Sembra un paesaggio placido. La strada corre lungo il fiume tra risaie, boschetti di manghi e bambù, piccoli villaggi con case di muratura, ancora risaie, stagni con piccoli allevamenti artigianali di gamberi. Tralicci con ripetitori di telefonini, numerosi quanto le edicole votive hindu disseminate nella campagna. Nei campi, donne e uomini trapiantano le nuove piantine di riso, poi le pompe meccaniche allagano la risaia.
Stona con l'idillio agreste il posto di guardia dove agenti di polizia guardano sospettosi i veicoli di passaggio, a un crocicchio tra risaie e stagni. «E' qui che teniamo tutte le nostre proteste», spiega Tapan Mandal, agricoltore di Dhinkia, uno dei tre panchayat (municipi rurali) di questa zona nel delta del fiume Mahanadi, distretto di Jagatsinghpur, nello stato indiano di Orissa affacciato sul golfo del Bengala. E' qui che dovrebbe materializzarsi uno dei più discussi progetti industriali in cantiere in India, una grande acciaieria costruita dal gruppo sudcoreano Posco, con annesso nuovo porto commerciale.
L'azienda sudcoreana ci investirà 12 miliardi di dollari, e porterà «una tecnologia innovativa sviluppata dalla stessa Posco, meno inquinante e più efficiente delle tecnologie oggi in uso», ci dice Priyabrata Patnaik, direttore generale dell'ente di stato per lo sviluppo industriale dell'Orissa. Nel suo ufficio a Bhubaneshwar, capitale dello stato, l'alto funzionario magnifica la nuova impresa: «Creerà 18 mila posti di lavoro e indirettamente altri 30mila, senza contare l'effetto moltiplicatore sull'intera economia locale. L'Orissa ha grandi giacimenti minerari, una ricchezza che attende di essere sfruttata. Sarebbe una grave battuta d'arresto per l'intera economia indiana se il progetto Posco non andasse avanti».
Nei villaggi del delta la vedono diversamente. Lo stabilimento e il porto richiedono 1.600 ettari, cioè la terra di otto villaggi in tre municipi rurali. E anche se di recente la richiesta è scesa a 1.200 ettari, 25mila persone resteranno senza terra da coltivare, o senza accesso al fiume per pescare. Così, da 5 anni ormai questi villaggi sono in agitazione, e due municipi su tre si sono pronunciati contro la cessione della terra.
«Qui viviamo di agricoltura, la terra per noi significa sopravvivenza», dice Sisir Mohapatra, il capo del consiglio municipale di Dhinkia (una carica elettiva). Lo incontro a casa sua, una costruzione di mattoni e tetto di legno e paglia, l'aia dove donne e uomini stanno ripulendo il riso, un piccolo stagno, l'orto. Sta tornando dai campi e mostra con orgoglio, sulla duna sabbiosa a ridosso del fiume, una serra artigianale con filari di betel, rampicante verdissimo dalle foglie larghe molto usate per fare involtini di spezie da masticare dopo il pasto («E' la nostra principale fonte di reddito, oltre al riso: le foglie di betel si vendono bene, le esportiamo fino a Mumbai»).
Chiedo: lo stato offre risarcimenti e posti di lavoro, non c'è un terreno di negoziato? «La terra non è in vendita, quindi inutile discutere il prezzo: non importa quanti risarcimenti ci offrono», risponde secco Mohapatra, mentre i vicini assentono. «La fabbrica darà posti di lavoro? Non per noi, salvo qualche lavoretto manuale. In uno stabilimento come quello serve lavoro specializzato che qui non c'è». Aggiunge: «Qui abbiamo un'economia agricola prospera. Il riso dà due raccolti l'anno, c'è il betel, ortaggi, frutta. I soldi finiscono in fretta, la terra è una garanzia per il futuro. Era degli avi, passerà ai figli».
Nel suo ufficio di Bhubaneshwar, il direttore dell'ente di stato per l'industria ci aveva mostrato i piani di nuove casette da costruire per i futuri sfollati: «La nostra politica di risarcimenti è la più generosa della nazione». Poi taglia corto: «L'89% di quella terra è improduttiva, e comunque appartiene allo stato: non saranno gli abitanti di pochi villaggi ad avere l'ultima parola».
Già: gran parte di quella terra è classificata «territorio forestale» (non significa per forza che ci siano foreste, ma che è terra statale non destinata a usi commerciali). E gran parte degli abitanti di questi municipi rurali non ha alcuna proprietà: sono mezzadri, pagano l'affitto ai pochi proprietari andati in città oppure coltivano la terra del demanio, quella che ora il governo dell'Orissa definisce «improduttiva». Tapan Mandal si fa i conti in tasca: l'affitto costa 2.000 rupie per acro a stagione, da pagare dopo il raccolto, e quella terra è così buona che tolti affitto e spese, resta un ricavo di 15mila rupie per acro per ciascun raccolto, circa 250 euro per poco meno di mezzo ettaro: un buon reddito, dice. «Per la semina del raccolto estivo, che stiamo facendo ora, arrivano braccianti da fuori: li paghiamo 200 rupie e tre pasti al giorno, più del salario minimo governativo».
Di fronte all'esproprio però gli agricoltori di Dhinkia, Nuagaon e i villaggi vicini non hanno titoli da far valere. «La legge di riforma agraria riconosce il diritto alla terra a chi la coltiva da almeno tre generazioni e questa gente dovrebbe avere dei titoli. Il governo però non li ha mai riconosciuti» spiega Sudhir Pattnaik, giornalista di Madhayantar, cooperativa editoriale che pubblica un magazine e video documentari diffusi su YouTube. «Così gli abitanti di Dhinkia risultano senza terra. E sono per lo più dalit», fuoricasta, lo scalino più basso della scala sociale hindu.
«Quali risarcimenti generosi?», dice Abhai Sahu, abitante di Dhinkia e presidente del «Comitato contro il progetto Posco» (Posco Pratirod Sangram Samiti). «Pochi hanno una proprietà, in queste terre costiere. E il governo sta trasformando un bene comune in una concessione privata».
Quando il governo ha cominciato l'acquisizione dei terreni privati, due anni fa, pochi hanno accettato («Solo i proprietari emigrati in città: loro non lavorano più la terra e non l'avrebbero mai venduta così bene senza il progetto industriale», spiega Prashant Paikray, il portavoce del Comitato). La realtà, insiste Sahu, «è che gli agricoltori perderanno la terra per sempre, e un risarcimento una tantum non garantisce il futuro». Sulla strada per il capoluogo Jagatsinghpur un grande cartello, «campo transito Posco», indica il futuro proposto a queste persone: una colonia di capannoni di cemento.
Cominciato cinque anni fa con sit-in e marce di protesta, il movimento «anti-displacement» ha avuto momenti caldi. Per mesi gli abitanti di Dhinkia e Nuagaon, i municipi ribelli, hanno fatto posti di blocco all'ingresso dei loro villaggi per tenere fuori i funzionari del governo e dell'azienda sudcoreana. Il 15 maggio scorso l'episodio più violento: la polizia è intervenuta contro un sit-in di massa che durava dall'inizio dell'anno a Balitutha, villaggio di mercato e via d'accesso ai tre municipi rurali. Ha sparato lacrimogeni e proiettili di gomma su manifestanti inermi, picchiato donne e uomini (oltre un centinaio di feriti) e incendiato negozi - un filmato diffuso su YouTube mostra agenti che appiccano le fiamme.
Da allora vige una tregua carica di tensione. La polizia ha presentato decine di denunce per violenze e resistenza ai pubblici ufficiali: alcune contro ignoti, altre contro i leader della protesta: «Non posso più andare a rappresentare il mio panchayat nel consiglio distrettuale altrimenti mi arrestano», dice Sisir Mohapatra. Il leader riconosciuto di questa battaglia, Abhai Sahu, è stato a lungo in galera e ha decine di denunce: «Le imputazioni alla fine cadono, ma la polizia ne trova altre. E' per dissuaderci».
Ora la fragile tregua nel delta del Mahanadi è finita. Il 31 gennaio il ministero dell'ambiente di New Delhi ha autorizzato il progetto, benché con una lunga lista di condizioni da rispettare. Il giorno dopo oltre 4.000 persone riunite in un'assemblea pubblica a Dhinkia, hanno deciso di rimettere i posti di blocco.
La tensione torna a salire. «La polizia ha ricominciato a demarcare il terreno, è tornata a presidiare le strade: vogliono spaventarci», riferisce Bhaskar Swain, capo eletto del municipio di Nuagaon. L'attività delle milizie di picchiatori è ripresa, riferiscono cronisti locali. Abhai Sahu si aspetta altri attacchi, tentativi di dividere la popolazione, arresti: «Ma noi resisteremo».
(Marina Forti, Il Manifesto, 17-02-11)