Il riaccendersi del dibattito sulla Tav in Val di Susa ci pone alcuni “nodi” relativi al rapporto tra democrazia e modernità e sulle dinamiche del processo politico all’interno della società italiana. Il pensiero dell’establishment di governo è mirabilmente riassunto da Irene Tinagli che su La Stampa di Martedì (vedi QUI) attacca il movimento No-Tav come retrogrado, preoccupato solo dei suoi interessi egoistici e indifferente di fronte ad un paese in declino.
La Tav - ci viene detto - è la porta sul futuro, come lo era internet dieci anni fa ed è un treno che non possiamo perdere; d’altronde, «tutti gli altri paesi europei hanno più chilometri di alta velocità rispetto al nostro paese», per non parlare poi della Cina e dei suoi investimenti futuristici in infrastrutture. Cerchiamo di capire meglio. Quando si fanno paragoni bisognerebbe avere contezza di ciò di cui si parla, cosa che purtroppo accade sempre più raramente, con la propaganda che soppianta l’analisi. Innanzittutto non è vero che l’Italia sia «il fanalino di coda» dell’Europa in fatto di alta velocità. La Gran Bretagna ad esempio ne ha assai meno. Magra consolazione, si dirà. E’ certamente vero che paesi come la Francia e la Spagna hanno investito massicciamente sul trasporto veloce su rotaia. E’ altrettanto vero, però, che la struttura geo-morfologica di quei paesi è assai diversa dalla nostra. La Parigi-Marsiglia non ha avuto bisogno di bucare nessuna montagna e così pure la Madrid-Barcellona. Quisquilie, davanti al miraggio di progresso che ci propone la Tav. Perchè «l’interesse generale deve prevalere sugli egoismi particolari»! In Francia, la patria dell’alta velocità, però, la parola finale su questi progetti spetta alla comunità locale, che viene coinvolta in tutti i passaggi e deve essere convinta della bontà dell’opera. I liberali (ma di che liberalismo si tratti, non è facile capire) alla Tinagli, in realtà, propongono un nuovo modello di patto sociale. Criticano in maniera assidua il cosiddetto Nimby (Not in my Back-yard, «non nel mio cortile di casa») e sono fautori agguerriti del modello thatcheriano Tina (There is no alternative, «non c’è alternativa»). Non solo per la Tav. Vale lo stesso per le finanziarie “ammazzapopolo” in Grecia – ce lo impone il mercato, l’Europa – o per la riduzione dei diritti sindacali in Fiat – che altrimenti andrebbe a produrre altrove. Il leit motiv, per altro, è il costante paragone farlocco con altri paesi.
In realtà delle alternative esistono sempre. La Tav, dice Tinagli, non è una schiacciante necessità, spiegando però che il senso degli investimenti è proprio quello di una «programmazione che guarda in avanti». Benissimo, ma il punto è il futuro che abbiamo in mente. Quali altri investimenti si potrebbero fare con i milardi della Tav? Forse nelle ferrovie regionali, migliorando le condizioni di trasporto (e dunque, di vita) di milioni di pendolari, favorendo in maniera decisiva la mobilità del lavoro. Magari si potrebbe puntare ad investire dove il paese ha un vantaggio comparato (ad esempio, le lunghe coste) e non dove invece ha problemi strutturali (la presenza di montagne). Si potrebbe valutare di ricostruire le aree portuali industriali che in Italia sono nel centro delle città di mare e che se spostate potrebbero essere messe in rete con un sistema di trasporti integrato che preveda meno trasporto su gomma, costi di trasporto inferiori (quelli marittimi sono i più bassi) ed il rilancio della cantieristica navale. Insomma, le alternative esistono eccome, guardano al futuro ben più della Tav, e se ne potrebbe, se ne dovrebbe discutere.
Perchè il senso della democrazia è che le decisioni, soprattutto quelle che riguardano il futuro del Paese, vanno prese insieme a tutti i soggetti coinvolti e non bisogna sempre obbedire alle deliberazioni senza appello prese da altri (l’Europa, i mercati). Il movimento No-Tav, dunque, è il cuore stesso del possibile risveglio democratico del paese, quel risveglio che, ad esempio, ha rifiutato nucleare e privatizzazione dell’acqua. Un filo rosso lo lega agli operai di Mirafiori, agli studenti anti-Gelmini, ai lavoratori greci. Per «coagulare una visione condivisa del bene comune» non si può più prescindere dal coinvolgimento della popolazione. Dalla democrazia.
Di Nicola Melloni da "Liberazione"
Io reclamo alla Tinagli, al Governo,agli amici del Governo, all'opposizione che non vota l'abolizione delle province e non solo, all'Europa, alla BCE, al FMI e a tutti coloro per i quali la "visione condivisa del bene comune" non ha altro significato se non quello del dissipare, l'austerità di Berlinguer, quella del gennaio '77, che è soprattutto austerità morale. E da lí cominciamo a ricostruire, ma per portare l'alta velocità alla democrazia.
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