Palloncini nella fontana più fotografata della città, flash mob, distribuzione di braccialetti blu a cantanti di passaggio come Emma Marrone dei Modà e Tricarico che assicurano di indossarlo sul palco dell'Ariston e un concerto in piazza: così il comitato referendario 2 Sì per l'Acqua Bene Comune approda a Sanremo, nel cuore del Festival, massimo evento di distrazione di massa, per parlare di acquedotti, reti e rincari delle bollette dopo le privatizzazioni. Il loro si chiama Festival dell'acqua. «In effetti è una bella scommessa - commenta Giorgio Caniglia del Coordinamento imperiese che raccoglie diverse realtà della provincia del ponente ligure, come Attac, Sanremo sostenibile, Prau grande, la Talpa e l'orologio, il Circolo 25 aprile di Ventimiglia, Arci e Legambiente di Taggia - Abbiamo scelto di approdare in una situazione di grande distrazione per fare una comunicazione gioiosa e musicale. Non siamo un controfestival, ma un evento nel festival. Vogliamo informare gli italiani che ci sarà un referendum». Caniglia assicura che se parli di acqua, di bollette e di acquedotti, ti stanno a sentire anche in una delle province più azzurre d'Italia: «abbiamo fatto un buon lavoro con gli enti locali, una ventina di sindaci, su sessanta, si sono opposti alla privatizzazione proposta dalla Provincia di Imperia e alla fine hanno vinto». «Almeno qui si è riuscito a mantenere lo status quo: una situazione a macchia di leopardo - ti spiegano gli attivisti del comitato accanto al palco montato in piazza San Siro a due passi dall'Ariston - Imperia e Sanremo hanno delle spa pubbliche, alcuni comuni dell'interno come Dolceacqua hanno privatizzato da anni e invece Bordighera continua a mantenere l'acquedotto pubblico e questo fa risparmiare i suoi cittadini».
Dopo il milione e mezzo di firme raccolte (10 mila circa in provincia di Imperia), ora l'obiettivo è arrivare al referendum e portare più della metà degli elettori al voto: «vogliamo che il governo decida subito la data, lo chiedono un milione e mezzo di italiani - dice Marco Bersani del Comitato promotore 2 sì per l'acqua bene comune - Acqua bene pubblico è stato un lavoro carsico, non abbiamo mai avuto grandi spazi sui mass media. Ora ci aspettano tre mesi di lavoro duro. Credo che ce la faremo. Questa è una grande esperienza del basso che si muove verso l'alto. Più che destra o sinistra è un'esperienza di cittadinanza sociale che fa presente ai politici che nei palazzi ci si occupa di problemi inesistenti, mentre l'acqua è un tema vero».
Così ieri il comitato ha esordito con una conferenza stampa al teatro della Federazione operaia, ha distribuito braccialetti blu a Emma dei Modà e a Tricarico, ottenendo da Emma la promessa di indossarlo al bracco destro, quello che tiene il microfono. Anche se sul braccialetto non c'è scritto niente per evitare polemiche e censure, la scommessa è che pure Morandi lo porti in tv. Tra un flash mob e l'altro con artisti di strada, nella kermesse della canzone che popola la cittadina di un'infinità di creature mediatiche, il comitato ha inoltre organizzato un concerto in piazza stasera. È possibile seguirlo in streaming su acquabenecomune.org dalle 19 in poi. Sul palco Andrea Rivera, gli Yo Yo Mundi e Lorenzo Monguzzi dei Mercanti di Liquore. Presentano Cinzia Mareseglia dello Zelig off e il cantautore Flavio Pirini.
Alessandra Fava (Manifesto, 18 Febbraio)
martedì 22 febbraio 2011
Acqua azzurra, acqua pubblica
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Alla radice del disordine internazionale
Il G20 finanziario dello scorso weekend è stato l'ennesimo appuntamento ad uso delle telecamere che non ha portato a nessun risultato concreto. Anzi, leggendo tra le righe si capisce come ormai l'egemonia americana abbia lasciato spazio ad un nuovo disordine mondiale.
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.
Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)
I temi in discussione erano soprattutto due, i disequilibri commerciali - esemplificati dal deficit americano e dal surplus cinese - e l'aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Nel primo caso, gli Stati Uniti hanno continuato a chiedere con forza uno stabilizzatore automatico per evitare il ripetersi di situazioni come quelle attuali ma non hanno ottenuto nient'altro che dichiarazioni formali. Washington continua il pressing su Pechino perchè rivaluti lo yuan, in tal maniera da ridurre le importazioni cinesi e rendere più competitive le merci americane. Ma una analisi più approfondita rivela che tale richiesta semplifica un problema ben più sostanziale, senza dare una risposta di sistema. Infatti in questi ultimi cinque anni la Cina ha lasciato che la propria valuta si riapprezzasse di oltre il 20 percento in termini nominali senza che il deficit commerciale americano diminuisse in maniera sostanziale. E soprattutto, se si tiene conto della crescente inflazione cinese che determina un sempre più alto costo del lavoro, lo yuan si è rivalutato, in termini reali, di quasi il 50 percento. Il punto è che ormai molte merci non vengono più prodotte in Occidente, le fabbriche sono state delocalizzate e la Cina offre, nonostante l'inflazione, rendimenti sugli investimenti molto più alti di quelli che possano garantire gli Stati Uniti. La Cina, nonostante la crisi internazionale, ha continuato a crescere e quindi continua ad attirare il capitale internazionale. Non può certo essere un mero riaggiustamento del cambio a modificare questa situazione.
La crescita economica cinese e l'inflazione che l'accompagna ci porta al problema successivo - l'impennata dei prezzi delle materie prime. Tremonti ha parlato di gravi responsabilità della speculazione internazionale che scommettendo su una ripresa economica anche in Occidente ha spinto i prezzi verso l'alto. Questo è sicuramente vero, ma, nuovamente, si tratta solo di una escrescenza del problema e non della sua vera natura. In Europa e negli Stati Uniti siamo sempre stati abituati a pensare che nei periodi di recessione i prezzi delle materie prime sarebbero calati a causa della diminuita domanda, e per secoli, infatti, le cose si sono svolte esattamente in questa maniera. La situazione però ora è cambiata, drammaticamente. Negli Stati Uniti i salari sono stagnanti e la disoccupazione non decresce, ciò nonostantel’inflazione a Gennaio è cresciuta dell’1.6%, guidata dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità – energia e cibo. Una situazione simile si sta concretizzando in Europa, con ef- fetti facilmente immaginabili, diminu- zione del potere d’acquisto dei salari e peggioramento delle condizioni di vita per i detentori di reddito da lavoro. La crescita dei prezzi è provocata dalla prepotente entrata nei mercati internazionali di Cina, India, Brasile che più che compensano la stagnazione delle economie occidentali, nel frattempo generando una situazione di disastro sociale nelle economie più deboli, come quelle del Maghreb, dove il rincaro delle materie prima ha effetti devastanti. La questione sociale però rischia di non fermarsi a sud del Meditteraneo. In una Europa sempre più impoverita e marginale la crisi rimette al centro della discussione politica la questione sociale. Questione sociale che, ovviamente, non è mai sparita ma è stata tenuta sotto controllo in questi ultimi vent’anni di egemonia neo-liberale dal processo di globalizzazione di marca americana che permetteva l’arrivo di merci a bassissimo costo dal Sud e soprattutto dall’Est del mondo. I salari sono rimasti in molti casi stagnanti, la forbice tra ricchi e poveri si è allargata, ma il potere d’acquisto si è mantenuto nella maggior parte dei casi intatto. Ma proprio il mo- dello di sfruttamento compulsivo del- le economie emergenti ci ha portato al- la situazione attuale, dimenticando che il capitalismo è sempre stato legato alla produzione di valore, e quindi di mer- ci, e dunque il cuore del capitalismo mondiale si è mano a mano spostato verso Oriente. La crisi finanziaria e la fine dell’egemonia americana ci lasciano quindi un mondo disordinato in cui le tensioni – tanto domestiche quanto internazionali – si susseguono. Il G20 non è neanche in grado di imporre re- strizioni sui movimenti di capitale che ridarebbero fiato agli stati, restringendo le capacità della finanza internazionale di imporre le proprie politiche economiche prova ne sia l’intensa attività di lobby esercitata dalle associazioni im- prenditoriali americane nei giorni scorsi in difesa della mobilità del capitale e degli accordi di libero scambio. Lasciare che sia ancora la supposta ma inesistente razionalità del mercato ad aggiustare la crisi e gli squilibri è utopia e, più spesso, malafede. Il capitalismo liberale porta sperequazioni, povertà, disastri sociali ed ecologici. La depoliticizzazione dei mercati ha disarmato i governi e svuotato la democrazia di ogni conte- nuto significativo, ma la crisi sta ripor- tando la politica fuori dalle borse, nelle piazze gremite di mezzo mondo. Piazze che gridano non solo contro il Mubarak ed il Berlusconi di turno, ma lottano per conquistarsi un posto nel mondo, un futuro migliore. Democrazia non vuol dire solo libere elezioni, ma soprattutto capacità di controllare il processo decisionale, di condizionare le scelte politiche ed economiche. Di controllare le condizioni materiali della maggioranza della popolazione, anche a scapito di una minoranza di ricchi. Da lì è inevitabile ripartire per costruire l’alternativa ad un sistema sempre più auto-referenziale e avviato verso il collasso.
Nicola Melloni (Liberazione, 22-2-2011)
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