Un popolo che ha subito 50 anni di regime di terrore, che gli ha vietato non solo la protesta, ma anche la libertà di culto e di espressione.
Un popolo che in 20 anni ha ricostruito da zero un paese annientato dall’autocrazia e che con passi da gigante di sta dirigendo verso il traguardo (ancora lontano?) europeo, passando attraverso momenti bui e drammatici, quali il crollo finanziario del 1997 e la crisi del Kosovo nel 1999.
Un popolo che sta imparando a manifestare il proprio disagio, e a prendere coscienza dei propri diritti e libertà. Qualcosa che l’Italia invece pare stia disimparando.
A questo popolo va innanzitutto il rispetto e la solidarietà per aver cercato di svoltare da una situazione che evidentemente non é piu’ accettata come poteva esserlo fino a poco tempo fa.
Era da piu’ di un decennio che l’Albania non viveva una tensione tale da sfociare in una contestazione di massa e da dover piangere tre vittime.
Vittime, a quanto pare, di una polizia filogovernativa che non ha esitato a ricorrere alla violenza e a colpire a sangue freddo civili manifestanti di fronte alla presidenza del consiglio dei ministri, in un boulevard affollato e presto deturpato dall’effetto di lacrimogeni, idranti, pietre e auto incendiate.
Il cuore di una capitale era in fiamme, e lo è stato fino a sera, quando una calma surreale ha preso il posto dei disordini e della violenza.
Ho percorso quella strada centinaia, forse migliaia di volte in quattro anni. Anni in cui ho condiviso molto di quel popolo che manifestava lo scorso venerdì. Anni in cui ho osservato dinamiche sociali, civili e governative da diversi punti di vista: dall’interno, dall’esterno come osservatrice “internazionale”, dalle stesse strade di tirana.
Ma forse mai come oggi in cui mi trovo geograficamente, ma non mentalmente, lontana da quelle scene, mi sono sentita vicina a un paese che ha visto il sacrificio di tre vite umane per ... per cosa?
Qual è stata la vera ragione di uno sconfinamento nella violenza? Cosa ha portato quelle persone a rimanere in prima linea di fronte agli sbarramenti delle forze dell’ordine e a controbattere con tale veemenza?
Le cronache e i media si focalizzano sul dibattito politico che rimpalla colpe e responsabilità tra la maggioranza del Partito Democratico di Berisha e l’opposizione di Edi Rama, le due figure chiave dello stallo che è “in atto” dalle ultime elezioni del Giugno 2009.
Ma per quanto i socialisti di Rama abbiano animato (e organizzato) recenti manifestazioni di protesta, a seguito degli a quanto pare volgari e insostenibili toni utilizzati in Parlamento e delle accuse di corruzione che hanno colpito il vice primo ministro Meta, sono convinta che altre siano state le vere motivazioni.
La rabbia che è esplosa è una rabbia che fa trapelare un disagio crescente da parte della popolazione, dovuta principalmente ad una situazione economica che, nonostante le rassicurazioni da parte delle autorità governative, risente fortemente della crisi internazionale.
In questo senso i dati parlano chiaro: il PIL albanese è passato da una crescita ininterrotta dal 1998 con una media almeno del 6% annuo (6.5% nel 2008), a un 2.2% nel 2009 a un probabile 2.3% nel 2010; il Lek (moneta albanese) ha visto una perdita rispetto all’euro e al dollaro di più del 10% negli ultimi 5 anni, con una conseguente perdita del potere d’acquisto non solo fuori dal paese, ma anche al suo interno, visto che la stragrande maggioranza di prodotti alimentari e non provengono dalla zona euro/dollaro. La disoccupazione crescente unita a redditi in calo (quando non assenti) ha fatto il resto.
Il governo Berisha è venuto meno a promesse elettorali, puntate tutte su un futuro di integrazione europea (l’annessione all’alleanza atlantica era avvenuta appena pochi mesi prima delle elezioni), con manifesti che tapezzavano la città con bandiera europea e logo della NATO. Immagini che fanno (facevano?) sognare un popolo che fino al 1990 non beveva coca-cola e non poteva oltrepassare i propri confini.
Contro questo governo era indirizzata la manifestazione del 21 gennaio, diretta al palazzo della presidenza del consiglio, peraltro preparata alle programmate manifestazioni del PS già dal giorno 16, quando il vice primo ministro Ilir Meta (ironicamente, ma non troppo, colui che ha dato la svolta al Partito Democratico a seguito dei risultati delle elezioni del 2009) è stato costretto alle dimissioni a seguito della pubblicazione di un video che dimostrava il suo coinvolgimento in episodi di corruzione.
D’altronde questa è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, considerando che fatti del genere sono noti alla scena politica albanese: basti pensare al simile caso dell’ex Ministro della Cultura Pango, dimissionario nel 2009 a causa di uno scandalo sessuale; ma anche allo stesso Premier Berisha, travolto, sempre nel 2009, da accuse relative ad appalti truccati e quant’altro per la costruzione de “la Durres-Kukes”, l’autostrada che collega Albania e Kosovo inaugurata (a lavori non terminati) in piena campagna elettorale e considerata l’opera pubblica piu’ costosa (soldi pubblici, appunto) mai intrapresa dall’Albania. Ferito, ma non abbattuto (anche lui).
In un clima di incertezza economica percepito e riconosciuto dalla popolazione albanese, è bastato poco per far ritornare in mente echi di immagini e notizie della fine degli anni ’90. Per non parlare dei rimandi al caso tunisino che, mutatis mutandis, ha rappresentato certo per gli albanesi una molla, una prova che il cambiamento è possibile, anche se a caro prezzo.
Non è pero’ il caso di drammatizzare, come parte dei media internazionali sembrano voler fare, rincarando la dose delle raccomandazioni che dopo poche ore sono arrivate da Bruxelles e dalla compagnia cantante della comunità internazionale. Invocare la calma è d’obbligo, considerando anche la facilità con cui gli animi balcanici si infervorano quando è in gioco non solo il loro futuro, la loro dignità e quella dei loro figli, ma anche e soprattutto il loro presente. Ma non ci sono gli elementi per prevedere scenari apocalittici: piuttosto è il momento che l’Italia (e l’Europa occidentale) si liberi da quel che resta dei pregiudizi su un paese che ben poco ha fatto ancora conoscere di sé, nonostante le affinità (piu’ di quanto si possa immaginare) e gli interessi economici e politici con il paese al di là dell’Adriatico.
Assaggiare la libertà, il gusto del consumismo, la possibilità di “farsi da solo”, anche se non importa come, poter far parte di “famiglie” (NATO, UE ...) piu’ grandi e essere considerati alla pari degli altri. Questo ha portato gli albanesi a passare dal “nulla” degli anni del comunismo al volere “tutto”. Nel frattempo, la transizione è difficile e non sarà breve. Ma stanno dimostrando di avere le carte per potercela fare.
Questa volta dovrebbero essere gli italiani a prendere esempio da loro e non viceversa, come è sempre stato negli ultimi due decenni.
Effettivamente qualcosa è cambiato.
Francesca Fondi
Grazie Francesca per questo affresco che colma una mia ignoranza pressoche' totale
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