sabato 2 luglio 2011

l'accordo tra i sindacati confederali e la Confindustria.

Documento dell’Associazione “Lavoro e Libertà” sul recente accordo tra i sindacati confederali e la Confindustria.

L’Associazione esprime il suo profondo dissenso con l’accordo appena siglato, dato che mette in discussione in modo grave i valori e gli obiettivi che essa si è proposta di difendere e raggiungere in difesa della dignità dei lavoratoriIn primo luogo colpisce il problema dei diritti democratici dei lavoratori: il potere votare le proprie piattaforme rivendicative e i relativi contratti, senza alcun privilegio o distinzione tra iscritti e non iscritti nei luoghi di lavoro. Vi è, infatti, lo spostamento conclusivo di tali diritti, alle organizzazioni e alle loro rappresentanze secondo un principio rappresentativo maggioritario.

Si tratta due concezioni opposte della democrazia, nell’una prevale il principio di “una testa un voto”, nell’altra il peso delle rappresentanze e l’alchimia delle loro possibile alleanze/convergenze.  Fa specie a tale proposito l’equiparazione progressiva, prevista dall’articolo 5, tra RSU e RSA, cioè tra una forma rappresentativa basata su un compromesso tra un’espressione diretta dei lavoratori, che scelgono i loro rappresentanti e una forma di delega dei sindacati, e una di pura nomina da parte delle organizzazioni sindacali. Vi è una differenza riconosciuta di legittimazione a procedere, ma spetta solo alle organizzazioni decidere se si preferisce l’una o l’altra e entrambe durano in carica tre anni. L’associazione è nata in primo luogo per affermare un principio democratico basato sul diritto di ogni persona che lavora di esprimere comunque la propria volontà, approvando le piattaforme e i contratti, perché solo così si garantisce che gli atti fondamentali che regolano, nell’ambito dei luoghi di lavoro, la vita di chi lavora siano conformi alla loro volontà.

In secondo luogo l’accordo può rappresentare una pietra tombale sull’esistenza di contratti nazionali che rispondano a un principio di democrazia distributiva, in special modo in un paese come l’Italia caratterizzato da un numero esorbitante di piccole e piccolissime imprese. Il testo, infatti, consente delle deroghe “al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi”, cioè quasi sempre. Se si considera tale possibilità congiuntamente a quanto disposto dagli articoli 4 e 5 su come si realizza un accordo aziendale, efficace verso tutti e vincolante per le associazioni firmatarie, non è difficile comprendere che si aprono le porte a una balcanizzazione del sistema di relazioni industriali italiano senza precedenti. Se, infatti, il principio maggioritario vale in ogni singolo luogo di lavoro, si avrà che un’azienda metalmeccanica in realtà emiliane, dove la FIOM ha largamente la maggioranza assoluta, quando non talvolta il monopolio della rappresentanza, si muoverà con linee e richieste largamente difformi da situazioni dove la realtà della rappresentanza è opposta, a meno di non pensare che tutta l’Italia sia sempre a rischio del ricatto FIAT in base al quale o si accetta o l’impianto viene chiuso. La richiesta di intervento del governo per incentivare la contrattazione di secondo livello rende infine esplicita la volontà dei firmatari di fare di questo livello il livello reale di regolazione del lavoro.

La disposizione, inoltre, dell’articolo 6, in sé ineccepibile e doverosa, in base alla quale la clausola di tregua vincola solo le associazioni firmatarie e non i singoli lavoratori, né tantomeno quelle non firmatarie, aggiunge ulteriore confusione. Si aprono, infatti, grazie alla combinazione con le altre norme, varchi inimmaginabili a ogni iniziativa corporativa aziendalistica; basta, infatti, un comitato, oppure ancora a vere e proprie strategie nazionali di organizzazioni, che con il quorum del 5% siano comunque titolate all’azione rivendicativa e non firmatarie di contratti in quelle specifiche aziende.
Il risultato complessivo di tale impostazione, ossessivamente orientata alla deroga, quindi, è un ulteriore deriva verso un sistema frammentato ed esposto a una pressione corporativa quasi inarrestabile. Dal punto di vista di un’associazione che considera un valore chiave il superamento della frammentazione sociale e l’aspirazione all’eguaglianza, un tale esito appare oltre che inaccettabile, desolante.
Per tali ragioni l’Associazione si impegna, attraverso i suoi iscritti e i circoli territoriali a diffondere la sua valutazione; cooperando e confrontandosi con altre analoghe iniziative.
 
 

 

L’ora di dire basta


Mercoledì si è brindato negli uffici delle grandi banche e dei palazzi del potere europei. Come ha scritto il Sole24ore, la decisione del Parlamento greco di approvare il pacchetto di tagli e privatizzazioni deciso a Bruxells ha fatto tirare un bel sospiro di sollievo ai mercati internazionali. Lo stesso non si può dire per quel che riguarda il popolo greco, che invece, contrario a larga maggioranza ai tagli, guarda con terrore ai prossimi mesi.
Questo ormai è diventata la democrazia occidentale, garante dei mercati, indifferente alle domande e alle necessità della società. La giustificazione, naturalmente, è che non ci fosse alternativa e che un voto contrario avrebbe scaraventato la Grecia in una situazione addirittura peggiore di quella attuale. E’ la solita litania della responsabilità che i governi devono dimostrare di fronte all’emergenza. Eppure c’erano altre vie.
Partiamo innanzittutto da questo sospiro di sollievo dei mercati. Il default greco era fortemente temuto dai mercati internazionali che avrebbero avuto fortissime perdite, questa volta senza il salvagente degli aiuti pubblic, come era invece stato nel 2007-08. Allo stesso tempo, i governi europei non potevano permettersi queste perdite ed un possibile fallimento generalizzato di diversi istituti finanziari, ed è per questo che tanto si sono spesi nel mettere pressioni al Parlamento greco. Questo però significa che, in realtà, il fallimento greco era temuto a Bruxells almeno tanto quanto ad Atene e questo lasciava assai più libertà di manovra al governo e al Parlamento ellenico. In poche parole, si poteva chiamare il bluff della UE e accordarsi su termini assai diversi, che non colpissero la popolazione e dessero speranza di crescita nel futuro. Soprattutto si poteva pretendere una diversa condivisione degli oneri del salvataggio greco che al momento sono a carico della popolazione greca perchè, si dice, negli anni passati ha troppo goduto e si è scavata la fossa con le proprie mani, troppe vacanze, troppo presto in pensione, troppa poca voglia di lavorare. Peccato che, come denunciato da Luciano Gallino su Repubblica, si tratti fondamentalmente di disiniformacja. Certo, una parte della  popolazione greca ha in questi anni molto preso e poco o nulla dato, soprattutto la borghesia medio-alta che evade le tasse ed il capitale sostenuto dagli aiuti di stato – prorio quegli strati sociali che vengono solo marginalmente colpiti dalla manovra economica del governo.  Mentre i lavoratori devono farsi carico di colpe altrui e difendere la solvibilità degli istituti di credito greci ed internazionali.
Proprio per questo anche l’extrema ratio – il default – sarebbe comunque stata una scelta migliore che sottostare ai diktat del mercato. Certo, l’abbiamo detto, il fallimento avrebbe delle gravi conseguenze sulla popolazione con lo scontato blocco del sistema finanziario e dell’accesso ai risparmi. Nel medio termine, però, ci sarebbe stata la possibilità di rilanciare l’economia, con interventi mirati per la crescita e non per il servizio del debito mentre i costi del fallimento sarebbero stati pagati dalle banche e dalla speculazione internazionale. Riversando tutto sulle spalle dei lavoratori greci, invece, si garantisce lo sprofondare dell’economia ellenica che, senza possibilità di rilanciarsi, ripresenterà gli stessi problemi alla prossima scadenza dei titoli pubblici. Quello che si sta facendo è cercare di prendere tempo e, possibilmente, sostituire l’esposizione delle banche con i prestiti europei. Poi la Grecia sarà lasciata probabilmente affondare in una situazione ancora peggiore di quella attuale, con lo stato a pezzi e l’economia distrutta.
Il default greco avrebbe certo avuto conseguenze gravissime sul resto dell’Europa, trascinandosi dietro probabilmente non solo Irlanda e Portogallo ma anche Spagna ed Italia. Da un punto di vista puramente egoistico potremmo dunque rallegrarci che si sia evitato un tale passaggio. Ma sarebbe una gioia miope. Ad Atene si è messa in scena la restaurazione capitalista che comanda i governi, ormai ridotto a comitati d’affari della grande borghesia, e bastona i lavoratori, che difende i mercati anche a costo di distruggere l’economia reale. Sono le prove generali del nuovo – ma così vecchio –  ordine capitalista che già sentiamo sulla nostra pelle ma che non potrà che peggiorare nei prossimi anni – basti pensare alla legge finanziaria che prevede interventi per oltre 40 miliardi nel biennio 2013-14. Per questo la lotta dei lavoratori greci è quella dei lavoratori di tutta Europa.

Nicola Melloni (Liberazione, 1 luglio 2011)