di Nicola Melloni
da Liberazione
Che il partito maggiore uscito dal Pci abbia avuto, per molti anni, un rapporto quantomeno fuori luogo col mondo della finanza è un dato lapalissiano, sotto gli occhi di tutti. A cominciare naturalmente dalla merchant bank di Palazzo Chigi ai tempi di Massimo D’Alema, il paladino della centralità della politica. Peccato che, entrato da novizio nel mondo del business, la politica diventò la ruota di scorta della finanza, e i capitani coraggiosi si trasformarono in rentiers e speculatori. Non contenti della disfatta, quelli che erano allora Ds provarono a rifarsi con le banche, col connubio Consorte-Fassino e Unipol e molte delle Coop maggiori lanciate alla conquista della finanza, scegliendosi ancora una volta compagni di strada un po’ meno che raccomandabili. Ed intanto a Siena, con Fondazione e Banca controllati (o almeno così pensavano!) dai Ds e con dentro altre importanti Coop, si faceva muro contro Unipol, mentre si trafficava su sentieri paralleli con Antonveneta. Tutti sappiamo come sono finite entrambe le faccende. Che sembrano dunque dare ragione a Monti, con un ruolo della politica non proprio positivo.
Ma si tratta di un problema ben più complesso. Cioè quello di una politica che, persa autorevolezza tra i cittadini, i lavoratori, le imprese, cercava di riacquistarla dall’alto, provando a decidere le sorti del paese influenzando i consigli di amministrazione. Una sorta di modello dirigista, senza però nessun presupposto istituzionale e con in più la costante presenza di politici incapaci e manager infedeli. In questa maniera i supposti controllori, i politici, diventano in realtà catturati in una rete più grande di loro in cui il gioco veniva comunque diretto dai supposti controllati. Diventa altrimenti difficile da capire come, nel caso Mps, la politica potesse dare il via libera alla sciagurata acquisizione di Antonveneta che, proprio per le dimensioni dell’affare, non poteva più essere gestita dentro i limitati confini di Siena e della Fondazione. Credendo di dettare la linea, in realtà la politica accettava supinamente le regole fatte altrove, nel mare magno della finanza, dove la dimensione contava più della vocazione (leggi: del ruolo economico della banca) e dove i manager (leggi: il “compagno” Mussari) imbracciavano senza remore il modello d’azienda più spudoratamente neo-liberal, curandosi solo della massimizzazione dello share-holder value (spesso legato a doppio filo ai compensi dei dirigenti) piuttosto che della solidità e della crescita della compagnia.
Quello che ha tentato di fare la politica italiana (e non solo: basta guardare alla Spagna per capire immediatamente di non esser soli), in realtà, è stato semplicemente di cavalcare la tigre della finanza. Seguendo in questo il capostipite della cosiddetta Terza Via, quel Blair che ha portato la City al suo massimo splendore, sempre nella convinzione di averne il controllo. E di sicuro finché la bolla cresceva, anche a Londra, eran tutti, o quasi, contenti. Banchieri e bancari con conti in banca da capogiro, nuovi grattacieli, posti di lavoro, economia in crescita, mentre lo sporco (scandali, diseguaglianza sociale, comunità locali che andavano a picco) veniva nascosto sotto il tappeto. Salvo risvegliarsi un giorno e scoprire che nessuno controllava le banche che facevano i comodi loro, e continuano a farli. Basti pensare che solo negli ultimi due giorni assistiamo a Londra a due nuovi scandali, con i maggiori istituti di credito accusati di aver turlupinato piccole e medie imprese offrendo fregature sotto forma di derivati, e con Barclays coinvolta nell’ennesima truffa, questa volta per aver taroccato il valore delle sue azioni offrendo denaro in prestito ai suoi investitori per comprare azioni di Barclays stessa, un po’ alla moda dei furbetti del quartierino; in fondo tutto il mondo è paese!
Il problema sembra dunque andar ben al di là delle minuscole beghe di casa nostra – in cui però ci distinguiamo sempre con onore: finanza cattolica, grembiuli e compassi, sinistra alla moda… La realtà è che il mondo occidentale, quello per decenni contraddistinto dalla convivenza-collaborazione tra democrazia e capitalismo, ha allevato nel proprio seno una serpe che è ormai pronta a sbranarlo. Un sistema finanziario senza limiti e controlli contrapposto ad una politica debole e vile, in ginocchio davanti al potere del denaro transnazionale e incapace di regolarlo. Una situazione che, lo vediamo ogni giorno, porta alla crescita di un potere parallelo e nemmeno troppo occulto, quello dei mercati finanziari, che, oltre ad asservire e strangolare il capitalismo imprenditoriale, rischia di rendere sostanzialmente inutile la democrazia che scrive i compiti sotto dettatura. Ne consegue, infine, che l’iniziale grido di rabbia di Bersani, fuori le banche dalla politica, è sicuramente giusto. Peccato che venga da chi ha sostenuto un governo guidato da Mario Monti.
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