giovedì 24 febbraio 2011

Accordi Fiat, il sì al ricatto non salverà gli operai italiani

Nessuno si è chiesto che cosa sarebbe successo se a Mirafiori avessero vinto i no. Non è una domanda peregrina; in fin dei conti i sì hanno vinto per pochi voti. Se avessero vinto i no, Marchionne, i sindacati gialli (Cisl, Uil, Fismic e compagnia) e Sacconi (in rappresentanza di un governo che non esiste più) avrebbero subito uno smacco ancora maggiore; ma nei fatti non sarebbe successo niente di diverso da quello che accadrà. Con la vittoria dei sì gli operai andranno in Cig per almeno un anno. Quando, e se, Mirafiori riaprirà, la situazione in Italia e nel mondo potrebbe essere molto cambiata. Nel frattempo verranno costituite, a Pomigliano, a Mirafiori, e poi in tutti gli altri stabilimenti Fiat, tante nuove società (all'inglese, NewCo) che assumeranno con contratti individuali e vincolanti gli operai che serviranno. Alla Zastava (l'impianto serbo della Fiat) ne stanno scartando tantissimi. A Mirafiori, con un'età media di 48 anni, un terzo di donne e un terzo con ridotte capacità lavorative, a essere scartati saranno forse ancora di più.

Poi cominceranno ad arrivare motori, trasmissioni e pianali prodotti negli Usa per essere assemblati con altre componenti di varia provenienza, trasformati in suv e Jeep (che è l'«archetipo» di tutti i suv) e rimandati indietro: fino a che l'«esportazione» dagli Usa in Italia di quei motori e pianali non avrà raggiunto un miliardo e mezzo di dollari, come da accordi presi tra Marchionne e Obama. Poi si vedrà: di sicuro cesserà quell'avanti e indietro di pezzi tra Detroit e Torino che non ha senso; e per Mirafiori bisognerà trovare una nuova produzione e, forse, un nuovo «accordo». Ma non è detto che ci si arrivi: il prezzo del petrolio è tornato a salire; il Medio Oriente (il serbatoio delle auto di Oriente e Occidente) è in fiamme; quei suv, che due anni fa Marchionne aveva escluso di poter produrre in Europa, potrebbero non trovare acquirenti neanche negli Usa. Se invece il «colpo grosso» di Marchionne sulla Chrysler andrà in porto, la direzione del nuovo gruppo unificato emigrerà negli Usa. Gli operai che hanno votato sì non si sono affatto assicurati il futuro.

E se avessero vinto i no? Marchionne avrebbe dovuto comunque «esportare» in Italia (e dove, se no?) motori e pianali per poi reimportarli montati; perché esportare dagli Usa vetture finite per un miliardo e mezzo di dollari gli è assai più difficile. E nemmeno avrebbe potuto montarli in uno stabilimento del Canada (come aveva minacciato), o del Messico (dove monta la 500); perché sono entrambi paesi del Nafta e le esportazioni verso quell'area non contano ai fini dell'obiettivo imposto da Obama.

L'investimento, poi, sarà lo stretto necessario (il cosiddetto «accordo» di Mirafiori non include nessun impegno su questo punto e Marchionne ha detto e ripetuto che tutto dipenderà da come andrà il mercato). Ma con due stabilimenti e 10.000 e più addetti in Cig per un anno, per Fiat la perdita di ulteriori quote di mercato in Europa è certa; e sarà sempre più improbabile arrivare a esportare dall'Italia un milione di vetture nel 2014, come previsto dal piano Fabbrica Italia, anche includendo i 250mila suv assemblati a Mirafiori e trasferiti a Detroit, che sono un po' un gioco delle tre carte. Lasciamo poi perdere gli altri 18 e rotti miliardi di investimenti previsti dal piano...

Ma che cosa sarà la Fiat nel 2014? Una serie di marchi governati da Detroit e tante società (NewCo) distinte quanti sono gli stabilimenti (o anche più: a Mirafiori ce ne sono già diversi); ciascuna delle quali avrà produzioni indipendenti. La Zastava produrrà auto Fiat, ma Mirafiori produrrà auto Chrysler e Alfa (se questo marchio non verrà venduto), mentre Fiat Poland lavorerà sia per Fiat che per Ford. Così, se «il mercato» lo richiederà, anche gli stabilimenti italiani ex Fiat potranno lavorare in tutto o in parte per la concorrenza. Insomma, quello che gli «accordi» di Pomigliano e di Mirafiori stabiliscono è che Fiat-Chrysler sarà una cosa e le NewCo, con gli operai legati al «loro» stabilimento da un contratto individuale, sono un'altra; e che ciascuna andrà per la sua strada: potrà essere chiusa, o venduta, o data in affitto, o lavorare «in conto terzi», senza che ciò abbia alcuna ripercussione sugli altri stabilimenti e sugli altri lavoratori dell'ex Fiat Group. Se gli operai delle imprese globali devono trasformarsi in truppe al comando dei rispettivi manager per fare la guerra agli operai di altre imprese e di altri manager globali, come dice Marchionne, questa guerra, in cui i lavoratori perderanno sempre e non vinceranno mai, non si svolgerà solo tra grandi competitor globali, ma anche tra le varie NewCo in cui si risolverà lo «spezzatino» della Fiat.

Sapevano queste cose gli operai di Mirafiori quando hanno votato? No. Qualcuno aveva cercato di spiegargliele? No (solo la Fiom, benemerita, aveva distribuito agli operai il testo del contratto che i sindacati gialli avevano firmato senza nemmeno convocarli in assemblea). Avrebbero votato allo stesso modo se fossero stati adeguatamente informati? Forse no: tutti quelli del sì pensavano e dicevano che almeno così avrebbero salvato il loro futuro. Eppure 150 economisti hanno sottoscritto un documento di dura critica dell'accordo e di sostegno alla Fiom. Se si fossero adoperati per mettere per tempo al corrente lavoratori e opinione pubblica di quel che bolliva in pentola, invece di lasciare campo libero a chi spiegava - e continua a ripetere - urbi et orbi che quell'accordo garantisce un futuro sicuro sia agli operai che al Gruppo, forse il referendum avrebbe avuto un esito diverso. Non è una recriminazione ma una proposta di lavorare in comune - a più stretto contatto con il mondo reale - rivolta a tutti gli interessati.

C'è un'alternativa a tutto questo? Sì; quella di abbandonare gradualmente le produzioni dove la competizione non è che una corsa a perdere - e l'industria dell'auto è oggi il settore dove questi effetti sono più vistosi e più gravidi di conseguenze - per imboccare una strada dove il rapporto con il mercato sia più diretto, concordato, meno aleatorio e meno esposto all'alternativa mors tua vita mea. La mobilità sostenibile, solo per fare un esempio (ma ce ne sono altri mille, e l'efficienza energetica o le fonti rinnovabili sono tra questi) non vuol dire solo produrre meno auto - e auto meno energivore, meno inquinanti, meno effimere, meno veloci, meno costose, da usare soprattutto in forme condivise - e più treni, più tram, più bus grandi e piccoli; vuol dire gestire in forme coordinate la domanda di spostamenti di merci e persone avvalendosi di tutte le opportunità offerte dalle tecnologie telematiche; e impiegando in servizi essenziali molto più personale di quanto ne richiedono i robot di una fabbrica semiautomatizzata.

Ma è una scelta che non può ricadere solo sulle spalle degli operai di una fabbrica dal futuro incerto; e nemmeno su quelle di un sindacato; e meno che mai su quelle di un management che vede nella competizione senza limiti l'unica ragion d'essere del proprio ruolo e dei propri spropositati guadagni. È una scelta che deve fare capo - come ha detto Marco Revelli al seminario Fiom-Micromega di Torino - a un'intera comunità: e innanzitutto a quelle il cui destino dipende da quello dei lavoratori - giovani, anziani, occupati, disoccupati o precari - a cui accordi come quello di Mirafiori rubano il futuro. E «comunità», qui, non è una parola astratta: vuol dire amministrazioni locali, Comuni, Province, Università, Asl, ricerca, istituzioni culturali, associazioni, comitati, parrocchie, media, programmi elettorali: ciascuno deve chiedersi che cosa può fare per capirne di più, per informare se stesso e gli altri, per contribuire, con la propria esperienza diretta, il proprio bagaglio culturale, la propria professionalità, la propria etica, a un progetto condiviso. E' un compito comune perché per tutti - o quasi - il baratro è alle porte. 

Guido Viale (Il Manifesto, 12-02-2011)

ARIS ACCORNERO: UNIONIZED, NOT UNIONIZED

Nella vicenda Fiat il risultato più grave, e paradossale perché raggiunto grazie allo statuto dei lavoratori, è l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più forte; il modello americano di cui tutti parlano anche a sproposito; l’asimmetria fra lavoratori e azienda che la Fiom non riesce ad accettare. Intervista a Aris Accornero.



Aris Accornero insegna Sociologia industriale presso l’Università di Roma "La sapienza”; insieme a Tiziano Treu e Cesare Damiano ha fondato Eli, EuropaLavoroImpresa. Ha pubblicato, tra l’altro, Era il secolo del lavoro, Il Mulino 1997; insieme a A. Orioli, L’ultimo tabù. Lavorare con meno vincoli e più responsabilità, Laterza 1999; San Precario lavora per noi, Rizzoli, 2006.


Mi sembra di capire che secondo lei il risultato di gran lunga più grave di tutta la vicenda Pomigliano-Mirafiori sia l’esclusione dalla fabbrica del sindacato più rappresentativo. E' così?


Sì è così, però prima vorrei fare una premessa su un fatto cui nessuno ha fatto più cenno ma che a me sembra utile ricordare. Esattamente tre anni fa, a gennaio del 2008, la Fiat a Pomigliano aveva fatto un grossissimo sforzo, anche economico (soprattutto legato al fatto che gli operai non lavoravano perché partecipavano a dei corsi di formazione) per introdurre il famoso World Class Manifacturing. L’azienda aveva molto reclamizzato l’operazione, se n’era parlato anche nel Sole 24 ore. Quando mi era stato chiesto un giudizio, avevo detto: "Beh, alla Toyota è un po’ diverso…”. Perché quello a cui loro puntavano era una riconquista di quegli operai a moduli di comportamento e lavorativi rivisitati, non tanto in senso professionale, ma quasi in senso morale.

Ora, quell’operazione, che consisteva in un ciclo di lezioni da cui passarono tutti, con il coinvolgimento di 266 capi, addirittura con la realizzazione di opere per l’adeguato svolgimento delle lezioni e l’introduzione di qualche piccola novità concomitante a questo grosso sforzo organizzativo-rieducativo, fu un buco terribile, cioè non ne venne fuori nulla.
Io penso che Marchionne avesse avuto qualche notizia su com’era Pomigliano, nel senso della sua anomalia industriale, però con questo suo approccio, chiamiamolo protestante, evidentemente si era convinto in qualche modo che, spiegando le cose, la gente avrebbe capito, che ci sarebbe stato un risultato.
Il fatto che non ci sia stato alcun risultato, secondo me è stato un notevole shock per Marchionne, che probabilmente già si arrovellava per capire come mai questo mondo fosse tanto diverso da quello che lui avrebbe voluto.
In realtà lui già sapeva che all’estero soluzioni tanto radicali non erano così facili da far passare: il 20% della Chrysler si era opposto al progetto di ristrutturazione nei primi mesi del 2009. Tre mesi dopo, il 25% del personale GM si era opposto alle novità da lui proposte, che però poi erano passate a maggioranza.
Insomma Marchionne si era formato quest’idea che fosse possibile curare questi casi di disordine, scarsa produttività e governabilità aziendale. Quindi io partirei dal fatto che dietro la vicenda Pomigliano-Mirafiori c’è una delusione, forse anche umana, da parte di Marchionne per il fallimento dell’opera di rieducazione avviata in quell’azienda un po’ disgraziata.
Intendiamoci, questa non è la spiegazione della svolta e tanto meno prelude a quel che poi è avvenuto. Però mi sembra importante ricordare che, con questa "cura”, era stato accordato un certo margine di affidabilità anche alle maestranze e alla situazione di Pomigliano d’Arco.

Ma come si arriva all’espulsione della Fiom?


Infatti, questa del ruolo della rappresentanza è diventata oggi la questione fondamentale, perché qui è andata a finire, in modo buffo e forse persino un po’ kafkiano, che lo Statuto dei lavoratori, rimaneggiato dopo il referendum dei radicali del ‘95, ha portato all’esclusione del sindacato più rappresentativo.

L’articolo 19 dello statuto, infatti, che era nato ex novo con la necessità di identificare i titolati a rappresentare, giustamente si poneva la domana: chi è titolato a rappresentare? E la risposta era e rimane: chi ha fatto degli accordi con l’azienda, con la controparte. Che significa che chi non fa l’accordo è tagliato fuori.
Ora, questo principio di esclusione, non voluto dall’azienda, ma indotto dall’andamento della vicenda, soprattutto dal fatto che c’è una divisione sindacale forte, come ha ricordato Gian Primo Cella sul Mulino, scassa tutto il sistema di rappresentanza e in qualche maniera sancisce la fine del sistema di rappresentanza sindacale vigente fino ad oggi in Italia.
In Europa praticamente non è possibile escludere dalle trattative un sindacato che sia esistente su basi nazionali. In Italia si è arrivati a quella legge sul pubblico impiego che esclude dalla trattativa chi non abbia almeno il 5% di un mix fra voti ed iscritti. Cosa molto coraggiosa, molto necessaria, perché la pletora di sindacatini del pubblico impiego contava fino a 30-40 soggetti, alcuni discutibili con sedi in sperduti paeselli.
Ma anche con quella legge rimaneva il fatto che nessun sindacato, anche con una rappresentanza minima, purché non simbolica, poteva essere escluso.
Qui allora compare una grossa novità nel sistema di relazioni industriali europeo e questa novità è la più ferale, la più bieca, è quella su cui rischiamo di più. Anche se è inutile scomodare le parole democrazia, costituzione, questa è una cosa enorme, incredibile.

Si è parlato molto di modello americano. Negli Stati Uniti esistono modelli di rappresentanza molto diversi da quelli in vigore in Europa. Può spiegare?


Questo ci fa entrare nei gangli di quel sistema americano di relazioni industriali con cui adesso si sta pasticciando, perché molti dicono di conoscerlo e pochi invece lo conoscono davvero.

Il primo elemento di differenziazione è che negli Stati Uniti si contratta nell’azienda. E basta. Cioè, si contratta nell’azienda grande e poi si cerca di applicare quanto si è ottenuto in tutte le altre realtà ove il sindacato è presente.
Seconda precisazione: negli Stati Uniti, il sindacato è presente nelle aziende dove i lavoratori l’hanno voluto al 50% più uno. Se un sindacato raggiunge questa quota di suffragi tra i dipendenti, esso esiste e negozia. Ma esiste e negozia da solo: non c’è, per definizione, pluralismo sindacale.
Per dire, nella categoria degli elettrici, il sindacato grosso è uno dei più di destra e l’altro, di sinistra, è uno dei più di sinistra. Ecco, in azienda uno ne entra, uno è riconosciuto, uno tratta e tratterà. E come sappiamo, tratta e tratterà tantissime cose, tra cui il welfare aziendale, che in America è fondamentale visto che, come sappiamo, il welfare nazionale è molto debole. In Italia non è così.
Per tutte queste ragioni, quando un sindacato entra in azienda, diventa di per sé potente perché intanto si negoziano varie condizioni, che noi chiameremmo "extracontrattuali”, ma che là sono considerate parte sostanziale del rapporto di lavoro e delle condizioni di trattamento. Un discorso diverso andrebbe fatto per il pubblico impiego, perché ai dipendenti pubblici vengono comunque garantite sanità e pensioni. Ma nel privato tutto si gioca sulla presenza o meno del sindacato in azienda.
Quindi quando il sindacato entra, conta e molto, e ovviamente mette le mani in questioni come le turnazioni, gli orari, i salari individuali, i salari di categoria. Infatti con l’entrata del sindacato, il costo del lavoro aumenta dal 15% al 20%. Nei fatti questo è il divario principale della struttura retributiva americana. Tant’è che in America, nelle tavole, nelle tabelle dei libri che trattano questi argomenti, la catalogazione delle aziende si fonda innanzitutto sulla distinzione tra "Unionized” o "Not Unionized”. Cioè tra imprese sindacalizzate e non sindacalizzate. E sono proprio due mondi diversi!
Infine va detto che una volta che un sindacato entra, praticamente ci sta in eterno: è molto difficile far fuori un sindacato che è stato accettato.
Tutto questo spiega perché le aziende ostacolano in ogni modo l’entrata del sindacato e anche perché l’accettazione è molto complessa e la parte giuridico-amministrativa tremenda. Il principale modo di tenere il sindacato fuori dall’azienda è che il giudice "ritagli” la parte dell’azienda dove si vota. I sindacati vorrebbero rappresentare tutti, ma c’è sempre un giudice che dice: "No, gli impiegati no!”, "No, quella è una sede troppo lontana”. Infatti gran parte della partita si gioca sulla definizione della bargaining unit, cioè dell’unità ove si contratta. Capita che giudici conservatori manipolino le bargaining unit sottraendo al voto quelle parti dell’azienda dove le maestranze sono più disposte alla sindacalizzazione, oppure includendovi quelle parti dove le maestranze sono meno disposte.
Poi, va anche detto che una volta entrato, visto che il sindacato conta, a quel punto molte aziende lo usano come punto d’appoggio nelle politiche. Cercano di usarlo, anche giustamente, chiedendogli ad esempio di convincere i lavoratori a fare degli spostamenti o altro. Insomma, il sindacato è molto dentro alla gestione dell’azienda. Talvolta, addirittura, anche se raramente, quelli che noi chiamiamo i segretari generali dei sindacati di categoria diventano perfino membri dei consigli di amministrazione. La Chrysler è una delle poche aziende che hanno visto il segretario generale del sindacato entrare nel consiglio di amministrazione.
Già qui emerge l’enormità delle differenze tra il sistema europeo e quello americano.

Quindi non esiste un contratto di categoria, un contratto nazionale...


La cosa fondamentale comunque è che il sindacato americano è un rappresentante di rapporti di lavoro aziendali. Non c’è quello che da noi per brevità si chiama "contratto”. Ci sono esclusivamente rapporti di lavoro e contratti aziendali. Nessuno negli Stati Uniti si sognerebbe di chiedere: "Cos’hanno i metalmeccanici?”, perché i metalmeccanici in quanto tali non hanno un bel niente: hanno ciò che è stato conquistato nelle fabbriche metalmeccaniche dove c’è il sindacato.

A Detroit, ad esempio, dove ci sono le tre grandi aziende automobilistiche, i sindacati, da sempre, quando arriva il momento di rinnovare il rapporto di lavoro, scelgono su quale azienda puntare, dove fare la lotta e poi presenteranno agli altri le medesime richieste.
Va detto che neanche l’Inghilterra ha il contratto nazionale di categoria: c’è una tradizione mista di accordi di tipo aziendale e di intese di categoria. Ma ciò è dovuto al fatto che là le categorie sono estremamente numerose, con spizzichi anche molto professionali, di aristocrazia operaia, che però magari, numericamente, sono risibili.
Nel mondo europeo continentale, invece, la norma sono i contratti di categoria.
In quest’assetto, gli avvantaggiati sono i paesi con maggiore unità sindacale o con meno sindacati concorrenti. Quindi il modello resta la Germania, oltre alla Svezia, eccetera. Non certo la Francia, dove i sindacati litigano dalla mattina alla sera su tutto. L’Italia è uno dei pochi paesi dove l’unità sindacale ha coperto lunghi periodi. In tutti questi paesi c’è un contratto di categoria.

Una forma di contrattazione aziendale esiste anche in Italia...


In tutta Europa ci sono ovviamente numerose aziende, i cui lavoratori dispongono del contratto nazionale e di qualcosa negoziato aziendalmente, ma si tratta sempre di una contrattazione di secondo livello, cosiddetta integrativa. E cioè: oltre alle condizioni normative e ai trattamenti che valgono per tutti, c’è qualcosa che connota il rapporto di lavoro in quella specifica azienda, e quasi sempre è qualcosa in più.

È un modo per trattenere (o per attirare) la manodopera qualificata o semplicemente per evitare turn-over troppo elevati.
Ma ci sono anche finalità produttive, quelle che il protocollo del 1993 ha ufficializzato, facendo riconoscere alla Confindustria (per la prima volta in Italia) la contrattazione di secondo livello.
Apro una parentesi: anche prima del 1993 si contrattava. Io, quando ero in commissione interna, ho contribuito a contrattare con l’azienda delle cose che altri non avevano. Per esempio, il premio di produzione, cioè quello che poi nel 1993 è diventato il fulcro della contrattazione di secondo livello. Produttività, competitività, qualità, erano questi i vari parametri per ottenere di più rispetto al contratto nazionale.
Il fatto è che quel che facevano le commissioni interne, che nel dopoguerra si occupavano ancora del pane e dei combustibili delle famiglie dei lavoratori, non era ben visto né da Confindustria né dalla Cgil.
La Cgil non voleva la contrattazione aziendale per ragioni di solidarietà generale in riferimento al contratto nazionale. Nell’ambito della Cgil fu Sergio Garavini a inventare la contrattazione aziendale come contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. Era una posizione molto avanzata, perché quel tipo di negoziazione si faceva nel contratto nazionale. E invece lui voleva contrattare gli orari, le pause, persino le paghe, a livello aziendale.
Chiaro che, se vogliamo valutare la vicenda di Pomigliano alla luce di questo scenario non possiamo che riconoscere che è cambiato tutto. Innanzitutto, per come è sfociata la vicenda del contratto nazionale che, da una decina d’anni, Confindustria vorrebbe alleggerire, smagrire, snellire, per contrattare più cose in azienda e meno nel paese.
Andrebbe anche spiegato che questo spostamento di baricentro verso l’azienda è motivato dall’estrema articolazione che il post-fordismo richiede alle imprese. Il post-fordismo in fondo ha portato alle imprese non meno problemi che ai lavoratori. Oggi si è diffusa una struttura organizzativa completamente diversa, più orizzontale che verticale, che fa sì che ogni azienda sia diversa dalle altre, anche per via della competizione.
Questa diversificazione porta le aziende a spingere verso un maggior numero di norme negoziate in loco rispetto a quelle che prima si negoziavano a Roma.
Questo però non giustifica la politica un po’ insana del presidente di Confindustria D’Amato, il quale ha cominciato a dire: "Basta, basta, bisogna passare ai contratti aziendali”. Questa insistenza sui contratti aziendali ha dato luogo a infuocati dibattiti, anche coi sindacati, ma soprattutto fra imprenditori, i cui interessi sono molto diversi. Brutalmente si potrebbe dire che i piccoli vogliono il contratto nazionale e i grandi no. I piccoli vogliono il contratto nazionale perché è un regime che tutela tutti perché, ad esempio, impedisce che dei lavoratori vengano pagati meno per produrre di più. Quindi è uno strumento di raccordo sistemico del mondo padronale di dimensione minore. Oltretutto, gestire un contratto aziendale richiede costi che le piccole aziende non potrebbero sopportare.
Invece le grandi aziende, forti del loro potere, spingono per andare verso contratti aziendali più nutriti e per ridurre, semplificare, le numerosissime norme nazionali alle quali sottostanno le varie categorie.
D’altronde la richiesta di una semplificazione non è così peregrina. Oggi i contratti di categoria sono più di trecento. Cioè mentre i sindacati, in questi ultimi 20-25 anni, si sono accorpati in grosse confederazioni di categoria, nessuno ha invece tentato di accorpare i contratti.
Tra l’altro, quando ero in fabbrica io, ce n’era uno molto sottile, credo fossero 80 pagine, adesso i contratti sono da trecento a cinquecento pagine in su!
Provocatoriamente da tempo dico che bisognerebbe fare un "testo unico”. Altrimenti, noi avremo trecento contratti che restano lì, con uno spostamento verso l’azienda di normative che diventano diverse da luogo a luogo.
Su questa vicenda c’è stata una trattativa con Confindustria. Nel 2008 la Cgil, la Cisl e la Uil hanno prodotto uno smilzo testo di proposta di risoluzione con cui sono andati a trattativa con la Confidustria che chiedeva appunto lo spostamento del baricentro.
I sindacati hanno posto anche lì la questione della rappresentanza, proponendo per il lavoro privato la legge che c’è per il lavoro pubblico, appunto quella del minimo del 5% come titolarità a negoziare, a rappresentare, eccetera.
In quell’occasione c’è stata però una separazione tra Cisl e Uil, da una parte, e Cgil dall’altra, sulla questione delle deroghe. La Cgil, infatti, non ha accettato la richiesta, anche perché la Fiom aveva votato all’unanimità contro questa ipotesi giusto qualche giorno prima.
Il punto dolente è stato quello. In realtà Confindustria aveva preteso e ottenuto una cosa tutto sommato non gravissima e cioè la possibilità di deroga aziendale a norme del contratto nazionale.
è da allora che c’è questa divisione. È partito tutto da lì formalmente, l’anno scorso, con i due accordi del 2009.
La questione della deroga, in realtà, è speciosa, perché tutti e tre i sindacati hanno più volte accettato delle deroghe, generalmente dietro situazioni di forza, di emergenza, di crisi, di necessità, qualche volta di investimento. Non c’è solo Marchionne che investe, anche la Zoppas, l’Electrolux e altre aziende hanno fatto investimenti chiedendo qualcosa.
La stessa Melfi è nata come una mostruosa deroga contrattuale! Si derogava su tutto. Pro tempore certo, e però...
Comunque in quella sede è diventata una questione fatale, si è inceppata la trattativa e quindi è stato fatto l’accordo separato.

Lei sostiene che la Fiom è un universo molto particolare nel sistema italiano. In che senso?


Io ho scritto e continuo a pensare che quest’organizzazione dalle lunghe tradizioni sia un caso molto particolare. Intanto nella sua struttura, perché comprende settori produttivi completamente diversi: si va dalle valvole termoioniche alla cantieristica, dall’auto all’oreficeria. Non posso dire che sia una categoria "mostro”, ma certo è più di una categoria: è un mondo. Anche per questo ha molti iscritti. Il metalmeccanico poi è un comparto competitivo, che esporta, quindi è molto importante.

In questi decenni è stato più volte suggerito: "Ma non è meglio creare qualche sindacato di settore, scorporare qualche categoria che non c’entra niente con tutte le altre?”. Evidentemente si è ritenuto più comodo mantenere lo status quo. Però, ripeto, è una categoria che unisce settori fra loro davvero lontani.
Sul piano politico, poi, è una categoria che è sempre stata abbastanza di sinistra.
Io arrivo a dire che politicamente la Fiom sembra quel che resta del partito comunista. Dico sembra perché in realtà non è affatto vero. La prima volta che ho sentito Landini e ne ho parlato in casa, ho detto: "Beh, di una cosa si può esser sicuri: che questo non conosce Marx”. Tre giorni dopo è uscito sul giornale che lui non ha mai letto Marx…
Però, ecco, hanno un’idea del conflitto di classe e dei diritti dei lavoratori molto precisa e accettano il compromesso meno di quel che, nel mestiere del sindacato, di solito si fa. In qualche modo sono poco "sindacato” perché sono poco negoziali. Loro ovviamente rispondono che sono poco negoziali perché non possono trattare quelle robe lì, non possono cedere su quei punti lì.
Loro addirittura rifiutano l’asimmetria fra capitale e lavoro (approccio che ha qualche radice nella politica della Cgil) che è quella che giustifica tutto il diritto del lavoro e molti pezzi di tante costituzioni. Per loro è un’asimmetria inaccettabile.
La conseguenza è che la Fiom, con l’impresa, vuole negoziare tutto e in parità. Il che evidentemente non è possibile. Perché nel capitalismo un’asimmetria c’è e sta proprio nel fatto che non puoi negoziare tutto. Non puoi mettere il naso su tutto quel che fa e vuole fare l’azienda.
Finisco dicendo che dietro a questa particolare linea dove la logica dell’intransigenza si coniuga con l’intransigenza della logica, io ci vedo quel "sindacato dei diritti” che fu pensato da Trentin, che è stato inteso e frainteso in modi diversi, ma uno dei modi in cui esso è stato inteso era questo. E cioè il postulato di un azzeramento dell’asimmetria. L’asimmetria c’è, la si soffre, la si denuncia tutti i giorni, ma noi non l’accettiamo. Noi vogliamo negoziare tutto. Il padrone non può fare tutto quel che vuole, dovremo discutere con lui tutto quanto.
Ripeto: questo può anche essere ritenuto normalissimo per un sindacato, ma l’enfasi che pone la Fiom su questa piattaforma operativa è tale da averla indotta a non sottoscrivere tanti accordi.
I vecchi dicono che uno, quando viene sconfitto due, tre, quattro volte, dovrebbe chiedersi: "Beh, ma com’è che m’hanno sconfitto?”. E non si può rispondere: "Erano cattivi!”.
È un po’ la vicenda della sconfitta della Cgil alla Fiat nel ’55, che io ho vissuto personalmente. Il giorno prima -io ero membro della commissione interna- eravamo andati a diffondere un volantino, l’ultimo messaggio ai compagni della Fiat. E ricordo che ci dicevamo: "Speriamo che votino bene”. Invece non votarono bene. Noi a quel punto avevamo tutte le nostre cause esplicative: il regime di fabbrica, la compressione dei diritti, il licenziamento dei dissidenti. Però poi Di Vittorio disse: "Sì, vabbé, ho capito, però”.
Intendiamoci, anche Di Vittorio era molto confuso. La sua posizione contro la contrattazione aziendale certo non aiutava la comprensione del problema. All’epoca la Fiat era un impero. Il welfare della salute a Torino non era l’Inam, l’Istituto Nazionale Assicurazione Malattie, ma la Malf, la Mutua Aziendale Lavoratori Fiat.
La condizione dei lavoratori Fiat era molto diversa da quella degli altri.
Quindi si può dire che erano molto cattivi, però il loro paternalismo aziendale era cospicuo, c’erano parecchi benefit. Io, quand’ero ragazzino, andavo a prendere la befana Fiat, come figlio di dipendenti.
Che cosa si poteva negoziare con una siffatta azienda, invece di subire come un danno i suoi regali? Che cosa chiedere all’azienda? Ecco, come diceva Garavini, bisognava ottenere la contrattazione in tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, che il sindacato all’epoca non contrattava di sicuro.
Per finire con la Fiom, la mia impressione è che non si siano chiesti a sufficienza come mai varie battaglie siano finite male.
La prima volta che me ne sono accorto è stato nel 1980 quando avevo fatto una grande inchiesta sulle propensioni dei lavoratori verso il conflitto e la partecipazione, ed era uscito che la maggioranza relativa dei lavoratori era per la cooperazione fra lavoratori e padroni. Mi saltarono addosso come se fossi un matto!
Poi, nello stesso anno ci fu la lotta dei trentacinque giorni, che fu un’altra legnata…
Da allora in poi la Fiom avrebbe dovuto fare un paio di riflessioni che non ha fatto. Mi dispiace dirlo adesso perché la Fiom, poveretta, è sotto tiro e però…

Tornando a quella che lei definisce come la novità più grave e dirompente, quella dell’esclusione di un sindacato, cosa succede adesso? C’è chi dice che la Confindustria ne esce altrettanto male del sindacato…


Allora, quella è la cosa più inaccettabile perché non esiste in Europa. è una assoluta novità nel sistema della rappresentanza.

La Fiat che farà? Ha fatto questa finta azienda, questa newco, forse ne farà anche altre.
Anche la Confindustria, in effetti, ne esce malissimo, perché la sua rappresentatività viene intaccata. La Confindustria non viene esclusa, rimane come lobby di riferimento, però, se si allarga questa prospettiva, e vedo che alcuni autori la danno per probabile, il suo potere contrattuale calerà drasticamente.
Allora, l’esclusione del sindacato che dissente è la cosa più grossa e più grave anche per le conseguenze a venire, ma certamente anche l’idea che varie aziende si facciano il loro contratto aziendale appiccicandosi o meno ad un eventuale contratto nazionale, che altri hanno al posto del contratto aziendale, crea un discreto marasma.
Non a caso, la Confindustria ha riunito un organo particolare per decidere su questa questione, e la pronuncia è stata di grandissima cautela perché io penso che più di metà degli imprenditori non voglia questo. E non lo vuole perché pensa che ne verranno guai.
Un funzionamento efficiente del sistema produttivo prevede infatti un minimo di cooperazione fra le parti. Quando il sindacato firma il contratto di lavoro è una cosa anche liberatoria per le relazioni reciproche: "Meno male che c’è ‘sto contratto di lavoro, così per tre o quattro anni stiamo tranquilli”.
Se invece cominciano ad esserci dei buchi perché uno non ha il contratto nazionale, un altro ha un contratto aziendal-settoriale, un altro ancora ha fatto una società nuova, beh, insomma, si profila un bel pasticcio!
Davvero ci si deve augurare che quel che fa la Fiat non lo facciano anche gli altri.

Ma secondo lei l’esclusione della Fiom è stata premeditata o è stata la conseguenza di un concatenamento di eventi?


Quando uno fa un calcolo sulle prospettive formula una serie di ipotesi: "Se succede questo…”. Beh, io credo che l’opzione "se succede che la Fiom non firmi”, l’abbiano tenuta ben presente.

Ma il punto è che loro volevano la governabilità e Pomigliano non è un modello di governabilità, da tanto tempo. Non è neanche colpa della Fiat in senso stretto. Basterebbe citare i casi clamorosi: magari poi lavoravano anche se il giorno prima erano andati tutti alla partita, però certo fa impressione; così come fa impressione che siano andati tutti a far gli scrutatori. Sono cose che quando uno le viene a sapere, s’arrende e dice: "Vabbé”. Il concetto di governabilità dell’azienda comunque è tutt’altro che banale.
La governabilità dell’impresa è ciò che ha mandato in crisi il fordismo perché l’azienda rigida, mastodontica, goffa, anche lenta, del fordismo avanzato, di fronte ad un mercato molto più spicciolo, non era più governabile. è stata la rigidità a far cadere il fordismo. Il post-fordismo infatti si è affermato con la flessibilità. Quando Marchionne chiede la governabilità dell’impresa, quello che vuole è un’impresa ultra flessibile, sistemicamente flessibile -non flessibile all’occasione.
è questa macro flessibilità il problema. Dieci anni fa la flessibilità era quella dei tempi di lavoro, oggi un’intera fabbrica si deve poter fermare, ripartire, lavorare di più, lavorare di meno. Questa maxi flessibilità oggi è forse l’ultimo spunto perché non si può tirare il collo ai lavoratori e alle cose più di così, in nome della personalizzazione del prodotto, del produrre per ogni singolo consumatore.
Forse l’intera vicenda Fiat-Marchionne alla fine è la prova di una perdita di peso del lavoro immane, veramente immane. E noi non siamo abituati. In Europa una cosa così non si era mai vista. Altrove c’erano state situazioni analoghe, ma le cose erano state gestite meglio.
Nel nostro Paese, soprattutto per colpa del Governo, la situazione, invece, si è proprio svaccata, se posso dir così. In assenza di un intermediario politico, l’economia ha espulso da sé tutti i corpi estranei, con il risultato che il big management ha contato più del big government. è questa la grande novità. L’Italia, poi, è un caso penoso per via del suo big governant, però la tendenza è quella. E se vince il big management, il lavoro ci rimette. Punto. 

(Una Citta', Febbraio 2011)

Spot pro-nucleare? È ingannevole

Tra le «notizie scomparse» sul nucleare, una è stata ripescata da Guglielmo La Pira sul suo blog «Il futuro dei consumi» del Sole24Ore. Letteralmente: «Lo spot promosso dal Forum energia nucleare presieduto da Chicco Testa (vedi nota 1) è stato bocciato e ritenuto ingannevole dal Giurì dell'Autodisciplina Pubblicitaria». Era il 18 febbraio, lo apprendiamo il 22. Non sappiamo ancora le motivazioni del Giurì, ma che lo spot contenesse informazioni fuorvianti e false lo aveva denunciato Greenpeace sulla prima pagina di questo giornale. Almeno tre le informazioni ingannevoli nelle varie versioni dello spot che ha invaso i media da Natale in poi. La prima è che l'affermazione «le scorie si possono gestire in sicurezza» lascia intendere che questo tema sia risolto. Ma questa è pura propaganda. In sessant'anni di esistenza l'industria nucleare non ha ancora dimostrato in concreto una soluzione per la gestione di lungo termine dei rifiuti nucleari.
Una seconda falsità riguarda il fatto che tra 50 anni non potremo contare solo sui combustibili fossili: è vero, ma questa limitazione fisica delle risorse riguarda anche l'uranio il cui orizzonte di esauribilità non va oltre quello del gas. Il terzo elemento è quello che lascia intendere le fonti rinnovabili non bastano: le consultazioni su uno scenario europeo al 100 per cento basato sulle fonti rinnovabili sono in corso e questa prospettiva non è solo negli scenari di Greenpeace o di altre associazioni ambientaliste, ma in quelli promossi da parte dell'industria e delle istituzioni.
Come aveva lanciato la campagna del Forum Nucleare il suo Presidente Chicco Testa? Dicendo «Dubito che una campagna pubblicitaria di Greenpeace, ad esempio, saprebbe essere altrettanto onesta intellettualmente» (Secolo XIX 17 dicembre 2010). Ora, lasciando da parte ogni considerazione sull'uso di questa terminologia per uno spot infarcito di bufale, c'è un altro livello, per così dire «semiologico», sul quale lo spot del Forum gioca in modo raffinato ma ben decifrabile.
Ne ha fatto una analisi Pierluigi Adami con un commento sul sito «oltreilnucleare.it» dove sottolinea come «la scelta di lasciare al "non contrario al nucleare" l'ultima parola in ogni coppia di domande è di per sé una precisa scelta di campo. Basterebbe invertire l'ordine, lasciando l'ultima parola al "non favorevole" per ottenere un senso diverso».
Greenpeace nelle scorse settimane aveva lanciato un suo spot basato su ironia e paradosso - visionabile sul sito Greenpeace.it. Ma le circa 200 mila visite (grazie anche al sito di Repubblica che l'ha ospitato) non possono competere col numero di «contatti» dello «spot ingannevole» che ha speso oltre 6 milioni di euro. Prima domanda: su questi il Forum chiederà il rimborso allo stato, visto che la normativa pro nucleare prevede «campagne di informazione» a senso unico? Forse dopo la bocciatura del Giurì non accadrà. È più probabile che intervenga una strategia del silenzio, per evitare di far sapere che tra qualche settimana si svolgerà un referendum anche sul nucleare. Anche questa, in fondo, sarebbe un'altra forma di inganno.
 
Giuseppe Onufrio (Direttore di Greenpeace, Il Manifesto, 23-02-2011)