Il corno che manca l'ho mangiato mentre scattavo la foto
Lo dico. Ogni volta che torno a casa perlustro come un segugio il territorio in cui sono nata e per dove prediligo muovermi: le strade, le rotonde, i semafori, i dossi, i sottopassi, i parcheggi...tutto ciò che scuote l'ambiente, nel bene e nel male. Guido veloce -seguendo un codice che in Spagna non applico- e potrei farlo ad occhi chiusi nonostante gli anni di lontananza; ogni curva mi appartiene e l'abbraccio, anche se ogni tanto il percorso mi riserva qualche sorpresa.
Tendo poi l'orecchio, attentissimo, alla politica locale, chè pare che nella bassa padovana l'elettorato di centrosinistra non senta riconosciuti i propri valori cristiani nel PD e sia quindi necessaria la creazione di un'ennesima corrente all'interno del partito, per fronteggiare la fuga di voti verso l'UDC. Interminabili serate di prese in giro agli amici di una vita, sotto l'insolito cielo di Calaone, freddo di tuoni e lampi in pieno luglio, davanti ad un prosciutto iberico allevato a ghiande che per una volta ruba la scena al Berico Euganeo. Mi rotolo letteralmente per terra dal ridere mentre proclamo che nel ventunesimo secolo dovrebbe essere vietato per legge sentirsi ancora orfani di Bisaglia e temerne il “figlio bello”, ma nel fondo mi stizzisce molto scoprire che a casa mia la politica abbia ancora il respiro cosí corto quando è tutto il sistema ad essere in gioco, non le ansie di un pugno di cattolici. Invariabilmente mi bècco della snob all'estero e mi dicono che merito pure le punture dei pappataci che mi massacrano senza pietà al lume delle inutili candele; alla fine facciamo pace davanti ad un vassoio di paste di Graziati . Sul cibo non si discute mai, è il cemento della nostra identità culturale, oltre che della nostra amicizia, un'ideologia senza smagliature.
La Regione Veneto ha finora individuato 349 prodotti rappresentativi di tutto il territorio -chissà quanti, in totale, in tutta Italia e che voglia di assaggiarli tutti-; sono “prodotti agroalimentari tradizionali”, lavorati conservati e stagionati in una certa zona in modo omogeneo e seguendo regole tradizionali protratte nel tempo; a questi si affiancano un'altra trentina di prodotti veneti DOP e IGP, secondo i criteri riconosciuti dall'Unione Europea. L'unico campo in cui, nel nostro Paese, l'enorme diversità e varietà costituisce un punto di forza unico al mondo e si traduce in patrimonio inestimabile, è quello legato al settore agroalimentare, quindi alla gastronomia, alla tradizione culinaria.
In Veneto, nonostante la cementificazione massiccia del territorio negli ultimi decenni, l'attività agricola e l'allevamento sono ancora il contrappunto in terraferma di quella Serenissima -quasi alterum Bysantium- che fin dai tempi in cui era un semplice emporio commerciale della periferia bizantina aveva capito che il vero paradiso non poteva essere quello scarno di cibo e bevande prospettato dal cristianesimo. Ci penserà Teofilo Folengo a narrare la cuccagna veneta, con Alpi di formaggio… ora tenero, ora ben stagionato, ora di mezza via… Al basso corrono giù cavi fiumi di buon brodo che poi vanno a finire in un lago di zuppa, in un pelago di stracottini… Ci sono poi costiere di burro tenero e fresco, cento pentole fumano alle nubi, piene di casoncelli, di gnocchi, di tagliatelle.... . E' il repertorio completo delle attuali DOP de IGP di casa mia, formatosi non per le generiche indicazioni di qualche commissario europeo, ma nato da secoli e secoli di spregiudicati e lungimiranti commerci in un crogiolo di culture che forse non ha paragoni al mondo. Non si trattava solo di una miriade di spezie, ma anche di quelle uvette, mandorle e pinoli che nel mio pensiero ancor oggi finiscono nelle torte di ricotta di Boscolo, a Cannaregio; del prezioso zucchero, quello di Caterina Cornaro, -la regina dello zucchero oltre che l'ultima di Cipro-, lo stesso dei petits-fours di Ballarin a Rialto; dell'olio, poi sapientemente curato dal Garda ai colli Euganei, sotto le finestre del Petrarca ad Arquà. O di quegli spinaci, mele cotogne, melanzane , meloni e carciofi -quelli violetti di Sant'Erasmo!- che gli Armeni insegnarono a coltivare e cucinare ai veneziani, combinando nei loro sughi la cipolla con la cannella e l'uvetta, le mandorle con la zucca, ma anche con la trota e con gli sgombri...quel dolzegarbo (molto più di un semplice agrodolce) che e Venezia nasce dal patrimonio ebraico, levantino e ponentino insieme.
Un tesoro immenso di sapori che oggi sopravvive soprattutto grazie all'impegno e all'ingegno di singoli visionari, costretti, per difendere una tradizione destinata altrimenti a scomparire, a navigare il burrascoso mare della burocrazia, al cui confronto la rotta per le Indie era quasi una comoda passeggiata.
E m'interrogo su come un popolo che in Quaresima, al posto del latte vietato, dava ai bambini crema di cioccolato e nei periodi in cui a tavola non era ammesso nemmeno il pesce si squaresimava a base di molluschi e crostacei, si mortifichi ora nella ricerca di un giusto centro.
Nel frattempo, per scongiurare il pericolo che la politica riconsegni la mia Repubblica allo straniero, litigo ad ogni viaggio col direttore del Pedrocchi per i suoi tristi biscotti confezionati e per quel suo zabaione troppo alcolico che non fa onore a Stendhal; saggio la stagionatura del Piave in tutte le formaggerie del Salone ; al Cantón dele Busíe compro olii essenziali per i dolci di un amico espatriato ; e sulla via del ritorno, ormai fuori dallo sguardo severo del Doge Gritti, c'è sempre un posto in valigia per due cornetti ferraresi, il pane più sexy del mondo.
L'Italia, per fortuna, è ancora da mangiare, di baci e morsi. E quest'Italia è ancora un'industria che funziona.
(Le parole in neretto contengono links, N.d.A.)
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