Da anni sventola su un pennone altissimo della Plaza de Colón di Madrid un patriottico, immenso bandierone voluto da uno dei ministri più mastini di Aznar e mai rimosso dai successori socialisti. Perché qui il que viva España non è retaggio della destra rancida ma patrimonio comune del popolo, esibito senza complessi né piaggeria, anzi, con tutto il convincimento di essere i migliori e di aver la fortuna di essere nati sotto l'ala di un unico, grande Paese.
Il patriottismo inteso in questo modo mi ha sempre fatto un po' d'invidia; noi che invece nell'individualismo, quando perde genialità e diventa particolarismo, ci affoghiamo. E non fa mai lo stesso effetto che a dire "questo Paese ce la farà" sia il re Juan Carlos (pur con le sue inopportune cacce all'elefante) o perfino il grigio Rajoy, che Monti con la sua faccia da cocker abbandonato in autostrada a ferragosto dai poteri forti o il pensionato della Resistenza Napolitano. Perché si nota ad anni luce che gli ultimi due sono i primi a non crederci.
Da quando sono iniziati gli europei di calcio la Spagna è tutta una bandiera, senza soluzione di continuità.
Loro però sono invidiosi di natura. Forse anche un pelo rancorosi. E da ieri sera non fanno che dire che noi italiani abbiamo il solito culo e ci tocca l'Inghilterra. E continuano a ricordare una gomitata di Tassotti a Luis Enrique del secolo scorso, quando entrambi non avevano ancora fatto la prima comunione. Abituati a mettere le mani avanti, casomai dovessimo vederci in finale.
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