Il 27 agosto i minatori della Carbosulcis si rinchiudono sottoterra a Nuraxi Figus, Sulcis-Inglesiente.
Precedentemente gli operai dell’Alcoa di Portovesme
(ancora Sulcis-Iglesiente) avevano prima bloccato la strada per l’aeroporto,
poi si erano buttati in mare per impedire l’attracco di una nave nel porto di
Cagliari.
Ma già nel gennaio scorso durante un’accesa puntata
della trasmissione “Servizio Pubblico”, era esplosa contro l’ex ministro
Castelli la rabbia di Antonello Pirotto, cassaintegrato dell’Euroallumina di
Portovesme (frazione di Portoscuso, Sulcis).
Di quell’episodio ricordo due sensazioni. Uno: l’imbarazzo
- di quando si assiste ad una solitaria dimostrazione di coraggio - come se, abituati
a convivere con il potere, ci sembra una trasgressione smascherarne le
prevaricazioni e vorremmo evitare il senso vuoto da “terra bruciata” che sappiamo
certamente seguirà. Due: la solidarietà - non tanto per il contenuto di quelle
affermazioni ma per la straordinaria personalizzazione dell’attacco. Oltre
all’insulto c’era infatti l’orgoglio di un uomo che si sentiva personalmente colpito dall’astrattezza
e dall’indifferenza della politica. Nel suo urlo anaforico il “lavoro” veniva
invocato come soluzione per rimettere in marcia il commercio e l’economia. E
non in un territorio qualsiasi, ma: “nel mio territorio” o meglio “nel mio territorio, distrutto”.
I minatori di Nuraxi Figus compiono oggi un gesto
plateale e lo fanno a nome di un’intera area depressa e in grave sofferenza. Se
per gli agricoltori c’è l’occupazione della terra e per gli operai quella delle
fabbriche, per chi lavora nel sottosuolo dare visibilità alla propria protesta
significa “inabissarsi”. La lotta è quasi una punizione, una sorta di sacrificio
- perché quei luoghi funzionano ai
nostri occhi come allegorie di cavità ctonie, recessi angusti dove è sempre
notte.
E mi colpisce, per un inevitabile gioco di
interferenze letterarie (pirandelliane, ariostesche) che mentre nei giorni scorsi
la cronaca celebrava, come atto di scoperta e libertà, il primo passo dell’uomo
sulla luna, un centinaio di uomini decideva di difendere il proprio diritto
alla libertà facendo un viaggio inverso, ma altrettanto simbolico e “soprannaturale”.
Come il vallone lunare per il duca Astolfo, per i minatori del Sulcis è il
cuore della terra che custodisce ciò che sulla terra si perde: il lavoro, la
dignità, la libertà. Ma se tale perdita accade e non vi si pone rimedio - ce lo
ricordano i minatori con la loro lotta - non è certo per “nostro difetto o per
colpa di tempo o di Fortuna”.
Francesca
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