giovedì 14 aprile 2011

Mano pubblica, Stato e irrazionalità del mercato


Dopo l’intervento di Tremonti a difesa dell’italianità di imprese strategiche – in questo caso Edison e Parmalat – si è riaperto tra giornalisti e commentatori il dibattito sul ruolo dello stato in economia. La discussione è diventata ancora più animata con l’uscita di scena di Geronzi, banchiere di sistema e rappresentazione viva e plastica del rapporto tra potere politico e potere economico.
Alcuni liberali hanno visto nell’uscita di scena del presidente di Generali una rivincita del mercato che finalmente si libera dai maneggi della politica e dalle opacità di scelte industriali legate a criteri non economici. Nel caso di Geronzi, è difficile dar torto a chi sostiene tale tesi, Geronzi era proprio l’emblema dell’opacità, il simbolo dei poteri forti che controllano politica ed economia, stato e mercato. Quello che però troppe volte fanno gli economisiti liberali, a cominciare da Luigi Zingales, sul Sole24ore, è confondere azioni e degenerazioni, come se l’intervento politico fosse sinonimo di corruzione ed inefficienza. Fattosi probabilmente prendere la mano da una qual certa verve polemica, l’economista di Chicago arriva a sostenere che troppi interventi di sistema trasformano l’economia di mercato in socialismo (sic!) interessato solo a scelte clientelari e di “autoriproduzione di una casta ristretta di manager”. Zingales però dovrebbe sapere che l’Italia dell’Iri (ma anche quella dei distretti industriali) non era assolutamente un’economia socialista, nè lo erano Francia, Germania e soprattutto Giappone, dove l’interazione tra stato e mercato ha portato a risultati che difficilmente potrebbero essere descritti come deludenti.
Il problema dell’Italia non è il ruolo dello stato in economia, ma piuttosto il tipo di stato in cui viviamo. Uno stato che ha perso progettualità e la capacità di indirizzare scelte strategiche in campo economico per il bene collettivo piuttosto che per l’interesse di pochi. Che il bene collettivo, poi, non venga fatto neppure dal mercato pare piuttosto evidente rileggendo la storia economica mondiale degli ultimi vent’anni. Nei paesi occidentali tutti, nessuno escluso, il diminuito ruolo statale ha portato a maggiori sperequazioni nella distribuzione del reddito e ad una crescente povertà, mentre la crescita economica è stata di gran lunga inferiore a quella registrata negli anni d’oro del capitalismo keynesiano. Nel resto del mondo le economie in transizione o via di sviluppo che si sono affidate alla razionalità del mercato hanno fatto una brutta fine, mentre quelle in cui lo stato è intervenuto in maniera virtuosa hanno registrato successi impressionanti.
Basti pensare al caso della Cina, in cui certo molte riforme liberali sono state intraprese, ma lo stato non ha mai rinunciato al suo ruolo. Le grandi imprese non sono state privatizzate, anche a costo di scontare qualche inefficienza, sia per ridurre i costi sociali che per mantenere un controllo politico sulla direzione dell’economia cinese. Controllo politico, in questo caso, vuol dire prospettiva sul futuro, capacità di identificare i punti di forza di un paese e non lasciare tutte le decisioni alla logica del profitto, profitto che nelle economie di mercato è legato al guadagno immediato che può essere razionale nel brevissimo periodo ma deleterio nel medio periodo.
Questo Tremonti l’ha capito, rilanciando una versione moderna del colbertisimo e di protezione delle aziende nazionali, legata soprattutto al sistema bancario padano ed al legame con il territorio. Una visione che rimane però di corto respiro. Il governo italiano ha il dovere di ricominciare a fare politica industriale, con o senza partecipazioni pubbliche ed il ruolo dello stato non può essere ridotto a garantire beni pubblici, come invece sosteneva domenica Scalfari su Repubblica. Il che però non vuol dire difendere a tutti i costi l’italianità di alcune imprese o di certe banche come all’epoca dei furbetti del quartierino. Nè compiacersi per la supposta garanzia di italianità della Fiat, quando questa invece lavora per ridurre il paese tutto ad una catena di assemblaggio in competizione con il Sud del mondo e non con le economie più avanzate. Significa, invece rilanciare il sistema paese, attraverso investimenti di qualità, maggiore ricerca, difesa e promozione all’estero di alcuni settori chiave che invece sono abbandonati a se stessi, come recentemente denunciato anche da Confindustria. Significa soprattutto abbandonare gli interessi particolari dei poteri forti e delle oligarchie che bloccano il paese da trent’anni, tenendo in scacco una politica il cui problema è essere imbelle prima ancora che nociva.
Nicola Melloni (Liberazione)

1 commento:

  1. Ineccepibile.
    Anzi, mi eccita immaginare Tremonti quale novello Colbert. Quello però era un sistema di protezionismo con radici robustissime, che affondavano almeno nel Cinquecento

    RispondiElimina