di Nicola Melloni
da Liberazione
L’Italia è in recessione e ci rimarrà anche il prossimo anno. E la
responsabilità maggiore ricade sul governo Monti (e sul suo predecessore
Berlusconi). Se queste parole non le avesse dette il governatore della
Banca d’Italia Visco, qualcuno avrebbe potuto pensare alla solita
“propaganda comunista”. Ed invece….
Iniziamo dai numeri. Per mesi ci avevano raccontato che rimettendo a
posto i conti pubblici il Pil sarebbe di nuovo cresciuto già nel 2012,
ed invece il calo è stato superiore al 2%. Ci hanno allora detto che nel
2013 si sarebbe invertita la tendenza: ed invece già adesso Bankitalia
ci anticipa che anche per quest’anno saremo in recessione. Poi, forse,
dal 2014, le cose andranno meglio – ma non c’è tanto da fidarsi, data la
costante sovrastima da parte di tutti i centri studi (e qui delle due
l’una: o sono totalmente incapaci o mistificano la realtà ad uso
politico).
E per quanto riguarda le responsabilità di questo sfacelo? Anche qui
continuiamo a seguire il discorso di Visco, d’altronde i numeri, per una
volta, non mentono. Monti, Scalfari e i custodi dell’ortodossia
monetarista e filo-governativa possono arrampicarsi sugli specchi finché
vogliono, ma la realtà è davanti agli occhi di tutti: il maggior
responsabile della recessione della nostra economia è il governo da poco
dimesso. Certificato, appunto, da Bankitalia che nelle sue tabelle
analizza le origini della recessione e spiega che la parte del leone
l’hanno fatta le svariate finanziarie di questi anni. Non è certo una
sorpresa, per noi almeno. Sono ormai due anni che economisti di sinistra
e commentatori di varia origine denunciano l’assurdità delle politiche
di austerity. Ultimamente si è aggiunto al coro anche il Fondo Monetario
Internazionale che ha rivisto i suoi parametri per le previsioni
economiche: anche a Washington si sono finalmente accorti che i tagli di
bilancio deprimono il Pil, ben oltre le iniziali previsioni (frutto di
un calcolo sbagliato – non è dato sapere se consapevole o meno – del
moltiplicatore keynesiano). Ma Monti e suoi non hanno voluto ascoltare
nessuna di queste voci, testardi come solo i professori arroganti
possono essere. E allora avanti con i tagli, con il bel risultato che la
nostra economia sta sprofondando.
Ma, ci continuano a dire media e politici in piena campagna
elettorale, questi tagli erano indispensabili per rimettere in sesto i
conti pubblici. Peccato che questi siano in realtà peggiorati da quando
Monti è al governo: deficit ancora sulla fatidica soglia del 3% del PIL,
rapporto debito/Pil in continua ascesa. Non era d’altronde difficile
prevederlo: i tagli e le tasse maggiori deprimono l’economia (il
denominatore scende) ed allo stesso tempo riducono le entrate fiscali ed
aumentano i costi del welfare, tipo cassa integrazione (e dunque il
debito-numeratore aumenta). A giustificare i tagli rimane allora solo
la favoletta dello spread, calato grazie al salva-Italia. Peccato che
proprio all’indomani della finanziaria "lacrime e sangue" di Monti (in
aggiunta ai tagli selvaggi di Berlusconi-Tremonti), i tassi di interesse
abbiano raggiunto i massimi di questa crisi. Ormai la storia dello
spread è stata smascherata e non ha nulla a che fare con l’operato del
governo Monti – per maggiori informazioni rivolgersi a Mario Draghi, al
suo ufficio della BCE.
Davanti a questi dati drammatici ci si aspetterebbe una lunga
discussione e una rimodulazione dei programmi, soprattutto in una
campagna elettorale che dovrebbe essere decisa proprio sui temi della
crisi. Da una parte Monti e i suoi centristi non possono essere
credibili nei loro programmi economici, ancorati come sono alla logica
dell’austerity. E sicuramente una credibilità maggiore non può avere
Berlusconi che l’austerity l’aveva iniziata già prima di Monti e che ha
sostanzialmente sottovalutato gli effetti economici della crisi
finanziaria. Ma non è certo molto meglio il programma Bersani che si
delinea comunque in continuità con l’agenda Monti, appoggiata "senza se e
senza ma" per oltre un anno. Il punto in questione è che, bloccati dai
trattati europei, la politica dell’austerity è destinata a continuare.
Il fiscal compact prevede una riduzione continuativa del debito in
eccesso del 60% del Pil nel giro di 20 anni – circa 50 miliardi solo per
il 2013. Con nessuna garanzia, come abbiamo visto, che questi tagli
producano l’effetto sperato e abbassino il rapporto debito/Pil, con il
rischio aggiuntivo di sanzioni da parte della UE.
Di fronte a tutto questo il Pd e Sel non hanno nulla da dire. Non una
denuncia, o almeno una ridiscussione dei trattati europei; non una
apertura sulla patrimoniale, l’unico vero strumento per rimettere
seriamente a posto i conti pubblici, con effetti assai meno depressivi
sui consumi. Una coalizione che si definisce progressista non vuole
nemmeno discutere una tassa che colpisce i patrimoni maggiori in un
paese dove il 10 per cento della popolazione controlla il 50 per cento
della ricchezza. E soprattutto in un paese dove la ricchezza privata è
ben cinque volte superiore al nostro debito, e dove dunque si potrebbero
trovare soluzioni alternative all’austerity. Solo su queste basi si può
battere la destra, che non è certo solo quella di Berlusconi. E’ quella
che in Italia, Spagna, Grecia, ma anche nel resto d’Europa, affama il
lavoro e non tocca i privilegi dei ricchi, nascondendosi dietro
fallimentari ricette economiche.
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