Con buona pace di quelli che ancora danno la colpa a Bertinotti.
Bello anche vedere come per il signor Marini la corsa al Quirinale sia un po' un mercato della vacche. A sto giro, pare, tocca a lui.
Marini: cosi' io e D' Alema facemmo cadere Prodi
da Corriere della Sera, 29 Maggio 2001
di Francesco Verderami
"Io, D' Alema e il complotto contro Prodi"
«E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi». Ancora nessuno
nel Palazzo aveva pensato di sollevare quel dito di polvere sotto il
quale riposa il dossier sulla crisi che aveva travolto il governo dell'
Ulivo. A suo tempo la vicenda era stata catalogata come un caso politico
dai contorni poco chiari e pieno di indizi compromettenti, la cui
riservatezza stava a metà strada tra il terzo mistero di Fatima e il
segreto di Pulcinella. Fu durante una cena, alla vigilia della campagna
elettorale, che Marini decise di sollevare quel dito di polvere, e a
distanza di qualche mese l' ex segretario del Ppi conferma le parole
pronunciate quella sera, «anche se bisogna dargli una valenza storica e
non di cronaca. Perché io sono convinto che non bisogna disperdere il
risultato della Margherita». Sarà, ma con quella storia l' Ulivo deve
oggi fare i conti, da lì è chiamato a ripartire, dal 9 ottobre del 1998.
«E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi. Solo che io non
mi sono mai pentito, Massimo sì. Ha provato perfino a riappacificarsi
con Romano. Chissà, forse sperava di salvare palazzo Chigi. Che volete
farci, uno il coraggio o ce l' ha o non ce l' ha». Un paio di commensali
interruppero di colpo la masticazione, altri gli riservarono uno
sguardo interrogativo. Marini non si curò e proseguì, disse che con
Prodi «da quando era successa quella cosa», dai tempi del complotto
insomma, «non ci parliamo più»: «Sì, ci siamo incrociati alcune volte a
Strasburgo, ma non ci siamo nemmeno salutati. E' andata così». Marini
ripetè a cena di non essersi pentito, «non mi sono pentito», perché in
politica non esistono peccati, semmai progetti che non coincidono con
progetti altrui e portano allo scontro. Pentirsi avrebbe significato
rinnegare quel progetto che l' ex leader popolare aveva coltivato
assieme a D' Alema, e sulla cui fine parlò più volte: «Fu incredibile
come si comportò durante la partita del Quirinale». Per ripararsi dal
freddo e dalla solitudine con cui Bruxelles accoglie gli
europarlamentari, una sera Marini raccontò a un amico democristiano
passato con il Polo che non avrebbe mai potuto perdonare D' Alema, «non
si può perdonare un simile errore». L' asse tra i due era nato nei
giorni delle trattative elettorali per la composizione delle liste del '
96, si era poi saldato con l' avvento di Marini a piazza del Gesù ed
aveva condotto l' allora segretario dei Ds a palazzo Chigi. A quel punto
il Colle toccava al Ppi, «tocca a noi il Quirinale», annunciò
pubblicamente Marini. A Bruxelles certe notti non passano mai: «Mi
ricordo la cena a quattro. Io, D' Alema, Veltroni e Mattarella. "Siamo
d' accordo, allora. Votiamo la Jervolino". Poi Massimo si fece
convincere che era meglio eleggere Ciampi. Temeva forse di averlo come
antagonista nella corsa per la premiership alle successive elezioni
Politiche. Solo che così ruppe tutto e condannò anche se stesso alla
sconfitta». Come un generale in esilio, Marini evitò quella notte di
ricordare i propri errori, le tante zone d' ombra nella sua strategia,
gli equivoci che aveva alimentato sulle proprie ambizioni personali mai
smentite e celate dietro i tanti, troppi candidati popolari «che i Ds
alla fine ti bruceranno», lo avvisò per tempo Cossiga. Così fu. Prodi
lasciò che fosse Veltroni a organizzare la vendetta, sorrise ammiccando
quando il successore di D' Alema a Botteghe Oscure gli disse che «non è
ipotizzabile un popolare al Quirinale, non è questione di nomi, è che
non possono pensare di ottenere anche quella carica. Sono già
sovra-rappresentati rispetto alla loro reale forza». Quando Ciampi venne
eletto, D' Alema inviò un biglietto: «Caro Franco, probabilmente in
questo momento non capirai. Ma io l' ho fatto per l' Ulivo». Nella sua
stanza a piazza del Gesù c' erano poche persone, alcuni dicono che
Marini non commentò, altri raccontano di averlo sentito sibilare: «Ma
quale Ulivo, l' hai fatto solo per te stesso». Tutti giurano di avergli
visto stracciare la missiva. Per Marini giunsero momenti duri, le
dimissioni da segretario del Ppi erano l' ammissione del fallimento
nelle trattative per il Colle, più che la constatazione di una sconfitta
elettorale alle Europee. Perché il «patto del Quirinale» con D' Alema
non rappresentava solo una spartizione di potere e di poltrone, ma il
suggello di un progetto politico con cui affermare il ruolo dei partiti
nella coalizione e al di sopra della coalizione. Sarebbe stata la
vittoria sugli ulivisti, la vittoria contro chi voleva togliere il
trattino dalla parola centrosinistra, e cancellando quel trattino voleva
cancellare le differenze, affermare il primato dell' alleanza sulle
forze politiche che ne facevano parte. Per quanto bizantina apparisse la
disputa, il confronto fu scontro di potere. Violento. E se è vero
che «io e D' Alema complottammo contro Prodi», è altrettanto vero che
Prodi quella sorda guerra la combattè. Anche se la perse per un voto
alla Camera, quando chiese la fiducia per il suo governo nel pomeriggio
del 9 ottobre ' 98. Conosceva da mesi il disegno degli «alleati», poco
dopo l' ingresso dell' Italia nell' Euro aveva detto ai suoi che «contro
di me è iniziata la caccia alla volpe. Stanno già ferrando i cavalli».
Così si spinse a giocare d' anticipo. Nel giugno di quell' anno - per
il voto sul Documento di programmazione economica e finanziaria -
sapendo che Bertinotti stava per abbandonarlo, il premier tentò di
conquistare i voti dell' Udr senza pagar dazio, «e questo giochetto
Romano l' ha preparato da tempo», s' infuriò D' Alema, «perché da mesi
inciucia con Cossiga», «perché punta a prepararsi una maggioranza di
riserva», «perché i democristiani non cambiano mai». Quando il leader di
An si alzò in aula alla Camera per attaccare «i puttani della politica»
che abbandonavano il Polo, e disse che «Prodi si sente furbo ma è solo
un doroteo», che «parla di bipolarismo ma maneggia il trasformismo», D'
Alema si sfogò all' orecchio di Mussi: «Fini non ha torto». La guerra
era di fatto iniziata. Botteghe Oscure e piazza del Gesù lavoravano
alacremente per scalzare Prodi. Fu il Foglio ad anticipare la manovra:
«D' Alema punta a palazzo Chigi». La smentita anticipò di due giorni l'
idea lanciata pubblicamente da Marini: «Romano potrebbe andare a
presiedere la Commissione europea». Il primo governo a guida
post-comunista sarebbe nato il 21 ottobre del ' 98 e già il 18 settembre
il leader del Ppi aveva stabilito che «Mattarella sarà vice premier a
fianco di Massimo». Prodi sarebbe caduto il 9 ottobre e già a settembre
emissari della Quercia avevano sondato gli alleati sul nome di D' Alema.
«Lo sosterreste come capo del governo?», chiese Ruffolo lasciando di
sasso il socialista Villetti. E mentre «il complotto» si realizzava, il
premier giocò d' azzardo. «Ma io non mi comporto come quelli di palazzo
Chigi che la sera chiedono i voti di Cossiga per salvarsi e la mattina
dopo lo attaccano sui giornali», s' indignò l' allora segretario della
Quercia. Peccato che Cossiga mantenne la promessa con Prodi: «Caro
Romano, prima ti aiuto e poi ti fotto». Poi diede i suoi voti a D'
Alema. Subito dopo lo scioglimento delle Camere, in piena campagna
elettorale, il comunista Diliberto ha confidato che «D' Alema non voleva
andare a palazzo Chigi in autunno, ma in primavera. Lui sperava che
Prodi rimanesse al governo per completare la Finanziaria, in modo da
succedergli l' anno dopo. Solo che Bertinotti e il premier bruciarono i
tempi per bruciargli i piani». Quel pomeriggio del 9 ottobre, appena
Violante annunciò il voto di sfiducia, Occhetto gridò in Transatlantico
al «complotto che si è incarnato nelle manovre dei colonnelli
dalemiani», gli ulivisti videro avvicinarsi le fiamme dell' inferno,
«perché da oggi inizierà a sinistra un processo di balcanizzazione» fu
il commento di Mussi, «e i morti si conteranno per le strade» concluse
Diliberto. La sinistra sapeva che avrebbe pagato a caro prezzo quel
passaggio, non immaginava quanto, «e se veramente esiste il paradiso -
sorrise il veltroniano Leoni - noi ce lo saremmo già guadagnato». Perché
da allora il centrosinistra non trovò più pace: la nascita dei
Democratici, il fascista Misserville sottosegretario per un giorno, il
D' Alema uno e il D' Alema due, il crollo alle Regionali, Amato e la
battaglia su chi avrebbe dovuto guidare «il nuovo Ulivo», la doppia
cabina di regia, le trappole a Rutelli, la vittoria di Berlusconi.
Cossiga lo aveva preannunciato: «La maledizione del Tutankhamon di
Bruxelles si abbatterà sui complottardi». «Non si può perdonare
quell' errore di D' Alema», spiegò Marini nella hall dell' hotel di
Bruxelles. E' dunque vero che i due complottarono, e che l' ex
segretario del Ppi non si è mai pentito. Anzi, con Prodi l' ex leader di
piazza del Gesù tornò a ingaggiare un duello a distanza, perché la
scelta di Castagnetti alla segreteria del Ppi aveva come primo obiettivo
agganciare i Democratici. «Dobbiamo accordarci con il somaro», diceva
Marini. Che però temeva le mosse nell' ombra del presidente dell' Ue, ne
vedeva la manona, il tentativo di impedire l' intesa per costituire la
Margherita. Così, tra il serio e il faceto, un giorno Marini promise che
«se a Bruxelles dovesse organizzarsi un complotto, io ne farò parte. Lì
conto meno, è vero. Ma ci sarò. Invece di venire a pedalare in Italia,
Prodi se ne stia in Belgio e lavori. Ho visto i voti che gli hanno
assegnato alcuni giornali internazionali. Voti negativi? No, anzi, sono
stati fin troppo generosi». A volte ci ripensa Marini. E non riesce a
darsi pace di come D' Alema abbia distrutto quel progetto politico. «E'
vero, complottammo contro Prodi. Solo che io non mi sono pentito. Lui
sì, pensava forse di salvarsi». Invece non è accaduto, e da quando D'
Alema non è più a palazzo Chigi, l' ex leader del Ppi ogni tanto si
lascia andare a qualche puntura di spillo contro l' ex alleato: «Sta
messo male nel suo partito, mi pare...». Se una dote si è portato
appresso dalla sua storia sindacale, è quella della concretezza. Non gli
piacciono gli scenari arzigogolati, quei disegni strategici fatti di
tasselli che poi non stanno insieme. Fino all' ultimo tentò di tenere
con sé il suo successore alla guida della Cisl, e quando non ci fu più
niente da fare disse che «D' Antoni è troppo ambizioso», e che «la
troppa ambizione può essere nociva. Prendete D' Alema...». Quando
durante la campagna elettorale seppe che l' ex premier diessino si
incontrava con Andreotti per parlare di un futuro, ipotetico, nuovo
centrosinistra ebbe un' impennata: «Ancora con ' sta storia che
Berlusconi non dura, che è transitorio, che un pezzo di quei voti di
centro verrà di qui... Sono sette anni che dicono sempre le stesse cose,
sono sette anni che Berlusconi è ancora là». Ora che il
centrosinistra deve accettare la sconfitta subita dal Cavaliere
«transitorio», ora che deve prepararsi a fare opposizione al governo del
centrodestra, ora si solleva quel dito di polvere sulla vicenda che
frantumò l' Ulivo. «E' vero, io e D' Alema complottammo contro Prodi»,
ammette Marini. Il punto è che non fallì allora solo Prodi e il suo
disegno, fallì anche il progetto alternativo. Sale il sipario sulla
Quattordicesima legislatura, l' Ulivo deve ancora fare i conti con il
suo recente passato
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