martedì 19 febbraio 2013

Ad Atene si lavora gratis

Pubblichiamo un reportage da Avvenire che riporta la Grecia al centro dell'attenzione. Un paese dove ogni giorno ci sono 1000 nuovi disoccupati e dove, pur di tenere il posto, si accetta di lavorare a metà paga, quando non proprio gratis. Questo è il risultato della crisi e dei "sacrifici" che secondo alcuni è giusto che i greci-cicale soffrano. Una situazione che ricorda da vicino la crisi russa degli anni 90, dove, con la deregulation e la crisi finanziaria, i lavoratori erano costretti a lavorare gratis pur di tenere qualche benefit legato all'occupazione. Un mondo post-keynesiano con salari flessibili verso il basso, dove lo sfruttamento diventa norma, dove i diritti spariscono, dove il ricatto (suona famigliare, Marchionne?) diventa la regola del mercato. Un mondo ottocentesco. Questo è il mondo del capitalismo selvaggio.....

«Lavoriamo senza paga Pur di tenerci il posto»
da Avvenire

Potremmo chiamarlo “autosebasmòs”, che vuol dire “stima di sé”, ma in senso lato anche “orgoglio, amor proprio”. I greci ne hanno da vendere, peccato che nessuno lo voglia comprare. E quanto l’orgoglio conti e muova le passioni lo si scorge meglio fuori da Atene, alla periferia di quel girone d’inferno che sta diventando la capitale greca.

Rosaria è italiana, ha sposato un medico, abita a Larissa, cittadina borghese e a suo modo benestante e si occupa attivamente di una comunità di cattolici di ogni provenienza, messicani, polacchi, albanesi. «Sì – dice – è vero, i locali sono sempre aperti, ma la fatica di vivere è tanta. Ci sono migliaia di persone sottopagate, uno stipendio medio che raggiunge i 400-500 euro già viene considerato una piccola fortuna. I prezzi però salgono di continuo, il metano costa di più, la luce elettrica costa di più. Sa quanti hanno la casa al buio perché il comune gli ha tagliato la fornitura?».

Lo Stato ha una sua anonima crudeltà… «Sì, ma guardi che i privati non sono da meno. Ormai è quasi un’abitudine consolidata: chi lavora dai privati non viene pagato. Prenda una caso qualunque, quello di una famiglia di rumeni che io e mio marito stiamo cercando di aiutare. Si alzano alle 4 del mattino, lavorano anche la domenica in una macelleria-trattoria per 50 euro a settimana. Come vivono? Come fanno? Con la scusa della crisi il proprietario non li paga. O li sottopaga. Con gli immigrati è facile comportarsi così, il greco spesso li vive come cittadini di serie B. Ma anche con i connazionali i datori di lavoro privati hanno tagliato gli stipendi. Se va bene bene, altrimenti il dipendente può andarsene. E uno si accontenta. È un ricatto, come si vede, c’è un decadimento anche morale. Homo homini lupus. L’ingiustizia dei datori di lavoro è la cosa che mi ferisce di più».

Ho sentito parlare di gente che restituisce la targa dell’automobile per non dover pagare la tassa di circolazione e soprattutto di famiglie che portano i figli all’orfanotrofio perché non hanno più i mezzi per mantenerli… «Purtroppo è vero. Come è vero che l’intolleranza si sta facendo strada anche fra i bambini. Nelle scuole elementari sono aumentati gli episodi di razzismo. Vittime i compagni extracomunitari. I bambini li accusano: se c’è la crisi, se mio papà ha perso il lavoro è colpa di quelli come te, gli dicono».
Di chi è la colpa? «Non solo dei partiti estremisti coma Alba Dorata. Anche i media hanno le loro responsabilità, amplificando a dismisura gli episodi di piccola criminalità legati all’immigrazione». E il governo? «Un campione di scaricabarile. In questo è insuperabile»

fonte: http://www.avvenire.it/Mondo/Pagine/grecia-orlo-baratro.aspx


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Flessibilità e produttività in Italia

Riportiamo qui un interessante post apparso su Keynesblog che mette in relazione flessibilità e produttività del lavoro. Per anni, dai tempi del primo governo Prodi, si è insistito sulla necessità di flessibilizzare il mercato del lavoro per rendere le industrie più competitive. Peccato sia successo l'esatto opposto, la produttività è diminuita. Forse perché in una industria caratterizzata da aziende medio-piccole questa flessibilità è stata usata per competere nel mondo puntando su costi (e dunque, salari) più bassi invece che puntare sullo sviluppo tecnologico. Chissà se la Fornero, dall'alto della sua cattedra, è capace di guardare e interpretare i grafici. E chissà cosa ne pensa il PD che quella riforma ha appoggiato (oltre ad aver inaugurato quelle trasformazioni con il pacchetto Treu).


La flessibilità non fa crescere la produttività   





produttività-flessibilità
Capita spesso di leggere che le cosiddette “riforme strutturali“, tra cui quella del mercato del lavoro, siano necessarie per accrescere la produttività stagnante delle nostre imprese. In base a questo assunto e all’idea (facilmente falsificabile) che maggiore flessibilità porti a maggiore occupazione, negli anni si sono susseguite diverse modifiche del diritto del lavoro, sia da parte di governi di centrosinistra che di centrodestra.

Il risultato è che per il nostro Paese l’indice di protezione del lavoro (EPL), calcolato dall’OCSE, è precipitato da 3,57 (prima del “pacchetto Treu“) a 1,82 nel 2003. Nel 2008, ultimo anno di rilevazione, è risalito appena ad 1,89. Come ammette la stessa OCSE, siamo il paese che ha liberalizzato di più il mercato del lavoro relativamente alla posizione abbastanza rigida del passato.
Eppure se si giudicano i risultati della flessibilità, sembrano essere piuttosto deludenti. Non solo la produttività non è aumentata, ma la sua crescita è rallentata fino a diventare sostanzialmente nulla nell’ultimo decennio (si veda il grafico su riportato). Non necessariamente questo risultato negativo deve attribuirsi alla crescente flessibilità. Tuttavia i dati sembrano dire con chiarezza che la liberalizzazione del mercato del lavoro non ha prodotto effetti positivi misurabili sulla produttività.
Nonostante ciò, la convinzione che maggiore flessibilità porti a maggiore produttività è rintracciabile nel dibattito pubblico, quasi che un lavoratore precario sia più propenso a “impegnarsi” per il timore di perdere il posto di lavoro. Se ciò non bastasse, in un recente documento della stessa OCSE si afferma che la “dualità” tra lavoratori garantiti e non garantiti porta a inefficienze nella distribuzione delle risorse umane disponibili. Non si capisce tuttavia come rendere precario anche l’attuale “posto fisso” possa dare risultati migliori della precarietà sinora introdotta, così pesantemente, nel mercato del lavoro italiano.

fonte: http://keynesblog.com/2013/02/19/la-flessibilita-non-fa-crescere-la-produttivita/


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Obama: una legge per regolarizzare 11 milioni di immigrati

di Nicola Melloni
da Liberazione

Come abbiamo scritto pochi giorni fa, l’inizio della nuova presidenza Obama è stato scoppiettante, con un Presidente molto pimpante e pronto a dare battaglia sui temi sociali, civili ed economici. Il discorso sullo Stato dell’Unione è stato il momento giusto per lanciare un programma politico ad ampio raggio basato su un’idea di democrazia inclusiva, con più diritti per tutti. Detto, fatto, alle parole il Presidente ha fatto presto seguire i fatti, iniziando a trattare con vigore lo spinoso tema dell’immigrazione. E fornendo una ulteriore prova dell’abissale differenza tra la politica americana e quella europea.
Obama ha infatti proposto una legge con cui regolarizzare gli oltre 11 milioni di immigrati illegali che ci sono in questo momento in America. Questi immigrati sono a tutti gli effetti cittadini di serie B (anzi, non cittadini!), non godono di praticamente nessun diritto e non possono neppure vedere le proprie famiglie, che non possono entrare in America mentre loro non possono uscire, se non a rischio di rimanere bloccati fuori. Una soluzione intollerabile per un paese civile e che pure ci siamo quasi abituati a considerare normale in questi ultimi tragici anni. Persone che stanno insieme a noi, lavorano, ma diventano invisibili quando si tratta di avere qualche minimo diritto. E che cerchiamo di tenere lontani in tutte le maniere possibili, affondando navi, organizzando ronde (da Bologna alla Grecia), bloccando pure il trattato di Schengen, oppure costruendo muri e reti come in America.
Obama ha detto basta e con una sola mossa ha rivoltato come un calzino la politica dominante sull’immigrazione, basata sull’esclusione del diverso.
Infatti, quello che la Casa Bianca propone di fare è di regolare la posizione degli immigrati illegali che ne abbiano diritto – cioè che non abbiano precedenti penali tali da impedire la domanda di cittadinanza. Agli immigrati verrebbe offerto un visto temporaneo di 4 anni, rinnovabile per altri 4, che dovrebbe poi portare alla famosa green card. Regolarizzazione vuol dire diritti e doveri, come per tutti gli esseri umani facenti parte di un consesso civile, e non solo obblighi e sfruttamento come è stato per gli immigrati “invisibili”.
Obama, dunque, sta rilanciando una politica kennediana che mette al centro i nuovi diritti civili e la creazione di un nuovo patto sociale. Una politica che vuole smuovere una società per anni, decenni, arroccata su se stessa e che ha perso le proprie radici. Che affondavano invece proprio nell’immigrazione e nell’inclusione. Quella che una volta era the land of the free (la terra della libertà) stava diventando una nazione che negava libertà e diritti, quello che era the home of the brave (la patria dei coraggiosi) si stava trasformando in un paese pervaso dalla paura, che erge muri contro i “barbari alle porte”. Obama invece vuole ritornare all’America che si apre, proprio mentre l’Europa si chiude e viene di nuovo pervasa da scosse nazionaliste, dal ritorno prepotente dei fascismi e dell’autoritarismo, un’Europa incapace di progettare una nuova società, in cui la politica ha abdicato in favore dei mercati e della burocrazia.
Obama inverte questa rotta. Non illudiamoci, è un percorso difficile. La stessa legge sull’immigrazione sembra aver poche possibilità di passare in un Congresso dominato dai Repubblicani. Il Presidente ha però il merito di provarci, ma soprattutto di sparigliare le carte della politica tradizionale, rinnovando – direi quasi, rivoluzionando – il dibattito, non più seguendo l’agenda dei conservatori e dei reazionari, ma obbligandoli a discutere di temi centrati sul progresso sociale. Una rivoluzione copernicana di cui l’Europa, e soprattutto l’Italia (dei Bossi, Fini e Giovanardi) avrebbe un disperato bisogno.

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