facevano quello che volevano all'estero. Questa da sempre è stata la linea difensiva degli USA: non potete condannare i nostri uomini che non stavano facendo nulla di male, secondo la nostra legge. Un'idea di diritto assai bizzarra, come se per loro valesse un diritto speciale, superiore alle leggi locali. Un'idea, evidentemente, condivisa in pieno da Napolitano.
Non contento Napolitano si rifà anche al momento storico. Le pratiche di rapimento e tortura erano ingiuste e illegittime ma, in fondo, c'è da capire lo stato d'animo degli americani, attaccati sul loro territorio. Insomma, contestualizziamo i crimini. La tortura non va bene, ma in alcune circostanze è, forse, comprensibile - chissà, magari lo era anche a Bolzaneto dove gli agenti di polizia carceraria erano sottoposti certo al grande stress psicologico dei giorni del g8.
Almeno così facciamo contento Obama. Un bell'atto di servilismo per ristabilire il nome dell'Italia nel mondo. Che questo avvenga graziando rapitori e parzialmente giustificando le pratiche di tortura, poco conta. Tanto si sa, in Italia la rule of law è una barzelletta.
Napolitano chiude così la sua carriera politica riscoprendo gli amori e gli ardori della sua gioventù, quando brindava ai militari sovietici che intervenivano in Ungheria. L'idea di diritto e di democrazia del Presidente è certamente coerente con quella di allora. La legge del più forte, la democrazia a sovranità limitata.
sabato 6 aprile 2013
Non si uccide una città
Di Simone Rossi
A due giorni dal quarto anniversario del terremoto che colpì L'Aquila e le località circostanti, il sindaco Massimo Cialente è intervento ai microfoni di Popolare Network per denunciare la lenta agonia della città. Nonostante i roboanti proclami dell'allora Presidente del Consiglio Berlusconi, le inutili passerelle ad uso televisivo ed il costoso progetto CASE, la città rimane in gran parte da ricostruire, in particolare il centro storico, fortemente danneggiato dall'evento sismico del 2009. Dopo quattro anni, innumerevoli passerelle di esponenti del centrodestra, la militarizzazione del centro storico aquilano, telefonate con risate tra spregevoli speculatori pronti a lucrare sulla tragedia, massaggi a base di preservativi per ristorare le membra del pio Bertolaso, un vertice internazionale organizzato in fretta e furia per sperperare denaro pubblico, centinaia di milioni stanziati per riparare ed ricostruire gli edifici L'Aquila muore, perde abitanti, soprattutto tra i giovani. Un risultato degno di una classe dirigente cialtrona, rapace, incapace e non di rado stupida come quella che una parte dell'Italia si è scelta e sembra continuare a desiderare.
Non sono solo gli edifici e le imprese a soffrire per le inadempienze dello Stato e per le lungaggini della burocrazia, anche il tessuto sociale ne paga le conseguenze. I quartieri satelliti costruiti per volontà di Berlusconi, simulacro di quelli che egli a suo tempo aveva edificato a Milano, con finti laghetti e finte piazze, sono non-luoghi, privi di servizi, di identità e di spazi per la socialità, in cui sono stati trasferite alcune centinaia di aquilini sradicati dal proprio contesto e privati delle proprie relazioni sociali e di vicinato. Nel frattempo, il centro storico è lasciato all'abbandono, con i pochi esercizi commerciali che hanno riaperto negli scorsi anni faticano a trovare clienti. Uno studio condotto dall'Università dell'Aquila e dalla locale. Asl ha rilevato un'incidenza della depressione pari al 10% tra gli aquilani, mentre il 30% della popolazione è affetta Secondo quanto riportato in un reportage dal settimanale L'Espresso lo scorso 20 febbraio, il consumo di stupefacenti tra i giovani e giovanissimi è cresciuto dopo il terremoto, anche nelle scuole.
Non sono solo gli edifici e le imprese a soffrire per le inadempienze dello Stato e per le lungaggini della burocrazia, anche il tessuto sociale ne paga le conseguenze. I quartieri satelliti costruiti per volontà di Berlusconi, simulacro di quelli che egli a suo tempo aveva edificato a Milano, con finti laghetti e finte piazze, sono non-luoghi, privi di servizi, di identità e di spazi per la socialità, in cui sono stati trasferite alcune centinaia di aquilini sradicati dal proprio contesto e privati delle proprie relazioni sociali e di vicinato. Nel frattempo, il centro storico è lasciato all'abbandono, con i pochi esercizi commerciali che hanno riaperto negli scorsi anni faticano a trovare clienti. Uno studio condotto dall'Università dell'Aquila e dalla locale. Asl ha rilevato un'incidenza della depressione pari al 10% tra gli aquilani, mentre il 30% della popolazione è affetta Secondo quanto riportato in un reportage dal settimanale L'Espresso lo scorso 20 febbraio, il consumo di stupefacenti tra i giovani e giovanissimi è cresciuto dopo il terremoto, anche nelle scuole.
L'Italia, la crisi e gli scenari catastrofici
di Nicola Melloni
da Liberazione
Come riportato da Federico Fubini sulle pagine del Corriere, la comunità economica internazionale tiene sotto costante scrutinio l’Italia. In questi giorni, alla conferenza dell’Institute for New Economic Thinking i delegati si sono trovati sotto gli occhi un breve documento prodotto da Bridgewater – il più grande hedge fund del mondo – che propone uno scenario catastrofico, per quanto improbabile: Grillo che vince le elezioni, l’Italia che esce dall’euro, l’Europa che collassa.
Il documento Bridgewater calcola una possibilità del 5-10% che questo scenario diventi reale. Un rischio marginale ma non proprio irrilevante. E, forse, sottostima i rischi. La crisi infatti sta entrando nella sua fase peggiore, nonostante politici, analisti, giornali ci continuino a ripetere che la ripresa è dietro l’angolo. La realtà, invece, è assai diversa. Le stime economiche parlano di continua recessione e, soprattutto, di un decennio di stagnazione alla fine del quinquennio di crollo economico, con devastanti conseguenze sociali. Questo infatti vorrebbe dire che non c’è, all’orizzonte, nessuna vera speranza di ripresa dell’occupazione se non, come nel Regno Unito, di lavoro precario e stagionale. Inoltre, gli effetti occupazionali della crisi vengono magnificati da un cambiamento strutturale nell’industria che, attraverso un nuovo ciclo di automatizzazione, sta ricominciando a produrre diminuendo la forza-lavoro impiegata, come nel caso degli Stati Uniti. Insomma, crescita zero, o quasi, con una quota sempre maggiore di profitti a danno della quota salari.
In tutto questo i governi della Ue non solo non riescono a rilanciare la crescita ma stanno anzi peggiorando la crisi, che ormai esce dai confini del Sud Europa. La Francia è quasi in recessione, tant’è che il ministro Moscovici ha chiesto più tempo alla Ue per raggiungere il target del deficit che rischia di costare altre centinaia di migliaia di posti di lavoro. La risposta tedesca è stata immediata: il rigore non è in contrasto con la crescita.
Lo schema proposto è sempre lo stesso: la disoccupazione si traduce in salari minori che rilancerebbero dunque produttività e competitività. L’aggiustamento strutturale delle economie del Sud Europa dovrebbe dunque avvenire sulla pelle dei lavoratori – come spiegato senza tanti giri di parole dalle ricerche della banca d’affari francese Natixis. Allo stesso tempo, i salari ridotti permetterebbero una riduzione dell’inflazione e dunque tassi di interesse molto bassi per poter rifinanziare il debito.
Un ragionamento economicista (per altro, come abbiamo detto più volte, drammaticamente sbagliato) che non tiene in conto le decisive variabili sociali e politiche. Ed è in questo, indubbiamente, che il documento di Bridgewater potrebbe rappresentare una salutare boccata di aria fresca. L’analisi della crisi deve muoversi dall’economia alla politica. In Europa tassi di disoccupazione simili a quelli attuali non sono stati registrati per quasi un secolo, e questo sta mettendo sotto tensione la tenuta del patto sociale. Nel giro di appena un paio di anni abbiamo visto la preoccupante crescita di un movimento para-nazista in Grecia e di molti altri gruppi anti-sistema nel resto d’Europa. L’Italia ovviamente è la punta dell’iceberg di questo fenomeno, come dimostrato dalle ultime elezioni. E’ impensabile che una situazione del genere possa durare ancora per lungo tempo. Nessuna democrazia è in grado di sopportare livelli di disoccupazione a doppia cifra per oltre dieci anni, né che i lavoratori continuino a impoverirsi senza batter ciglio. Per uscire da quest’impasse è dunque urgente una grande ed innovativa risposta politica. Purtroppo, però, l’Europa continua a rimanere un progetto acefalo, un grande mercato senza una vera guida politica – se non quella tedesca che sembra però non interessarsi ai bisogni degli Stati mediterranei. Ma senza un progetto condiviso, senza un patto sociale che tenga insieme gli europei su una base comune, senza le istituzioni di un vero stato, il mercato europeo è destinato a distruggere l’idea stessa di Europa.
da Liberazione
Come riportato da Federico Fubini sulle pagine del Corriere, la comunità economica internazionale tiene sotto costante scrutinio l’Italia. In questi giorni, alla conferenza dell’Institute for New Economic Thinking i delegati si sono trovati sotto gli occhi un breve documento prodotto da Bridgewater – il più grande hedge fund del mondo – che propone uno scenario catastrofico, per quanto improbabile: Grillo che vince le elezioni, l’Italia che esce dall’euro, l’Europa che collassa.
Il documento Bridgewater calcola una possibilità del 5-10% che questo scenario diventi reale. Un rischio marginale ma non proprio irrilevante. E, forse, sottostima i rischi. La crisi infatti sta entrando nella sua fase peggiore, nonostante politici, analisti, giornali ci continuino a ripetere che la ripresa è dietro l’angolo. La realtà, invece, è assai diversa. Le stime economiche parlano di continua recessione e, soprattutto, di un decennio di stagnazione alla fine del quinquennio di crollo economico, con devastanti conseguenze sociali. Questo infatti vorrebbe dire che non c’è, all’orizzonte, nessuna vera speranza di ripresa dell’occupazione se non, come nel Regno Unito, di lavoro precario e stagionale. Inoltre, gli effetti occupazionali della crisi vengono magnificati da un cambiamento strutturale nell’industria che, attraverso un nuovo ciclo di automatizzazione, sta ricominciando a produrre diminuendo la forza-lavoro impiegata, come nel caso degli Stati Uniti. Insomma, crescita zero, o quasi, con una quota sempre maggiore di profitti a danno della quota salari.
In tutto questo i governi della Ue non solo non riescono a rilanciare la crescita ma stanno anzi peggiorando la crisi, che ormai esce dai confini del Sud Europa. La Francia è quasi in recessione, tant’è che il ministro Moscovici ha chiesto più tempo alla Ue per raggiungere il target del deficit che rischia di costare altre centinaia di migliaia di posti di lavoro. La risposta tedesca è stata immediata: il rigore non è in contrasto con la crescita.
Lo schema proposto è sempre lo stesso: la disoccupazione si traduce in salari minori che rilancerebbero dunque produttività e competitività. L’aggiustamento strutturale delle economie del Sud Europa dovrebbe dunque avvenire sulla pelle dei lavoratori – come spiegato senza tanti giri di parole dalle ricerche della banca d’affari francese Natixis. Allo stesso tempo, i salari ridotti permetterebbero una riduzione dell’inflazione e dunque tassi di interesse molto bassi per poter rifinanziare il debito.
Un ragionamento economicista (per altro, come abbiamo detto più volte, drammaticamente sbagliato) che non tiene in conto le decisive variabili sociali e politiche. Ed è in questo, indubbiamente, che il documento di Bridgewater potrebbe rappresentare una salutare boccata di aria fresca. L’analisi della crisi deve muoversi dall’economia alla politica. In Europa tassi di disoccupazione simili a quelli attuali non sono stati registrati per quasi un secolo, e questo sta mettendo sotto tensione la tenuta del patto sociale. Nel giro di appena un paio di anni abbiamo visto la preoccupante crescita di un movimento para-nazista in Grecia e di molti altri gruppi anti-sistema nel resto d’Europa. L’Italia ovviamente è la punta dell’iceberg di questo fenomeno, come dimostrato dalle ultime elezioni. E’ impensabile che una situazione del genere possa durare ancora per lungo tempo. Nessuna democrazia è in grado di sopportare livelli di disoccupazione a doppia cifra per oltre dieci anni, né che i lavoratori continuino a impoverirsi senza batter ciglio. Per uscire da quest’impasse è dunque urgente una grande ed innovativa risposta politica. Purtroppo, però, l’Europa continua a rimanere un progetto acefalo, un grande mercato senza una vera guida politica – se non quella tedesca che sembra però non interessarsi ai bisogni degli Stati mediterranei. Ma senza un progetto condiviso, senza un patto sociale che tenga insieme gli europei su una base comune, senza le istituzioni di un vero stato, il mercato europeo è destinato a distruggere l’idea stessa di Europa.
Marx: ritorno al futuro?
Apparentemente anche il Time riscopre Karl Marx - come l'articolo proposto qui sotto spiega. Non tutto Marx, forse, è attuale, almeno così si sostiene. Ma l'anali fondamentale della storia come lotta di classe, e le contraddizioni, all'apparenza insanabili del capitalismo sono ancora tutte lì, come le descrisse il vecchio Karl 150 anni fa. Un capitalismo che porta ineguaglianza ed anche povertà. Una ridiscussione completa di 30 anni di neoliberismo secondo cui il mercato portava benefici a tutti ed una nuova era di concordia sociale si era aperta. In realtà, come ha sostenuto recentemente Luciano Gallino, la lotta di classe non si è mai fermata, ha solo cambiato protagonisti, con il capitale a picchiare duro sui lavoratori disorganizzati ed abbandonati dai partiti che una volta li rappresentavano. I dati sulla diseguaglianza parlano infatti di un mondo in cui le lancette dell'orologio sembrano essere tornate indietro di 100 e passa anni. Ora, per il Time, il lavoro ha, almeno in parte, smesso di subire e sta ricominciando ad organizzarsi. Gli esempi dati non sono del tutto convincenti. La Francia di Hollande con la sua supposta campagna anti-ricchi (molto a parole, quasi zero nei fatti...) e il risveglio della Cina operaia che ha cominciato a ribellarsi al mercato e allo sfruttamento. In entrambi i casi siamo ancora molto lontani da un vero punto di svolta e nel resto del mondo va pure peggio - basta pensare a come siamo ridotti in Italia. Eppure non bisogna disperare. L'analisi del capitalismo fatta da Marx è giusta. Se lo riscopre il Time, sarebbe ora lo facessero anche le varie sinistre mondiali. Solo allora si potrà ricominciare a combattere e, sperabilmente, a vincere.
Marx’s Revenge: How Class Struggle Is Shaping the World
di Michael Schuman
da Times
Karl Marx was supposed to be dead and buried. With the collapse of the Soviet Union and China’s Great Leap Forward into capitalism, communism faded into the quaint backdrop of James Bond movies or the deviant mantra of Kim Jong Un. The class conflict that Marx believed determined the course of history seemed to melt away in a prosperous era of free trade and free enterprise. The far-reaching power of globalization, linking the most remote corners of the planet in lucrative bonds of finance, outsourcing and “borderless” manufacturing, offered everybody from Silicon Valley tech gurus to Chinese farm girls ample opportunities to get rich. Asia in the latter decades of the 20th century witnessed perhaps the most remarkable record of poverty alleviation in human history — all thanks to the very capitalist tools of trade, entrepreneurship and foreign investment. Capitalism appeared to be fulfilling its promise — to uplift everyone to new heights of wealth and welfare.
Or so we thought. With the global economy in a protracted crisis, and workers around the world burdened by joblessness, debt and stagnant incomes, Marx’s biting critique of capitalism — that the system is inherently unjust and self-destructive — cannot be so easily dismissed. Marx theorized that the capitalist system would inevitably impoverish the masses as the world’s wealth became concentrated in the hands of a greedy few, causing economic crises and heightened conflict between the rich and working classes. “Accumulation of wealth at one pole is at the same time accumulation of misery, agony of toil, slavery, ignorance, brutality, mental degradation, at the opposite pole,” Marx wrote.
A growing dossier of evidence suggests that he may have been right. It is sadly all too easy to find statistics that show the rich are getting richer while the middle class and poor are not. A September study from the Economic Policy Institute (EPI) in Washington noted that the median annual earnings of a full-time, male worker in the U.S. in 2011, at $48,202, were smaller than in 1973. Between 1983 and 2010, 74% of the gains in wealth in the U.S. went to the richest 5%, while the bottom 60% suffered a decline, the EPI calculated. No wonder some have given the 19th century German philosopher a second look. In China, the Marxist country that turned its back on Marx, Yu Rongjun was inspired by world events to pen a musical based on Marx’s classic Das Kapital. “You can find reality matches what is described in the book,” says the playwright.
That’s not to say Marx was entirely correct. His “dictatorship of the proletariat” didn’t quite work out as planned. But the consequence of this widening inequality is just what Marx had predicted: class struggle is back. Workers of the world are growing angrier and demanding their fair share of the global economy. From the floor of the U.S. Congress to the streets of Athens to the assembly lines of southern China, political and economic events are being shaped by escalating tensions between capital and labor to a degree unseen since the communist revolutions of the 20th century. How this struggle plays out will influence the direction of global economic policy, the future of the welfare state, political stability in China, and who governs from Washington to Rome. What would Marx say today? “Some variation of: ‘I told you so,’” says Richard Wolff, a Marxist economist at the New School in New York. “The income gap is producing a level of tension that I have not seen in my lifetime.”
Tensions between economic classes in the U.S. are clearly on the rise. Society has been perceived as split between the “99%” (the regular folk, struggling to get by) and the “1%” (the connected and privileged superrich getting richer every day). In a Pew Research Center poll released last year, two-thirds of the respondents believed the U.S. suffered from “strong” or “very strong” conflict between rich and poor, a significant 19-percentage-point increase from 2009, ranking it as the No. 1 division in society.
The heightened conflict has dominated American politics. The partisan battle over how to fix the nation’s budget deficit has been, to a great degree, a class struggle. Whenever President Barack Obama talks of raising taxes on the wealthiest Americans to close the budget gap, conservatives scream he is launching a “class war” against the affluent. Yet the Republicans are engaged in some class struggle of their own. The GOP’s plan for fiscal health effectively hoists the burden of adjustment onto the middle and poorer economic classes through cuts to social services. Obama based a big part of his re-election campaign on characterizing the Republicans as insensitive to the working classes. GOP nominee Mitt Romney, the President charged, had only a “one-point plan” for the U.S. economy — “to make sure that folks at the top play by a different set of rules.”
Amid the rhetoric, though, there are signs that this new American classism has shifted the debate over the nation’s economic policy. Trickle-down economics, which insists that the success of the 1% will benefit the 99%, has come under heavy scrutiny. David Madland, a director at the Center for American Progress, a Washington-based think tank, believes that the 2012 presidential campaign has brought about a renewed focus on rebuilding the middle class, and a search for a different economic agenda to achieve that goal. “The whole way of thinking about the economy is being turned on its head,” he says. “I sense a fundamental shift taking place.”
The ferocity of the new class struggle is even more pronounced in France. Last May, as the pain of the financial crisis and budget cuts made the rich-poor divide starker to many ordinary citizens, they voted in the Socialist Party’s François Hollande, who had once proclaimed: “I don’t like the rich.” He has proved true to his word. Key to his victory was a campaign pledge to extract more from the wealthy to maintain France’s welfare state. To avoid the drastic spending cuts other policymakers in Europe have instituted to close yawning budget deficits, Hollande planned to hike the income tax rate to as high as 75%. Though that idea got shot down by the country’s Constitutional Council, Hollande is scheming ways to introduce a similar measure. At the same time, Hollande has tilted government back toward the common man. He reversed an unpopular decision by his predecessor to increase France’s retirement age by lowering it back down to the original 60 for some workers. Many in France want Hollande to go even further. “Hollande’s tax proposal has to be the first step in the government acknowledging capitalism in its current form has become so unfair and dysfunctional it risks imploding without deep reform,” says Charlotte Boulanger, a development official for NGOs.
His tactics, however, are sparking a backlash from the capitalist class. Mao Zedong might have insisted that “political power grows out of the barrel of a gun,” but in a world where das kapital is more and more mobile, the weapons of class struggle have changed. Rather than paying out to Hollande, some of France’s wealthy are moving out — taking badly needed jobs and investment with them. Jean-Émile Rosenblum, founder of online retailer Pixmania.com, is setting up both his life and new venture in the U.S., where he feels the climate is far more hospitable for businessmen. “Increased class conflict is a normal consequence of any economic crisis, but the political exploitation of that has been demagogic and discriminatory,” Rosenblum says. “Rather than relying on (entrepreneurs) to create the companies and jobs we need, France is hounding them away.”
The rich-poor divide is perhaps most volatile in China. Ironically, Obama and the newly installed President of Communist China, Xi Jinping, face the same challenge. Intensifying class struggle is not just a phenomenon of the slow-growth, debt-ridden industrialized world. Even in rapidly expanding emerging markets, tension between rich and poor is becoming a primary concern for policymakers. Contrary to what many disgruntled Americans and Europeans believe, China has not been a workers’ paradise. The “iron rice bowl” — the Mao-era practice of guaranteeing workers jobs for life — faded with Maoism, and during the reform era, workers have had few rights. Even though wage income in China’s cities is growing substantially, the rich-poor gap is extremely wide. Another Pew study revealed that nearly half of the Chinese surveyed consider the rich-poor divide a very big problem, while 8 out of 10 agreed with the proposition that the “rich just get richer while the poor get poorer” in China.
Resentment is reaching a boiling point in China’s factory towns. “People from the outside see our lives as very bountiful, but the real life in the factory is very different,” says factory worker Peng Ming in the southern industrial enclave of Shenzhen. Facing long hours, rising costs, indifferent managers and often late pay, workers are beginning to sound like true proletariat. “The way the rich get money is through exploiting the workers,” says Guan Guohau, another Shenzhen factory employee. “Communism is what we are looking forward to.” Unless the government takes greater action to improve their welfare, they say, the laborers will become more and more willing to take action themselves. “Workers will organize more,” Peng predicts. “All the workers should be united.”
That may already be happening. Tracking the level of labor unrest in China is difficult, but experts believe it has been on the rise. A new generation of factory workers — better informed than their parents, thanks to the Internet — has become more outspoken in its demands for better wages and working conditions. So far, the government’s response has been mixed. Policymakers have raised minimum wages to boost incomes, toughened up labor laws to give workers more protection, and in some cases, allowed them to strike. But the government still discourages independent worker activism, often with force. Such tactics have left China’s proletariat distrustful of their proletarian dictatorship. “The government thinks more about the companies than us,” says Guan. If Xi doesn’t reform the economy so the ordinary Chinese benefit more from the nation’s growth, he runs the risk of fueling social unrest.
Marx would have predicted just such an outcome. As the proletariat woke to their common class interests, they’d overthrow the unjust capitalist system and replace it with a new, socialist wonderland. Communists “openly declare that their ends can be attained only by the forcible overthrow of all existing social conditions,” Marx wrote. “The proletarians have nothing to lose but their chains.” There are signs that the world’s laborers are increasingly impatient with their feeble prospects. Tens of thousands have taken to the streets of cities like Madrid and Athens, protesting stratospheric unemployment and the austerity measures that are making matters even worse.
So far, though, Marx’s revolution has yet to materialize. Workers may have common problems, but they aren’t banding together to resolve them. Union membership in the U.S., for example, has continued to decline through the economic crisis, while the Occupy Wall Street movement fizzled. Protesters, says Jacques Rancière, an expert in Marxism at the University of Paris, aren’t aiming to replace capitalism, as Marx had forecast, but merely to reform it. “We’re not seeing protesting classes call for an overthrow or destruction of socioeconomic systems in place,” he explains. “What class conflict is producing today are calls to fix systems so they become more viable and sustainable for the long run by redistributing the wealth created.”
Despite such calls, however, current economic policy continues to fuel class tensions. In China, senior officials have paid lip service to narrowing the income gap but in practice have dodged the reforms (fighting corruption, liberalizing the finance sector) that could make that happen. Debt-burdened governments in Europe have slashed welfare programs even as joblessness has risen and growth sagged. In most cases, the solution chosen to repair capitalism has been more capitalism. Policymakers in Rome, Madrid and Athens are being pressured by bondholders to dismantle protection for workers and further deregulate domestic markets. Owen Jones, the British author of Chavs: The Demonization of the Working Class, calls this “a class war from above.”
There are few to stand in the way. The emergence of a global labor market has defanged unions throughout the developed world. The political left, dragged rightward since the free-market onslaught of Margaret Thatcher and Ronald Reagan, has not devised a credible alternative course. “Virtually all progressive or leftist parties contributed at some point to the rise and reach of financial markets, and rolling back of welfare systems in order to prove they were capable of reform,” Rancière notes. “I’d say the prospects of Labor or Socialists parties or governments anywhere significantly reconfiguring — much less turning over — current economic systems to be pretty faint.”
That leaves open a scary possibility: that Marx not only diagnosed capitalism’s flaws but also the outcome of those flaws. If policymakers don’t discover new methods of ensuring fair economic opportunity, the workers of the world may just unite. Marx may yet have his revenge.
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