A Londra ritorna la lotta di classe di Nicola Melloni E così a pochi mesi dal ritorno al governo dei Conservatori che si erano presentati in veste assai nuova e ben mimetizzati sotto il sorriso affabile di David Cameron, a Londra sono ricominciati gli scontri di piazza, oltre un ventennio dopo la durissima lotta che vide fronteggiarsi i sindacati e la signora Thatcher. D’altronde non poteva essere altrimenti. La finanziaria 2010 di George Osborne, il Ministro del Tesoro, è stata a dir poco draconiana. I conti pubblici inglesi sono in grave disordine, questo è vero, ma la responsabilità di questo non può essere scaricata, come si tenta di fare in Italia, sui costi dello stato sociale. Il deficit è semplicemente causa della crisi finanziaria e dell’aiuto pubblico dato per salvare le banche incapaci di sopravvivere in quel mercato non regolato che proprio banchieri e finanzieri hanno sostenuto. Ma questo non conta. Propio la comunità finanziaria, con una faccia di bronzo senza eguali nella storia, ha rinfacciato al governo il debito accumulato in questi ultimi anni ed ha lanciato il proprio diktat: rimettere a posto i conti immediatamente. Chi paga? Certo non loro, loro, si sa, prendono solo. Quindi a pagare deve essere la popolazione. Non è bastato l’aumento della disoccupazione, la stretta finanziaria e la recessione che ha colpito soprattutto i lavoratori mentre i banchieri hanno continuato a pagarsi bonus d’oro con i soldi pubblici. No, ovviamente, non poteva bastare. I veri dolori arrivano ora. Il governo Tory, spalleggiato dai liberaldemocratici che erano riusciti a fare incetta di voti di sinistra in libera uscita dal New Labour con una campagna elettorale farlocca e fasulla, ha dichiarato guerra al lavoro, alla scuola, ai servizi pubblici. Sotto attacco è il modello di convivenza civile che ha caratterizzato l’Europa dal secondo dopo guerra in avanti. Un attacco che non riguarda solo il Regno Unito ed è di una virulenza e di una violenza sociale che non ha eguali nella storia recente. Le tasse scolastiche vengono triplicate e gli investimenti pubblici nell’università vengono quasi dimezzati. Ma è il progetto che sta dietro questi tagli a fare paura: la scuola pubblica viene di fatto abbandonata, trasformata in un mercato dove gli studenti diventano consumatori e le università imprese. Siamo all’apogeo del mercato, alla mercificazione della cultura e, più in generale, del servizio pubblico. In questi ultimi vent’anni di bugie ci avevano raccontato che la lotta di classe era finita. Ma come altro possiamo definire questa situazione cui ci troviamo davanti ora? Questa è una battaglia di redistibuzione del reddito dalle classe popolari ai capitalisti, alla finanza rapace, agli arroganti scherani del potere che lo scorso anno gettavano banconote da 20 sterline sulla testa dei manifestanti anti-G20. La rivolta non ha tardato a cominciare. Gli studenti sono scesi in piazza in maniera massiccia per dire no alla distruzione del sistema universitario. Hanno detto che non sono disponibili a pagare per i danni provocati dalle banche . Il centro di Londra ha assistito al primo grande scontro tra sfruttati e sfruttatori, un processo di lotte che si sta allargando a macchia d’olio a tutta l’Europa, da piazza San Giovanni agli scioperi francesi. Una lotta che non può essere rimandata perchè il capitale sta cercando di stravolgere il nostro modello di convivenza civile. Sfruttando la crisi, il modello che invece ora ci viene imposto è un modello classista che premia i ricchi, ed in cui il mercato invade e rimpiazza la sfera pubblica non più sulla base della supposta efficienza del liberismo ma con la scusa che non ci sono più soldi in cassa per garantire il livello di servizi cui eravamo abituati. Non è vero naturalmente. Le nostre economie continuano a produrre ricchezza, bisogna solo decidere come la si spartisce. E’ un concetto vecchio, è la lotta di classe. Si tratta della riapertura del conflitto sociale che è stato sopito per anni concedendo le briciole dell’accumulazione capitalista ai lavoratori che ora si trovano deprivati anche di quel poco e questo vuol dire che anche il sistema politico che aveva supportato quel contratto sociale diventa, tutto ad un tratto, inadeguato. Il capitale approfittatore non può permettersi il compromesso democratico che ha caratterizzato i nostri paesi nella seconda metà del XX secolo. La diseguaglianza, la polarizzazione del reddito, la concentrazione del capitale in poche, rapaci mani deve per forza alzare il livello di repressione per contenere la rivolta sociale. Negli scorsi mesi a Londra abbiamo avuto la prova generale di questo giro di vite. Carabineros a cavallo contro studenti a mani nude, come in Cile nel ’73, come a fine Ottocento contro le primemanifestazioni operaie. Il neo-liberismo torna alle origini, alla violenza per governare la piazza, alla repressione brutale, come si è visto davanti al Parlamento brittanico, con dimostranti bloccati al freddo, effettivamente sequestrati in una piazza chiusa ermeticamente da camioncini della polizia, da forze dell’ordine in tenuta anti-sommossa, da bastonatori a cavallo. Una scena di lotta di classe nel lussuosissimo centro di Londra, una scena che vedremo sempre più spesso nel prossimo futuro. Quello cui ci dovremo abituare però, è anche il tentativo che continuerà di limitare la nostra libertà e di trasformare sempre più le nostre democrazie in stati di polizia, una degenerazione che solo un forte movimento sociale, organizzato, strutturato e cosciente del suo ruolo politico può evitare.
Effetti dei tagli sulla popolazione di Carla Gagliardini Qualche settimana fa ho partecipato ad una riunione di latino-americani a Londra. Si discuteva delle linee organizzative per partecipare in modo rumoroso e colorato alla manifestazione del 26 marzo a Londra contro i tagli alla spesa pubblica. All'incontro, organizzato nel quartiere latino-americano di Elephant and Castle presso uno dei tanti shopping centres, hanno partecipato un parlamentare della sinistra Labour, un paio di rappresentanti di organizzazioni territoriali che si occupano dei problemi dei propri connazionali e un gruppo piuttosto folto di persone. La comunità latino-americana sarà certamente danneggiata in modo preoccupante dai tagli in arrivo. Questo perché si tratta prevalentemente di persone che svolgono lavori c.d. “umili” e in particolare si tratta di un gran numero di uomini e donne che lavorano nel settore delle pulizie. Ciò significa che i loro redditi sono tendenzialmente bassi e per vivere in una città come Londra, dove tanto per citare due esempi il costo del trasporto e delle abitazioni è molto caro, è possibile solo con il sostegno dei contributi governativi e degli enti locali a favore dei redditi bassi. Questi sostegni, tuttavia, verranno ridotti in modo significativo già a partire da aprile 2011. Ma non è questo l'unico aspetto che preoccupa questi compagni e queste compagne latino-americani. Alcuni dei tagli già in vigore hanno ridotto i fondi per le associazioni che si occupano di fornire certi servizi sul territorio. E così una ormai storica associazione latino-americana che si occupa di prestare servizi agli anziani latino-americani, molti dei quali non parlano inglese, sarà a breve costretta a chiudere le sue porte perché non più in grado di pagare l'affitto dei locali. La presidentessa dell'associazione raccontava di essere stata a visitare una struttura offerta loro dal quartiere in una delle zone più a rischio dell'area. Si trattava di un bagno pubblico, si proprio quello che più volgarmente chiamiamo cesso, situato all'interno di un parco che quando viene buio mette i brividi. Esprimeva alla sala che l'ascoltava la sensazione di umiliazione provata di fronte a quella inaspettata offerta. I tagli che verranno fatti vanno nella direzione di colpire le persone già economicamente e socialmente più deboli della società. E il rincaro dell'IVA (passata dal 17.50% al 20%) è un ulteriore gravame che impoverirà ancora di più le famiglie dal reddito basso. La rabbia cresce tra i cittadini perché anche le prospettive lavorative di questo paese, che un tempo offriva opportunità di lavoro e carriera, oggi sono ridotte all'osso. In compenso dobbiamo assistere ancora una volta al pagamento dei super-bonus che la banca RBS ha fatto ai propri managers, nonostante un altro anno chiuso in perdita. Pensate che questa banca è stata in parte (84%) nazionalizzata dal governo britannico per salvarla dal fallimento che la stava travolgendo per via della crisi finanziaria. Quindi per salvarla il governo di Sua Maestà al quale anch'io verso le tasse, ci ha messo i soldi di noi contribuenti. Il governo inglese ha detto: “scusate signori ma è richiesto un comportamento più etico. Questa storia l'abbiamo già vissuta e abbiamo imparato per cui i super-bonus sono una politica che appartiene al passato e, pertanto, non sono più ammessi”. Scusate ho scherzato un po' con voi. Ovviamente il governo di David Cameron e del suo fedele ministro delle finanze George Osborne non ha detto questo. Mentre scrivevo dovevo avere la testa tra le nuvole. No, il governo, invece, ha lasciato fare. Eppure in campagna elettorale metteva quasi paura quando lo si ascoltava dire che comportamenti così deplorevoli da parte dei banchieri non sarebbero stati da loro tollerati! Non ci ho creduto per un solo secondo ma altri invece ci sono cascati. Ma torniamo ai nostri tagli. A ricevere un duro colpo non è solo il settore pubblico ma anche quello privato. Questo perché molti degli appalti che un tempo venivano fatti dal governo o dagli enti locali oggi sono stati cancellati determinando una drastica riduzione del lavoro delle imprese che, già da tempo, hanno aperto le porte dei loro uffici per dare il benservito ai loro dipendenti i quali, improvvisamente, sono stati classificati come un “esubero”. E la NHS (l'equivalente del nostro SSN – servizio sanitario nazionale) non sta affatto meglio. Si parla persino di privatizzare la sanità pubblica! Infine in un paese dove la delinquenza è un dato preoccupante si è votato in parlamento per il draconiano taglio dei fondi alle forze di polizia, il che significa meno agenti e ovviamente meno agenti sulle strade. Mi domando se l'Inghilterra rimanga sempre quel paese il cui modello ispira una certa parte della sinistra italiana. Mah..........
Il progetto Merlin – un trucco mal riuscito di Alessandro Volpi Lo scorso Febbraio le quattro principali banche britanniche (HSBC, Royal Bank of Scotland, Barclays e Lloyds) hanno raggiunto con il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne un accordo che va sotto il nome di Merlin Project. Il clima in cui si è svolta la trattativa e gli esiti finale sono evidenti segnali che non molto è cambiato nell’Inghilterra del governo neo-Conservatore. Le Banche hanno riguadagnato la loro spavalderia e sfidano apertamente la società e la politica, quella stessa politica che solo due anni e mezzo fa ne permise la sopravvivenza. L’audizione del CEO di Barclays davanti ai Membri del Comitato del Tesoro, che ha di poco preceduto l’accordo Merlin, è stata in questo senso illuminante: sprezzante rifiuto nel manifestare gratitudine ai contribuenti britannici, esaltazione della propria industria, negazione di qualsiasi impegno a rinunciare ai compensi milionari dei top-executives. Appare quanto mai opportuno calare i fatti nel loro contesto. Due dei quattro più grandi istituti finanziari (RBS e Lloyds) insieme a una serie di altre banche minori e Building Society furono salvate dalla bancarotta nel corso della crisi finanziaria del 2008 da un massiccio intervento del Governo Laburista, un intervento che assunse diverse forme a seconda della gravità dei casi. RBS fu di fatto nazionalizzata (il Tesoro ne controlla tuttora più del 80%), così come Lloyds anche se in minor proporzione. In altri casi, il Governo fornì forme di garanzia della solvibilità, creò dei Fondi di emergenza, e tramite la Bank of England immise ingentissimi quantitativi di liquidità nel sistema finanziario, per scongiurare un rischio “Lehman Brothers”. Il sistema finanziario fu salvato, anche se ad un prezzo altissimo per le finanze pubbliche. Tale intervento risultò sommamente impopolare a livello di società e pubblica opinione. Molti pensarono che i risparmi e le tasse dei contribuenti venivano utilizzati per salvare quelle stesse banche d’affari che avevano generato la crisi attraverso una sistematica, eccessiva e spregiudicata assunzione di rischio. Molti altri non riuscivano a capire perché non si potesse semplicemente lasciar fallire, come si sarebbe fatto con le imprese di un altro settore, quelle istituzioni che per i propri errori e avidità avevano causato una crisi che mordeva ora l’economia reale. Altri ancora si indignavano per i livelli di retribuzione di un’industria che sottrae costantemente molti giovani talenti alla società senza restituire un beneficio collettivo, e che ora, dopo anni di ampi profitti privati, trovava “dovuta” la collettivizzazione delle perdite. Su un punto tutti convenivano: rendere la crisi finanziaria una lezione storica, un punto di inflessione del sistema da cui ripartire con regole nuove e più severe, che si applicassero in primis alle banche, che rendessero la finanza un’industria “normale” al servizio della produzione e non ripiegata su stessa e su torbidi giochi di speculazione internazionale. L’intero spettro della nomenclatura politica sembrava sostenere con forza una simile linea d’azione. Chiedevano a gran voce la fine della cultura dei super-bonus basati sui risultati di breve periodo, la fine del paradigma del “ too big to fail”, l’idea per cui un colosso finanziario non può essere lasciato fallire perché trascinerebbe con sé per effetto domino l’intero sistema, con conseguenze disastrose sull’economia; infine, la riscoperta della reale funzione di un sistema finanziario, e cioè l’efficiente allocazione delle risorse alle imprese e alle realtà produttive. La crisi finanziaria, si diceva, ha avuto enormi ripercussioni sulla collettività. La politica ha il compito di garantire che questi eccessi non abbiano a ripetersi, che i banchieri rientrino nei ranghi, che si modifichi la natura stessa del sistema finanziario. Tra i critici più indignati e accesi sostenitori di tali posizioni svettavano Osborne, Cameron, e tutto lo stato maggiore dei Liberal Democrats, allora tutti all’opposizione. Le elezioni dell’anno passato sancirono un logico, quasi scontato cambio di testimone. Il governo laburista era percepito, per molti versi a ragione, come responsabile della deregulation che aveva condotto al meltdown finanziario, e i conservatori hanno avuto buon gioco a criticare il disastro che era sotto gli occhi di tutti. Il messaggio era semplice: la crisi è grave, e ci sarà un prezzo da pagare che sarà salato e ricadrà sulla società e sul settore pubblico. Il governo laburista ha lasciato finanze dissestate (proprio a causa del salvataggio delle banche), e non esistono alternative indolori. Ma quanto alle banche, si diceva, si cambia registro: regole severe sui livelli di rischio tollerabili, sulla quantità di riserve obbligatorie, sul sistema di bonus e compensi, sull'erogazione del credito alle imprese, sulla dimensione massima di una singolo gruppo, sulla struttura stessa delle istituzioni. Tutti punti dirimenti che costituiscono lo scheletro portante del sistema finanziario di un paese. Vinte le elezioni, l’inusuale coalizione di Conservatori e Lib Dem non ha tardato a implementare i cosiddetti sacrifici richiesti alla società. Tagli drammatici del welfare, eliminazione di circa 100 mila posti pubblici all’anno, triplicazione delle rette universitarie, tagli alle amministrazioni locali e alle organizzazione no-profit. Si tratta di politiche piuttosto rischiose (molti commentatori di diverse aree di pensiero hanno parlato di “big gamble”), in quanto l’ulteriore compressione della spesa e dei consumi privati potrebbe frenare la ripresa economica o persino innescare una nuova recessione, ma sostanzialmente in linea col programma elettorale dei Tories. E le banche? Sulle banche invece si è proceduto con enorme cautela, tra generiche dichiarazioni di buone intenzioni, deleghe alla sovranità europea, avvertimenti sul rischio di perdita di competitività internazionale e del ruolo di Londra come hub dei servizi finanziari del continente. Fino al progetto Merlin del mese passato. I punti sul tavolo erano sostanzialmente due: (i) garantire un aumento dell’erogazione del credito all’impresa e ai business medio-piccoli per aiutare la ripresa economica; (ii) il sistema di bonus e compensi, sia in termini del valore e della quantità dei premi corrisposti, sia nel modello di differimento temporale, sia infine in termini di trasparenza degli stessi. A tutto ciò si aggiungeva l’annosa e mai risolta questione del “modello” bancario, causa ultima del problema sistemico insito nella crisi del 2008: si deve porre un limite alle dimensioni che una singola istituzione può raggiungere, senza che questa costituisca un rischio intrinseco per tutto il sistema? E ancora: la banca retail e commerciale che raccoglie i risparmi dei cittadini deve essere separata dalla banca d’affari che gioca sui mercati internazionali (come sosteneva Vince Cable, attuale Business Secretary del governo di coalizione) ? O le due divisioni possono coesistere all’interno dello stesso gruppo, con un forte grado di interdipendenza, che e’ il business-model attuale delle banche britanniche? Su questi punti si attendeva una risposta dal confronto tra Tesoro e le quattro grandi, cui si è aggiunto parzialmente il gruppo Santander che nel corso della crisi ha consolidato la sua presenza in UK tramite una serie di acquisizioni. E su questi punti la lobby delle banche ha ottenuto una vittoria inequivocabile. Vediamo perché. Credito all’impresa: le banche si sono impegnate in via teorica a incrementare di 11 miliardi su base annua i prestiti alle imprese (da 179 a 190), quasi la metà dei quali dovrebbero andare agli small business. Tuttavia, il Governo non ha nessuna forza di coercizione né può imporre alcuna sanzione qualora questi obiettivi dichiarati non vengano raggiunti. Inoltre, e quasi inevitabilmente, tali crediti verranno concessi secondo criteri commerciali, con attenta valutazione del profilo dei richiedenti, e sempre che le condizioni di mercato siano sufficientemente stabili. A ben vedere, dunque, le banche si sono impegnate a incrementare il credito solo se lo riterranno conveniente, e nei termini che riterranno opportuni. Non un accordo, ma una dichiarazione d’intenti che preserva lo status quo. E quel che è peggio, l’associazione degli Small Business continua a lamentare le condizioni di accesso al credito. I potenziali prestiti sono soggetti a tassi alti, spesso non sostenibili, e risultano quindi non praticabili. In generale, quindi, si tratta di vuote dichiarazioni di intenti non corroborate da alcuna sostanza fattuale. Bonus e compensi: anche su questo fronte il Governo esce con risultati scadenti. Non ha introdotto dei tetti di compensazione, e neppure una tassazione sistematica più severa che serva da deterrente o perlomeno da misura redistributiva dei premi. Si assiste così al paradosso di pagamento di bonus milionari a alti esecutivi di banche “pubbliche” (come RBS) che hanno chiuso l’anno con una perdita netta, con la motivazione che la perdita era inferiore all’anno precedente e che senza bonus stellari nessuna banca può competere nel mantenimento dei propri top-performers e nella ricerca di nuovi talenti. In quanto allo schema di pagamento, ogni banca ne adotta uno diverso. È pratica consolidata che parte dei compensi alti vengano corrisposti in azioni o in cash differito su un certo periodo di tempo (tipicamente da uno a quattro anni). Ma questa pratica in sé è un palliativo ed era di fatto in essere già da molti anni, senza che riuscisse in nessun modo a scoraggiare quei comportamenti di eccessivo risk-taking nella ricerca di un profitto immediato che hanno portato alla crisi. In quanto alla trasparenza, le banche si sono impegnate a rendere noto il compenso dei 5 top-executives, anche se in forma anonima. Questa misura non applica però ai traders, spesso destinatari dei pacchetti più generosi. Anche in questo caso quindi, la cultura dei big bonus non viene seriamente scalfita dagli accordi del progetto Merlin. Business Model: quest’aspetto è il più complesso e ha profonde implicazione sulla struttura del sistema finanziario. A onor del vero, e’ parte di un discorso più ampio rispetto al contenuto di un singolo accordo. Ma a tutt’oggi si può riscontrare che nulla e’ stato fatto per risolvere il problema del “too big to fail”. Se una nuova crisi venisse a colpire uno dei grandi colossi, avremmo di nuovo il problema che un singolo fallimento potrebbe potenzialmente innescare una reazione a catena che affondi l’intero sistema. Non si sono posti limiti alle dimensioni di una singola istituzione o al grado di interdipendenza tra queste. Quanto al Business Model, alcune banche (come Barclays e HSBC) vantano il proprio modello di integrazione banca d’affari – banca commerciale tradizionale come un pilastro del loro successo e della (relativa) solidità dimostrata nella crisi. Ma va ricordato che il problema non e’ stabilire se questa o quella banca sono più o meno solide, o come hanno reagito a una situazione di estremo stress finanziario. La questione è piuttosto eliminare il problema del rischio sistemico. Nessuna istituzione dovrebbe avere dimensioni tali da non poter fallire. O altrimenti, avrà sempre per definizione una garanzia statale sulla propria solvenza. Ovvero si riproporrà sempre il problema di un’istituzione privata che è spinta ad assumere rischio e a macinare profitti per impiegati e azionisti con la garanzia che, in caso di tempesta, lo stato passerà a saldare il conto. Londra, 8/2/2011 Nicola Melloni, 08 febbraio 2011
L’ascia del Cancelliere sul welfare britannico. Le conseguenze del meltdown finanziario stanno cominciando a farsi sentire anche in Paesi come la Gran Bretagna, dove le ondate speculative che negli ultimi mesi hanno colpito Grecia e Irlanda ancora non hanno prodotto conseguenze significative. D’altronde le elezioni politiche del maggio 2010 si erano giocate proprio sul come gestire il dopo crisi, come affrontare il deficit governativo che era schizzato alle stelle. Per i conservatori le politiche di austerità rappresentavano l’unica soluzione per ripristinare la market confidence, mentre per i liberaldemocratici, membri anche loro del governo di coalizione, il riordino dei conti pubblici sarebbe dovuto avvenire in maniera più graduale.
La linea del ministro del Tesoro Osborne sembra però aver prevalso, e il Regno Unito ha intrapreso una serie di politiche economiche dal durissimo impatto sociale. La VAT (la nostra IVA), inizialmente abbassata per favorire i consumi, è stata prima riportata al suo valore iniziale e sarà poi alzata a metà 2011 – una misura fortemente regressiva perché colpisce in maniera disproporzionata le famiglie a reddito più basso, ossia quelle che utilizzano la parte maggiore del proprio reddito in consumo. Il settore pubblico verrà fortemente colpito con il blocco salariale e la pianificata diminuzione di ben 200.000 lavoratori che, nelle speranze del cancelliere, dovrebbero essere assorbiti dal settore privato. Una speranza che purtroppo non si fonda su alcun dato concreto, come conferma la maggioranza degli economisti e come evidenziato da quella che finora è una (timida) jobless recovery. Il deficit, per quanto elevato, non sembra peraltro essere tale da richiedere interventi draconiani, che rischiano piuttosto di minare la crescita. Anzi, in fasi d’incertezza economica, l’intervento pubblico può stimolare la ripresa economica, che renderebbe la dinamica del debito sostenibile nel medio periodo.
Il programma di Cameron e Osborne sembra in realtà un manifesto ideologico in cui la crescita è affidata totalmente alle virtù taumaturgiche del mercato, dimenticando che è stato un fallimento di mercato e non certo dello Stato a scatenare la crisi finanziaria del 2007 e che i conti dello Stato sono al momento deficitari proprio per il gigantesco bail out bancario degli ultimi anni.
In questo contesto la riforma universitaria sembra il punto più discutibile e quello che ha provocato maggiori proteste, almeno per il momento. I finanziamenti pubblici sono stati tagliati del 40%, mentre le tasse universitarie sono state raddoppiate e in alcuni casi triplicate fino a 9.000 pound annui. I giovani che entreranno all’università non dovranno pagare le quote immediatamente, ma potranno ripagare l’ammontare (tra le 40 e le 50.000 sterline alla fine del percorso universitario) nel momento in cui saranno assunti con un salario di almeno 20 mila sterline l’anno – non certo un salario da benestanti. Molti studenti saranno disincentivati dall’iscriversi all’università non avendo vere aspettative di salari alti nel futuro (ricordiamo che il Regno Unito ha la mobilità sociale più bassa d’Europa insieme all’Italia), mentre altri preferiranno emigrare negli Stati Uniti, sfruttando anche il cambio favorevole. Allo stesso tempo anche moltissimi studenti europei, che in questi anni hanno affollato le università inglesi, saranno costretti a rinunciare a studiare oltremanica. In ogni caso ci sarà una perdita secca in termini di qualità degli studenti. Le università migliori riusciranno comunque ad attirare studenti (e quindi denaro) contando sul loro nome e prestigio, mentre le altre rischiano seriamente di chiudere o di venire fortemente ridimensionate. Inoltre, tale riforma sembra dare nuova linfa all’economia del debito, causa principale del collasso finanziario. Le proteste degli studenti sono state durissime, represse peraltro con pugno di ferro dal governo. Il rischio è che le nuove misure di austerity, quando entreranno in vigore, causino ulteriori discontenti e proteste generalizzate.
I tagli ai sussidi agli affitti e le loro potenziali conseguenze Di Simone Rossi A metà di ottobre 2010 il Ministro delle Finanze Osborne ha presentato al Parlamento la previsione di bilancio per i prossimi cinque anni, confermando i tagli e le misure draconiane anticipate poco dopo l’insediamento del Governo liberal-conservatore. Nonostante i proclami della coalizione di maggioranza di voler distribuire equamente tra la popolazione i sacrifici per superare la crisi, la manovra nel suo complesso mira a far pagare la crisi economica agli strati più poveri della società.
Sino ad oggi lo Stato britannico ha provveduto ad integrare il reddito dei cittadini bisognosi con forme di sussidio che consentono loro di raggiungere una qualità della vita accettabile. Tra questi aiuti economici si trova il sussidio per l’affitto, destinato non solo ai disoccupati, ai pensionati ed agli inabili al lavoro, ma anche a quelle famiglie il cui reddito non permetterebbe l’accesso al mercato delle locazioni “libere”. Questo sussidio è considerato da molti britannici come una forma di “compensazione” da parte dello Stato per il suo pressoché totale disimpegno nella costruzione edilizia economico popolare, a fronte di una sempre più crescente domanda. Pur a fronte di un inadeguato intervento statale nel settore immobiliare, deve esser tenuto in conto che tale sussidio ha evitato un massiccio esodo di popolazione povera dalle zone centrali o più pregiate delle città durante gli anni della bolla speculativa e dell’impennata dei prezzi, garantendo il mantenimento di un minimo mix sociale ed etnico e preservando il tessuto di relazioni sociali esistenti nel territorio.
A tutto ciò il Governo guidato da D. Cameron ha deciso di porre fine, fissando un tetto al valore del sussidio concesso a ciascun soggetto avente titolo: £250 settimanali per un appartamento con una stanza da letto, £400 per uno da quattro stanze. Tale limite è determinato sulla base delle dimensioni delle abitazioni, a prescindere dalla località in cui esse si trovano e dal valore di mercato, ragion per cui risulta fondato il timore espresso da esponenti delle istituzioni e del mondo accademico di vedere un progressivo allontanamento dei poveri dalle zone più costose delle città e del Paese verso le aree più degradate, che sarebbero trasformate in ghetti. Tutto ciò in un momento in cui le organizzazioni dei consumatori già registrano un aumento dei casi di famiglie non in grado di pagare l’affitto o la rata del mutuo, a causa della crisi economica; momento in cui, invece, l’investimento pubblico dovrebbe crescere.
Di fronte alle polemiche ed alle pressioni, provenienti anche dal campo conservatore come il sindaco della Grande Londra, il populista B. Johnson, la maggioranza difende la propria scelta proponendola come una norma progressista, che forzerà i proprietari di appartamenti a ridurre il valore degli affitti e scoraggerà coloro che godono illegittimamente dei sussidi, frodando lo Stato. Quest’ultimo è un leit motiv cui l’Esecutivo ricorre frequentemente per giustificare il taglio indiscriminato e pesante di ogni forma di sussidio, esagerando la portata del fenomeno dei “falsi invalidi” e di coloro che sono definiti “ladri di sussidi” e finanche riportando esempi di frode che, alla prova dei fatti, non trovano riscontro nella realtà. In questa operazione di mistificazione la maggioranza trova una sponda nei media, soprattutto la carta stampata di area moderata o conservatrice; durante l’estate ad esempio, il quotidiano The Sun pubblicò scandalisticamente la notizia di una famiglia di origini extra-europee che viveva nel centro di Londra grazie ad un sussidio di circa £36.000 l’anno, pari ad una volta e mezzo il salario medio inglese. L’articolo diede l’avvio ad una campagna, di taglio populistico, di denigrazione dei fruitori di sussidi con il risultato che, quando fonti ufficiali smentirono la notizia, l’idea che i lavoratori dovessero mantenere con le proprie tasse dei parassiti era già luogo comune. Nonostante la propria ostentata inflessibilità, però, il Governo ha dovuto posticipare l’entrata in vigore della nuova norma al 2012, cedendo temporaneamente alle pressioni delle organizzazioni non governative e di alcuni enti locali, profondamente preoccupati degli effetti sui servizi pubblici causato da una rapida migrazione di migliaia di cittadini verso aree già disagiate e dalla possibile segregazione per censo che la società inglese potrebbe subire. Il rischio che i nuovi tetti entrino in vigore non sarà comunque evitato fintanto che l’approccio vittoriano dei liberal-conservatori nei confronti dei poveri godrà dell’appoggio di strati della piccola e media borghesia.
Lezioni inglesi di Nicola Melloni La Gran Bretagna per anni ci è stata presentata come il paese dei miracoli. La stampa italiana, senza eccezioni, l’ha descritta come il paese dove tutto funzionava, la “cool Britannia” di Tony Blair dove tutti volevano andare a vivere, con un governo autorevole, una democrazia stabile e bipolare (anzi, bipartitica), lavoro flessibile che faceva funzionare il paese ma, allo stesso tempo, non immiseriva i lavoratori. Insomma, un esempio da imitare, importare l’assetto istituzionale inglese, sostenevano i nostri liberali, sarebbe stato il segreto per il futuro successo del nostro paese. In realtà, molti dei cosiddetti pregi della Gran Bretagna erano mitologie belle e buone già durante gli anni di premierato di Tony Blair. La mobilità sociale del Regno Unito già negli scorsi anni era la più bassa d’Europa insieme a, sorpresa sorpresa, quella italiana. Nato ricco, morto ricco e, soprattutto, nato povero e morto povero. D’altronde con un sistema educativo dominato dalla presenza delle scuole private – un’altra delle cose invidiate dai liberali di casa nostra – difficilmente potrebbe essere altrimenti. Certo Londra era ritornata l’ombelico del mondo, ma il resto del paese diventava perdeva quote sostanziali di reddito e la forbice tra ricchi e poveri si era allargata enormemente. Ma, si diceva, un costo sopportabile in una economia che va come un treno. Non era vero nulla, invece. Si trattava di una grande bolla speculativa, soldi facili attraverso le banche investite nel settore immobiliare, l’unica attività produttiva di una qualche importanza in Gran Bretagna. Il resto era un paese dedicato ai servizi, dove si produceva poca ricchezza reale. Un paese dominato dalla finanza che sembrava aver risolto tutti i problemi. Non solo provvedeva il capitale per gli investimenti ma finanziava anche il consumo, sopperendo così all’eterno dilemma del capitale, bloccato tra riduzione dei salari e aumento delle vendite. Ma era una soluzione illusoria. Dalla moneta non si produce ricchezza, l’economia del debito privato non è più virtuosa di quella del debito pubblico ed inevitabilmente è destinata a crollare quando questi debiti non si possono più pagare. La crisi ha travolto l’economia brittanica, l’ha messa in ginocchio e ancora oggi dopo 4 anni dall’inizio della crisi il nuovo governo conservatore è incapace di rimettere in moto un giocattolo ormai rotto. Le banche hanno ricominciato a fare profitti ma la disoccupazione non scende e l’economia non riesce a crescere. Il governo ha salvato le banche e ora si ritrova non solo con un livello altissimo di debiti privati, ma anche di debito pubblico. Ed ha deciso di farlo pagare ai più deboli. Ma il fallimento del neo-liberalismo anglosassone non è solo quello di Londra. Così come per oltre un decennio ci siamo sentiti ripetere delle virtù del mercato, ora è il momento di fare i conti con i limiti del mercato. Mercato che crea società non solo ingiuste e disfunzionali, ma anche economicamente inefficienti. Mercato che privatizza i profitti e socializza le perdite, che non è capace di autoregolarsi e che tende, inevitabilmente ad entrare in conflitto con la democrazia. Queste sono le lezioni della crisi bancaria, della crisi del modello inglese. Seppur con ampio ritardo sarebbe ora che l’Europa e soprattutto l’Italia si rendessero conto di questo fallimento e riscoprissero le virtù di un modello alternativo di sviluppo, quello del capitalismo temperato e democratico, che ha ricostruito economicamente e politicamente il continente dopo il 1945. In breve, abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale, non di riforme che continuano a spingere in direzione opposta.
Gonfaloni di alcune sezioni sindacali: - fornai ebrei di Londra - tecnici delle miniere - facchini del porto di Londra - lavoratori delle ferrovie, marittimi e trasporti